La cessione di Castel Bolognese a Cesare Borgia

Un fatto storico di 500 anni fa

1. — L’impresa di Romagna

Secondo alcuni storici Alessandro VI progettava di riunire direttamente sotto di sé le litigiose città romagnole fin dall’inizio del suo pontificato; l’impresa tuttavia non partì subito, poiché il papa aveva molte titubanze, doveva sedare lotte intestine in Roma e, soprattutto, assicurarsi l’appoggio di una grande potenza europea, in questo caso la Francia, per riuscire vittorioso, stante la debolezza e l’inadeguatezza dell’esercito pontificio.

Il 25 settembre 1499 il pontefice si portò a Nepi nel castello di famiglia, e qui deliberò finalmente la conquista della Romagna da parte di Cesare Borgia. Bolle papali dichiararono decaduti dal feudo i signori di Rimini, Pesaro, Imola, Faenza, Forlì, Urbino e Camerino per non aver da tempo versato i dovuti tributi. A metà novembre Cesare stabilì gli alloggiamenti presso Castel Bolognese, al di fuori, comunque, del territorio bolognese e da lì cominciò la campagna militare, prima contro Caterina Sforza ed i figli di Girolamo Riario. Imola gli spalancò le porte liberamente il 24 novembre 1499; la rocca cadde nella prima metà di dicembre. Anche a Forlì gli abitanti non si opposero al Borgia che entrò in città il successivo 17 dicembre; ma la rocca era più munita e difesa personalmente da Caterina; tuttavia il 12 gennaio 1500 dovette anch’essa capitolare. Cesare Borgia assunse nelle due città il titolo di vicario per la Chiesa. Mentre si accingeva a tendere l’assalto a Faenza, lo colse la notizia della disfatta dei francesi a Milano; cosicché le truppe francesi al suo seguito furono richiamate in patria. Venezia riprese a cuore la questione di Rimini e di Faenza e Cesare ritenne opportuno ritornare a Roma ove, il 26 febbraio 1500 fu accolto in trionfo. Il papa lo investì del vicariato (9 marzo) e del titolo di gonfaloniere della chiesa (29 marzo), stabilendo nelle città conquistate, in qualità di governatore don Ramiro de Lorqua. La permanenza a Roma si protrasse per diversi mesi nei quali Cesare Borgia cercò denaro, l’appoggio di Venezia e l’isolamento di Napoli per sferrare il colpo decisivo sugli ultimi signori di Romagna.

Mentre il papa aveva costretto, fin dal mese di agosto, Cesena e Bertinoro ad acclamare Cesare Borgia loro signore, questi partì da Roma il 1° ottobre del 1500 con un esercito di diecimila soldati al quale si erano associati alcuni baroni romani, quali quelli delle case Orsini e Savelli, Gianpaolo Baglioni di Perugia, Vitellozzo Vitelli di Città di Castello, che avevano trovato più sicuro aderire ai disegni del Borgia che continuare a resistergli. I signori di Pesaro e Rimini, Giovanni Sforza e Pandolfo Malatesta rinunciarono a fargli fronte e fuggirono dalle loro città prima ancora che il Valentino giungesse, rifugiandosi a Bologna dal loro parente Giovanni Bentivoglio. L’attacco di Cesare venne dunque sferrato verso Faenza. Qui tuttavia il Valentino trovò un inaspettato ostacolo: il signore di quella città, il giovanissimo Astorre Manfredi, era benvoluto dai nobili e dal popolo, spalleggiato dai fiorentini e dal signore di Bologna Giovanni Bentivoglio, suo parente per parte di madre e confidava infine sulla protezione di Venezia. I Faentini si difesero con valore e resistettero all’attacco fino all’arrivo dell’inverno, grazie anche agli aiuti portati loro da Giovanni Bentivoglio attraverso i signori spodestati di Rimini e Pesaro. L’inverno si presentò alquanto rigido con abbondanti nevicate; levato il campo da Faenza in attesa della primavera, non prima di aver conquistato Solarolo e Brisighella, il Valentino si sarebbe ritirato volentieri a Castel Bolognese, pensando che il Signore di Bologna non glielo avrebbe negato, ma che invece Giovanni Bentivoglio, fermamente, gli rifiutò: e di questo rifiuto come dell’aiuto ai faentini dovrà più tardi amaramente pentirsene.

Il 7 marzo 1501 riprese l’assedio di Faenza, che capitolò il 25 aprile. Astorre Manfredi venne fatto prigioniero e, contro i patti. mandato a Roma dove sarà successivamente ucciso. Ora il Borgia doveva punire anche i sostenitori dei Faentini: i Bentivoglio. e si mosse, minaccioso, verso Bologna.

2. – La cessione di Castel Bolognese a Cesare Borgia

Conquistata, dunque, anche Faenza, non rimaneva al Valentino che Bologna ed il suo avamposto in Romagna, Castel Bolognese, per completare il territorio del suo futuro Stato. I bolognesi si prepararono frettolosamente alla difesa, pur essendo consapevoli della propria inferiorità militare. Due ambasciatori furono inviati al re di Francia Luigi XII, per sapere da lui quale fosse l’animo del Valentino. Il re rispose che Bologna non doveva temere nulla purchè non impugnasse le armi contro di lui; pertanto Giovanni Bentivoglio decise di blandire il tiranno mandandogli due ambasciatori, Giovanni Marsili ed Angelo Ranuzzi a congratularsi per la presa di Faenza.

A Cesare Borgia, già offeso per l’aiuto concesso dai bolognesi ai faentini, questa mossa parve una vera beffa; per cui, invitati quegli ambasciatori nella rocca di Castel San Pietro, con uno stratagemma li fece lì rinchiudere quali ostaggi. Intanto non si fermava l’avanzata verso Bologna: negli ultimi giorni di aprile furono conquistate al Valentino terre bolognesi quali Castel San Pietro, Casalfiumanese e Castel Guelfo, mentre Vitellozzo Vitelli prese in nome del Borgia Medicina e Varignana, attestando le armate ducali lungo il fiume Idice. Giovanni Bentivoglio, sentitosi accerchiato, (Luigi XII infatti pur desiderando l’indipendenza di Bologna, non sarebbe potuto intervenire militarmente conto Cesare Borgia) scese a trattative col Valentino. La sua richiesta in cambio della libertà di Bologna tuonò categorica agli ambasciatori bolognesi corsi a Villa Fontana ove trovavasi acquartierato il Borgia: la cessione di Castel Bolognese e la promessa di aiuti militari. Giovanni Bentivoglio constatò l’esistenza di una forte opposizione all’interno del Reggimento della città in merito alla cessione di Castel Bolognese perchè, dicevano alcuni, non si poteva sacrificare quel castello così fedele alle sorti di Bologna abbandonandolo al Borgia. Tuttavia, non v’era altra scelta; Paolo Orsini, ambasciatore di Cesare Borgia, entrè in Bologna il 30 aprile 1501 per la firma dell’accordo, trovando l’esercito di quella città schierato lungo la Via Emilia dal Savena alle mura cittadine.

A questo punto è interessante leggere l’atto notarile dell’accordo, da me reperito in copia presso la Biblioteca “Saffi” di Forlì – Fondo Piancastelli. “30 aprile 1501. Presenti i sedici Magistrati della città di Bologna questi decidono essere conveniente che fra l’Ill.mo e Rev.do Signore Cesare Borgia duca del Valentino in Francia, Cardinale e gli stessi Magnifici Sedici Magistrati in amore e amicizia ed in pefetta benevolenza, affinchè fra di essi vi sia buono ed ottimo vicinato. Avendo il Duca Valentino fatto acquisto di tutta la Romagna e trovandosi tra Faenza e Imola Castel Bolognese luogo della Comunità di Bologna e poichè è desiderio dell Ill.mo Duca avere tale loco, che per mezzo del Cristianissimo Re altri hanno cercato, e sibbene il reggimento di Bologna ed il Sig. Gio. II Bentivoglio portino devotione a Sua Santità e al Duca Valentino, sono disposti a soddisfarlo. Ora il predetto Reggimento è risoluto a gratificare del detto Castello la Benedizione di N. Signore e soddisfare il predetto Duca onde il Duca ha mandato il signore Paolo Orsini per contrarre questo accordo, promettendo d’avere sempre come ottimi amici il Reggimento e il Sig. Gio. Bentivoglio a questi patti:” seguono nel documento i patti in lingua italiana, scritta con pomposità come si conveniva allora. In sintesi, eccoli: 1) Paolo Orsini promette di restituire al reggimento tutti i luoghi, terre, castelli e beni occupati dal Duca, nonchè gli ambasciatori prigionieri a Castel San Pietro. 2) Paolo Orsini promette che nessuno sarà più molestato in queste terre, non vi sarà più odio contro Giovanni Bentivoglio ed il Reggimento. 3) Il Reggimento e Giovanni Bentivoglio promettono di avere come amico e fratello il Duca Valentino e voler avere in perpetuo con lui ottime fortune comuni. 4) Il Reggimento consente e rinuncia in favore di Paolo Orsini che accetta e riceve Castel Bolognese con la sua giurisdizione e le sue prerogative “consentendo che gli sia data e rilasciata libera possessione salvo Ufficiali, soldati, castellani e loro robbe”. 5) Per mostrare tutta la loro benevolenza al Valentino, il Reggimento e Giovanni Bentivoglio promettono “per i prossimi tre anni successivi stipendio per huomini d’arme cento, che dovranno essere tenuti per sua guardia e comodità, e questo fanno i predetti Reggimento e Gio. Bentivoglio per il desiderio che hanno di render gloria ed esaltazione al Duca Valentino e per la sicurezza della sua persona”. 6) Il Reggimento e Giovanni Bentivoglio si obbligano ad offrire al Duca tutto l’aiuto e il favore possibile per qualsiasi impresa che egli debba fare contro qualcuno. 7) La precedente obbligazione non vale contro lo Stato di Sua Santità. E per maggiormente rafforzare l’intesa, da una parte il Reggimento e Giovanni Il Bentivoglio e dall’altra Giulio Orsini, Paolo Orsini e Vitellozzo Vitelli promettono per l’osservanza di questo contratto “che nulla sarà mancato di osservare e che ciò che non trovasi scritto si vedrà soddisfatto al momento con accorcio benevolo”. Seguono la data e le firme con la seguente formula:

“Actum in Bononiae in Palatio Residentiae R.di D.ni Legati ac Mag. Antianorum et Vexilliferi Justitiae populi et comitis Bononiae.
Ego Angelus Michael quondam Magistri Stanini de Salimbenis rogavit.
Ita promissus: Caesat.
Io Julio Ursino me obligo quanto è scripto de sopra.
Io Pauolo Ursino me obligo quanto è scripto de sopra.
Io Vitellozzo Vitelli me obligo quanto è scripto de sopra.
Datum in Pontificis Castris ad Villam Fontanam.
Primo Maii SNDJ MDI.

Poco dopo il Valentino abbandonò il campo di Villa Fontana per entrare con il suo esercito in Castel Bolognese. Non si conosce il giorno esatto dell’avvenimento; tuttavia un cronista bolognese scrive che “Il Duca fece radere al suolo le mura il 29 luglio 1501 e (il castello) appellossi Villa Cesarina”.

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Papa Alessandro VI (a sinistra) e papa Giulio II

3.- Il ritorno della Romagna e di Castel Bolognese al Governo Pontificio

Il Duca Valentino progettava nuove imprese militari quando, improvvisa, giunse la notizia della morte del papa (18 agosto 1503). Fu questo avvenimento l’inizio dello sfaldamento dello stato borgiano; Cesare fu costretto a giurare obbedienza al Sacro Collegio (22 agosto 1503), mentre i signori spodestati, esclusi quelli romagnoli, tornavano nelle loro terre. Il nuovo papa, tuttavia, gli mostrava favore fino a confermargli i diversi vicariati e l’ufficio di gonfaloniere, consentendogli pure il ritorno a Roma. Tuttavia Pio III (Francesco Todeschini Piccolomini – 1503), eletto il 22 settembre, venne a morte il 18 ottobre dello stesso anno. Faenza e Forlì andarono subito perdute; Cesare appariva all’oratore veneziano Giustinian”Molto sbattuto e senza l’arroganzia sua consueta”.Potè ancora da Castel Sant’Angelo, dove si era ritirato, dettare ordini; e mentre i Veneziani s’impadronivano di Rimini e di Faenza, il nuovo papa Giulio II intenzionato a rivendicare la Romagna alla Chiesa, tentò di ottenere da lui la cessione delle terre che gli rimanevano. Davanti al suo rifiuto, Cesare venne arrestato ad Ostia (novembre 1503) e condotto a Roma ove, dopo lunghi negoziati. cedette (27 maggio 1504). Tramontava così il ducato creato dal Valentino assieme alla fortuna italiana della famiglia Borgia, la quale tuttavia non fu solo foriera di guerre e di intrighi politici: si pensi a San Francesco Borgia (1510-1572), fondatore del Collegio Romano, che contribuì alla riforma interna della Chiesa.

Giulio Il (Giuliano della Rovere 1503-1513), era risolutamente deciso a restaurare lo Stato della Chiesa riconquistandovi la Romagna e Bologna. Vano era riuscito l’accordo che si era tentato nel 1505 per opera del Duca di Urbino e, pertanto, pareva non rimanere che l’uso delle armi per risolvere il problema. La decisione di Giulio II fu invece opposta: volle andare personalmente a riconquistare quelle terre alla testa del Sacro Collegio e di pochi armati. Il 17 agosto 1506 Giulio II manifestò la sua volontà in un Concistoro segreto, fissando per il successivo 24 agosto la partenza. Il Sacro Collegio rimase sbalordito, ma Giulio II non si piegò e, all’alba del 26 agosto. dopo aver ascoltato la Messa, lasciò Roma da Porta Maggiore con nove cardinali e 500 cavalieri armati. Il disegno del papa era meditato: una partenza così solenne da destare impressione, meraviglia e timore nel popolo, gettava tutto il peso del fatto irrevocabile per costringere alla sua azione anche altri, specialmente il re francese ed i fiorentini, quasi a tagliare a se stesso ogni via di ritorno; audacia di una grandezza singolare quando si misuri con la gravità del pericolo cui andava incontro. Cosa sarebbe avvenuto se Luigi XII non si fosse arreso a mandare le forze richieste o, peggio, se Venezia si fosse dichiarata per i Bentivoglio? Anche il Machiavelli, che era avvezzo alle imprese del Borgia, si stupì davanti a tanta audacia.

La marcia del papa fu veloce, quasi condotta a tappe forzate: l’imolese Paride Grassi, cerimoniere pontificio, ci ha lasciato un dovizioso diario. Ogni giorno la partenza era prima dell’alba, dopo aver ascoltato Messa; si proseguiva il cammino fino al tramonto inoltrato per raggiungere un luogo ospitale che potesse accogliere un sì importante corteo. L’itinerario del viaggio toccò Nepi, Viterbo e Montefiascone nel Lazio; indi Orvieto, Castiglion del Lago, e Perugia che fu tolta ai Baglioni. Dopo una sosta di alcuni giorni in quella città, il corteo papale proseguì per Gubbio, Urbino, Macerata Feltria, per raggiungere San Marino il 30 settembre. Frattanto al torrido caldo estivo era succeduto un precoce freddo invernale che coprì i monti di neve; di conseguenza la discesa dalla Serenissima Repubblica del Titano a Savignano fu rovinosa, tanto che la maggior parte dei muli cadde nei precipizi della strada.
Giunto a Cesena il 2 ottobre, Giulio Il vi sostò alcuni giorni, durante i quali assistette ad una mostra dell’esercito. Indi proseguì per Forlimpopoli, ove sostò il giorno 8, raggiungendo Forlì la mattina successiva Questo il racconto dell’ingresso in città scritto dal cronista forlivese Andrea Bernardi, testimone oculare: dietro il Sacramento, portato in un ricco tabernacolo coperto da un panno d’oro su una chinea, veniva il Papa a cavallo di una mula bianca, tutta bardata d’oro, la sella e le staffe d’oro, di panno d’oro le redini con sopra ricamate le parole Sancta Sanctorum, indorato il morso, di panno d’oro il pettorale, la testiera, la groppiera. Così tutta fulgente d’oro, la mula “veramente faceva tucto stupefare la gente. Dipoe andava quela mula con suoi passi, che veramente pareva avere spirito umano”. Secondo un’antica usanza, precedeva il Pontefice un cappellano che portava una gran croce e lo seguivano otto chinee anch’esse coperte d’oro, e ventinove carri, “et le multe altre cose memorande” , conclude lesto il cronista, che pare quasi sazio di tanto splendore veduto.
Il papa si trattenne a Forlì tredici giorni, durante i quali si occupò soprattutto delle sorti di Bologna, non trascurando tuttavia di visitare la città, la rocca, di comporre discordie e di concedere udienze.
Per andare ora da Forlì ad Imola la più breve e comoda strada era la Via Emilia ma, come aveva dovuto evitare Rimini, così gli era impedito il passaggio da Faenza in mano ai veneziani. Scartato l’itinerario di pianura, verso Lugo, più comodo ma che lo costringeva ad attraversare territori in mano a Venezia, decise di prendere la via dei monti, pur se disagevole, ma ritenuta più sicura. Il 16 ottobre Giulio Il, con una piccola scorta (il seguito e l’esercito passò per la Via Emilia), si avviò lungo l’arduo cammino avendo per guide don Ventura della Valle e messer Brunone d’Antonelle da Forlimpopoli. Attraversato il confine con la Signoria di Firenze , giunse a Castrocaro ove fu ricevuto dal Commissario Pier Francesco Tosinghi che lo accompagnò poi lungo tutto il cammino nel territorio fiorentino. Poco oltre Dovadola il corteo pontificio volse a destra e s’inoltrò per la strada del monte Trebbio giungendo la sera del 17 ottobre a Modigliana. La mattina seguente, detta la Messa e consacrata l’antica pieve di Santo Stefano, il Papa riprese il cammino che si fece sempre più faticoso anche perché le guide sbagliarono strada e costrinsero il corteo a guadare più volte il torrente, avanzando in luoghi cosi impraticabili che il Pontefice dovette “percorrere un buon tratto di strada a piedi suorum manibus sustentatus”. Verso sera, il corteo, sfinito, fu in vista di Marradi. Qui il Pontefice venne ospitato da Antonio di Pierone di Sandro de’ Fabroni, e ne rimase talmente soddisfatto che richiese alla Signoria l’esonero da ogni gravezza per lui e per i suoi figlioli.

Nella tarda mattinata del 19 ottobre Giulio II giunse a Palazzuolo, ove pranzò sostando nel Palazzo dei Capitani. Da qui il Pontefice avrebbe potuto raggiungere la Via Emilia lungo la strada della Valle del Senio; ma il passaggio per Casola Valsenio gli era interdetto, poiché il paese era in mano ai Veneziani. Altre salite attendevano quindi il Pontefice ed i suoi accompagnatori, che giudicarono più opportuno proseguire sul crinale tra Senio e Santerno. Lasciata Palazzuolo, attraverso Visano, il corteo raggiunse lo spartiacque alla Faggiola ove, nei pressi del macigno detto “Sega del Povento” Giulio II celebrò la Messa e benedisse il popolo di Palazzuolo. Indi il corteo si mosse per il Monte Macchia dei Cani, il Monte della Croce e il Monte Acuto, raggiungendo la chiesa di Valmaggiore ove il Pontefice sostò in preghiera. Da qui proseguì per Monte Battaglia, scendendo finalmente a Tossignano ove il popolo, ridotto in miseria, non ebbe che alcune pere da offrire al Papa affamato e stanco. Nella chiesa di San Girolamo, Giulio Il ricevette sessanta rappresentanti di Borgo, insieme con molti altri di tutto il Comune, i quali gli prestarono giuramento di fedeltà. Si ritirò infine per coricarsi presso la Casa Angelini di cui fu ospite. Il nuovo giorno aprì al Pontefice la comoda via di Imola che, finalmente, venne raggiunta nella mattina del 20 ottobre con enorme festa e concorso di tutto il popolo: lo accompagnavano nell’ingresso solenne in città venti Cardinali ed una grande comitiva di cortigiani con più di duemila cavalli. Qui il Pontefice si trattenne fino alla prima settimana di novembre: tuttavia fu impossibile ospitare in città tutto il seguito, cosicché l’intera Cancelleria, con molti curiali sostò a Castel Bolognese che divenne in quei giorni, di fatto, la capitale amministrativa dello Stato.

Intanto Giovanni II Bentivoglio sentiva incombere la propria sciagura. Nella città di Bologna si fecero preparativi di difesa, ma quando le truppe francesi, che Luigi XII s’era indotto a mandare cedendo alle pressioni del papa, giunsero a Castelfranco, il Bentivoglio comprese che non avrebbe potuto in alcun modo resistere, e accordatosi segretamente con il comandante dell’esercito francese che in nome del re gli garantiva un sicuro asilo a Milano e la conservazione di tutti i suoi averi, nella notte del 2 novembre 1506 lasciò con tutto il suo seguito la città, diretto in Lombardia. Il Reggimento cittadino non poté fare altro che offrire al papa la sottomissione di Bologna. L’ 11 novembre Giulio II fece il suo solenne ingresso in città, marciando trionfalmente verso San Petronio in una mattina di caldo estivo.

Paolo Grandi

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Ritratti di papa Giulio II (opera di Raffaello, conservato agli Uffizi di Firenze) e di Cesare Borgia, protagonisti di questo fatto storico di 500 anni fa.

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