Testimonianza di Nerina Monti

Nerina Monti (1924-2023)

Giunsi all’Ospedale di notte, verso le 22 o le 23 del 26 gennaio 1945. Fui portata da un vicino, con un’altra donna ferita: Virginia Taroni Renzi, su un barroccino trainato da un somaro. Eravamo rimaste ferite entrambe da schegge di granata mentre stavamo raggiungendo il nostro rifugio. Avevo perduto il piede destro. Mi portarono in cantina; c’era molto buio in quell’ambiente. Ricordo che fu avvertito il dott. Bassi e, mentre lo si attendeva, furono fatti i preparativi per l’operazione.

Quando il medico giunse, mi misero sul lettino di medicazione vicino ad una colonna. Attorno a me c’erano il medico, gli infermieri ed altre persone: mio padre era al mio capezzale. Ricordo la lampada portatile, che illuminava appena il campo operativo e veniva continuamente spostata secondo il bisogno, e la prima iniezione, forse di morfina, che mi fecero,
Ero cosciente perché, non essendoci anestetici, si operava a caldo. Non riuscivo a capire ciò che mi stavano facendo. Sentivo un gran male, ma, soprattutto, ricordo il tormento che provai quando mi segarono le ossa: è un effetto tremendo. Nel corso dell’operazione ero io che facevo coraggio a mio padre che mi stringeva il capo con tanta emozione. Quando l’intervento finì mi sistemarono su una rete da letto che era posata sul pavimento della cantina sulla quale c’erano un materasso, i lenzuoli ed una coperta. Ero spossata e sconvolta. Mi dissero che mi avevano amputata la gamba sotto ii ginocchio. Il mattino successivo mi resi conto dell’ambiente in cui stavo. Era una vasta cantina divisa a metà, per la lunghezza, da una serie di colonne. Lungo le pareti erano sistemate, a due a due, delle reti posate sul pavimento, molto vicine per dare la possibilità di ospitare il maggior numero possibile di persone. Altre reti erano vicine alle colonne; in fondo, dalla parte di Imola si trovava un mucchio di carbone. Eravamo circa quaranta persone, tra feriti, ammalati, infermieri e parenti dei feriti; i cronici, le suore, un medico, le orfanelle, i portafeniti, il personale di servizio, altri parenti dei feriti erano ospitati in altre tre cantine. Penso che complessivamente fossimo ottanta o novanta persone.

Di giorno la luce filtrava del finestrini protetti dai muri antischegge. Alcuni lumini ad olio assicuravano una flebile luce di giorno e di notte. Successivamente fu attivato un impianto di luce a batteria ingegnosamente creato e mantenuto in vita dai nostri parenti, che quotidianamente caricavano le batterie. Questo impianto assicurava una maggiore igienicità all’ambiente perché i lumi erano fumosi, sporcavano tutto e appestavano l’aria. Spesso i lamenti dei feriti e l’agonia dei morenti angosciavano i presenti. Alle otto precise di ogni mattina iniziavano le medicazioni ai degenti e a coloro che venivano ambulatoriamente a farsi medicare. Quando iniziava la medicazione, si muoveva una lenta processione di persone che aiutavano il medico nel suo lavoro facendo luce, trasportando ferri operativi, garze, fasce, sfasciando e fasciando.

La medicazione per me era un male sicuro, ma anche un desiderio: non vedevo l’ora che me la facessero per avere un beneficio, un po’ di fresco, un po’ di ristoro alla ferita; infatti sapevo che per un po’ di tempo sarei stata meglio. Il lavoro del medico era lungo e laborioso: finiva sempre alle undici e, a volte, anche dopo mezzogiorno a causa dell’arrivo di qualche nuovo ferito. Quando sulle nostre teste sentivamo i passi affrettati di alcune persone che attraversavano di corsa il sovrastante camerone, seguiti poi dallo scendere faticoso per le ripide scale, ci mettavamo all’erta per sentire meglio e per renderci conto di chi, in quel momento, era stato ferito. Ci preparavamo ad assistere allo spettacolo che di lì a poco sarebbe iniziato. Il silenzio era il modo di manifestare la partecipazione collettiva al dolore del nuovo arrivato che veniva operato al cospetto di tutti. Sì, uno soffriva anche per gli altri.

Eravamo come una famiglia perché su tutti noi incombeva la stessa calamità; c’era una partecipazione comune al dolore e, a volte, anche alla gioia. Nel dolore per chi moriva, per chi soffriva come noi e forse anche più di noi, ricordo che una bambina si era mangiata le unghie per lenire il suo dolore. Se uno moriva vicino al nostro letto, rimaneva lì anche tutta la notte, perchè uscire era pericoloso. Bisognava attendere il momento opportuno e le persone disponibili per poterlo trasportare nella camera mortuaria che, tra l’altro, era piena di morti. Nella gioia perché tutti si interessavano a noi: venivano a confortarci gli amici e gli sconosciuti. La vicinanza delle persone in quel periodo fu una gara di solidarietà, perciò un lenimento al nostro dolore. Nel momenti di maggior distensione c’era chi cercava di svagarci con racconti, poesie ed anche barzellette: le più famose erano quelle di Domenico Minardi. C’era poi un ferito, a cui fu successivamente amputata una gamba, che sfruttava la sua disgrazia per divertire. Con il lenzuolo faceva una specie di palcoscenico di burattini e ad esso faceva affacciare il suo moncherino che, opportunamente camuffato, muoveva, quale burattino, e, prestandogli la voce, lanciava frizzi e lazzi che attiravano la simpatia dei presenti.

Il mangiare indubbiamente era poco, l’indispensabile preparato coi mezzi e con gli alimenti disponibili, fortunatamente integrato da quanto i familiari potevano recuperare fuori e portare a noi. Si mangiava e si dormiva anche se i vicini stavano male; la vita continuava, si viveva in una specie di fatalismo perché sembrava che nessuna via di uscita ci fosse a quella situazione. Spesso alcuni feriti, i più gravi, venivano trasferiti a Imola o a Bologna per far posto ai nuovi sventurati. L’unica giornata di calma completa fu quella di Pasqua, ma poi tutto ricominciò come prima e peggio di prima. Un giorno quasi inaspettatamente venne la fine a cui nessuno più credeva. Il mattino del 12 aprile, molto presto, si sentirono nello stanzone superiore passi affrettati: erano i polacchi che venivano a rendersi conto della situazione. Fra noi ci fu una grande contentezza. Come tanti, anch’io fui portata all’aperto nel pomeriggio. Ricordo che dei militari alleati ci offrirono delle sigarette. Poco dopo, però, alcune granate tedesche caddero nel paese. Nuovamente la paura ci invase, ma fu di breve durata. Erano gli ultimi sprazzi di ira feroce, dura a morire.

Per noi cominciava una nuova vita.

Testimonianza tratta da: *Testimonianze e documenti della Resistenza a Castelbolognese. – Castelbolognese : Comune di Castelbolognese, 1981.

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