L’oltraggio alla statua della B.V. della Concezione

… L’arciprete don Giulio Rambelli, [divenuto parroco nel 1888], si ritrovò alla prese con difficili equilibri che avevano già costituito per il predecessore don Tommaso Gamberini un banco di prova insidioso e malagevole. Il suo ministero parrocchiale (1888-1909), a cavaliere tra i due secoli, coincideva con un periodo di complesse trasformazioni che, sia pure con diversa intensità, influivano sulle condizioni di vita e di lavoro della popolazione. Mentre si profilava una graduale attenuazione dell’astensionismo cattolico, si accentuavano i conflitti tra i partiti sulle questioni sociali. I repubblicani in crisi non potevano controllare lo slittamento dei loro seguaci a destra e a sinistra e lo stesso internazionalismo libertario e anarchico si vedeva sempre più contrastato dal nascente movimento socialista. “Con l’esaltazione libertà popolari, -scrive don Garavini- tutti i partiti scesero in campo a fare proseliti per mezzo di demagoghi e di arruffapopoli. Il nostro Castello fu spesso testimone di gazzarre anarchiche e repubblicane. Spesso si diedero qui convegno i repubblicani di Faenza che consumavano agapi mazziniane coi fratelli castellani e alle frutta venivano a diverbio con gli anarchici di vecchio pelo. Né fu immune il nostro Castello dalla propaganda socialista operata nella bassa Romagna. Fu in questo clima che bande di giovinastri diedero sfogo ad aberrazioni morali e ad odi anticlericali, che serbarono purtroppo mala fama al nostro paese ” (1).

In realtà l’anticlericalismo attivo risaliva ai tempi dell’arciprete Gamberini e si ripresentava, nei decenni tra ‘800 e ‘900, associato alla opposizione alla classe dirigente liberal-moderata. Diverse circostanze contribuivano a riaccenderlo: le divergenze in campo amministrativo, le diatribe politiche sulla stampa locale, gli anniversari delle campagne risorgimentali, l’inaugurazione dei ricordi marmorei dei patrioti castellani. Era una battaglia che partiti divisi tra loro conducevano insieme, pur differenziandosi nei metodi. La maggiore violenza era prodotta da agitatori anarchici, ai quali soprattutto si riferisce don Garavini quando, nel severo giudizio sopra citato, introduce alla cronaca delle azioni sacrileghe compiute nella primavera del 1893.

Se alla parodia del Viatico, fatta da alcuni giovani per le strade del paese, non seguì nessuna reazione, maggiore scandalo suscitò l’oltraggio al triduo impetratorio della pioggia alla B .V. della Cintura durante la siccità dell’aprile ’93. Le facciate della chiesa di S. Petronio e della canonica furono imbrattate con motti dileggiatori e fiaschi allusivi alla pioggia mancata; ma l’acquazzone caduto il terzo giorno pose rimedio sia alla siccità che all’offesa e all’arciprete Rambelli restò la consolazione di riportare in versi l’accaduto, ringraziando la Vergine “che arrise ai fedeli, che gli empi scornò”
L’oltraggio più grave, che ebbe vasta risonanza fuori del paese, fu perpetrato contro la statua della B.V. della Concezione, Patrona principale di Castelbolognese, decapitata nella chiesa di S. Francesco nella notte del 21 maggio ’93, lunedì di Pentecoste.

Non si può fare a meno di pensare che nelle menti dei profanatori, penetrati nottetempo nella chiesa, si agitasse lo spettro di Zagliona e di Brandolino; ma in questo caso l’avversione all’istituzione ecclesiastica degenerò nel dispregio dei credenti e di tutti i paesani che si apprestavano a celebrare solennemente, come nella tradizione, le feste votive della Pentecoste. La reazione popolare che ne seguì mise in luce una realtà sociale che le fazioni politiche avevano forse sottovalutato.
Gli autori del gesto sacrilego spogliarono la statua rimossa dall’altare e, ripiegato accuratamente il manto che la ricopriva, senza toccare nemmeno uno dei preziosi che l’ornavano, gettarono la testa mozzata nel pozzo del cortile annesso alla chiesa. Quando, all’indomani, trovò conferma la voce, diffusasi fin dalle prime luci dell’alba, che “avevano tagliato il collo alla Madonna”, il paese inorridì e la disapprovazione fu unanime. Il marchese Zacchia e altri possidenti (Zauli, Gottarelli ecc.) ordinarono ai contadini di non recarsi al mercato dei buoi, che si teneva tradizionalmente nel prato della Filippina. Tutte le manifestazioni furono sospese, comprese la fiera e la tombola. I forestieri e i venditori ambulanti, rammaricati non meno dei paesani, presero subito la via del ritorno. Il danno fu enorme per gli esercenti che si ritrovarono invenduta la merce preparata in maggiore quantità.

La reazione dei rurali, documentata da un diario inedito di Giovanni Bagnaresi, fu aspra e immediata: “… i contadini s’erano rivolti al delegato e al maresciallo e avevano detto: bisognerebbe per primi legare voi”. C’era la persuasione che alcuni agitatori politici avessero potuto agire indisturbati da troppo tempo, senza un efficace intervento delle forze dell’ordine. Così “il povero e buon maresciallo era bianco come una pezza lavata, s’aggirava in piazza tutto mortificato tra i contadini che vieppiù si montavano (sic)”. E certamente il responsabile della pubblica sicurezza non fece una bella figura quando si portò in S. Francesco per rendersi conto dell’accaduto. Il sacrista Giuseppe Celotti, congetturando sulle piste seguite dai profanatori, rivolse il pensiero al pozzo, ove, calatosi con una scala, recuperò la scultura. Ma la sua pronta intuizione insospettì a tal punto il disorientato maresciallo, che lo zelante sacrista stava per essere arrestato, se l’arciprete e altri testimoni non fossero intervenuti a dissipare l’equivoco. Il pozzo divenne subito meta di un pellegrinaggio di fedeli che vi si recarono a bere devotamente l’acqua.

Pochi giorni dopo, il paese cominciò a dare meno importanza al fatto. Coloro che l’opinione pubblica indicava come i probabili autori (rimasti ignoti, ma i sospetti ricaddero sugli anarchici) non si videro privati del saluto dagli amici né furono dimessi da chi li teneva a servizio e i testimoni, chiamati a deporre, evitarono di compromettere qualcuno. I contadini allora si rafforzarono nella convinzione che il paese li coprisse e il loro malumore cominciò a tradursi nei fatti. Molto eloquente questa reazione annotata dal Bagnaresi: “Monti m’ha contato che, Domenica sera, venne un contadino di Casalecchio nella sua bottega a prendere la suola per solare quattro paia di scarpe e disse: Andavo prima da Marchì, ma dopo il fatto della Madonna, non sono andato più dentro il paese. Sono venuto da voi perché abitate il borgo. Monti disse: Sono cose da accomodare. Ah, rispose il contadino, non s’accomoda più”.

Si giunse così ad una dichiarazione aperta di boicottaggio, che i contadini tentarono di attuare, rifiutandosi di venire in paese a fare la spesa e di mandare i loro bambini nelle scuole del centro abitato. Da una parte il boicottaggio e la presa di posizione contro le forze dell’ordine sottintendevano il rifiuto del “paese legale”, a cui le masse cattoliche, nel conflitto tra Stato e Chiesa, erano indirizzate dai vertici più “intransigenti”; dall’altra, la reazione sorprendente rivelò in modo netto il divario da tempo latente tra il paese e la campagna. E’ questo divario l’aspetto più importante che il Bagnaresi così commenta: “… mentre sopra di noi ha soffiato per mezzo secolo il vento e la bufera della rivoluzione, nella campagna vi rimase la quiete più perfetta. Quelli del paese si facevano ghigliottinare e andavano a morire nelle prigioni e quelli della campagna venivano a fare loro la guardia, a fare loro la barba a secco. Trionfata la rivoluzione politica, i signori che l’avevano guardata e che la sfruttarono dopo che si consolidò, divennero i fautori del nuovo governo ed i contadini, pur meravigliandosi del cambiamento, hanno votato coi padroni per molti anni, quantunque fossero rimasti papalini. Adesso che l’idea sociale s’avanza nei centri, signori e preti si sono dati la mano e soffiano sui rurali perché vi sia un distacco tra il paese e la campagna, per dominarli”.

C’è del vero, ma c’è anche molta esagerazione in questo giudizio, che dovrebbe essere ridimensionato alla luce di una più attenta riflessione sulle lacune della rivoluzione nazionale e sul sostegno dato dalle organizzazioni cattoliche alle plebi rurali ancora in attesa di un loro risorgimento economico e sociale. La “bufera della rivoluzione” non soffiò sulle campagne, perché i programmi liberali e lo stesso mazzinianesimo non avevano affrontato esplicitamente la questione contadina. Sulle più importanti questioni sociali si aprivano i contrasti, ben evidenti alla fine del secolo anche a livello locale, tra repubblicani e socialisti accanto all’insuccesso della agitazione anarchica, specialmente nelle campagne, che i decenni successivi rivelarono più disposte ad accogliere il marxismo o la dottrina sociale della Chiesa. Si aggiunga che la liquidazione dei terreni demaniali e di quelli degli ordini religiosi soppressi con la legge del 1866 non si era certamente risolta a favore delle masse contadine, che non solo non ebbero la possibilità finanziaria di acquistare le terre, ma che perdettero pure il godimento degli antichi usi civici. I rurali avevano fatto spesso ricorso alle proprietà fondiarie della Chiesa per il loro sostentamento, ma in seguito alla liquidazione di quei beni, decretata dal regime liberale postunitario, i contadini passarono alle dipendenze del proprietario borghese, più attento ai propri interessi e più esoso nei rapporti di lavoro, e le loro condizioni peggiorarono.
Non era quindi possibile mobilitare le campagne senza tenere conto del clero e dell’influenza capillare delle diocesi e delle parrocchie. L’anticlericalismo precludeva l’ingresso della azione sociale laica tra gran parte della popolazione rurale, favorendo la convinzione di un contrasto tra il paese, rifugio di Caino e l’integrità morale della campagna e finiva per rivolgersi come un boomerang contro coloro stessi che lo alimentavano.

E’ una preoccupazione che traspare dalle parole stesse pronunciate dal dottor Umberto Brunelli, il maggiore esponente del socialismo locale, in occasione del clamoroso oltraggio del ’93: ” … Nell’ambulatorio ed a casa mia i contadini e le donne che ho curato parevano istupiditi… e adesso quelli che hanno tornaconto, soffiano nel fuoco. I fattori, i padroni sono quelli che più guardano. Quello che mi meraviglia è l’udire tante persone che fanno gli anticlericali gridare più degli altri; io non approvo il fatto, ma quando si sentono dei socialisti, dei repubblicani, quando si odono le stesse persone che pochi giorni sono sporcarono la facciata di S. Petronio, solo perché hanno avuto un po’ di danno materiale, invelenire contro persone che non hanno, neppure, la sicurezza che siano gli autori del fatto, si sente dell’indignazione”.

Il boicottaggio fu più che altro minacciato e solo in parte attuato né si rivelarono fondati i timori che qualcuno sfruttasse l’accaduto. La statua della Patrona fu fatta restaurare dai Ballanti Collina a Faenza. Le funzioni riparatrici, dapprima stabilite per il mese di giugno, furono rinviate a settembre, per venire incontro ai contadini oberati dai lavori agricoli. La conseguenza più duratura fu che il paese perdette molta reputazione tra i forestieri.

Stefano Borghesi

Le feste di riparazione all'oltraggio (83654 byte)
Settembre 1893: l’altare maggiore di San Francesco addobbato nella circostanza delle Feste di Riparazione dell’oltraggio.

(1) Stato della Parrocchia e sue vicende. Continuazione della Cronaca Parrocchiale, di don Antonio Garavini. Archivio S. Petronio, Castelbolognese.

Testo tratto da: Associazioni e personaggi nella storia di Castelbolognese. – Imola: Galeati, 1980. (In testa al front.: Amministrazione Comunale di Castelbolognese.)

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