Gianni Piancastelli (1892-1917)

di Enzo Brunetti

Gianni Piancastelli

“In valoroso crepuscolo di vita – tolto – a la tenue illusione di vita – che lentamente fiorendo declinava”.
Così per la sua tomba un altro glorioso caduto: Tullio Bolognini. E nessuna espressione migliore poteva ritrarci il nostro morto.
GIANNI PIANCASTELLI, nato a Castelbolognese il 22 maggio 1892 da Francesco e da Orsolina Galeati, che lo educarono all’amore della patria e del dovere, è morto a soli 24 anni nella cameretta, dove i suoi sogni erano nati, dove egli li aveva dapprima accarezzati nel silenzio, poi apertamente espressi, lontano da quel campi di battaglia, in cui aveva cercato misurarsi contro l’odiato nemico.
Anima veramente romagnola, dopo essersi conquistato con forza di volontà e serietà di studi un posto onorevole nelle ferrovie dello Stato, attese ad allargare le sue cognizioni ed a farsi una soda cultura politica studiando Mazzini, di cui profondamente si innamorò, e gli altri grandi pensatori moderni; attese a rompere le sue membra a tutti gli esercizi sportivi, e a portare un po’ di vita nella morta gora del paese natio, dando la sua adesione e la sua opera a tutte quelle iniziative che ebbero lo scopo di risvegliare il torpido ambiente ed irrobustire le giovani generazioni
La grande ora che ancora viviamo lo sorprese soldato nel 6° genio ferrovieri a Torino. E fino dai primi giorni “fedele ai principi professati, principi liberali, democratici, con tendenza al repubblicanesimo mazziniano” (come egli à scritto nel suo diario), “propagandò per l’entrata dell’Italia a fianco dell’Intesa per solidarietà contro gli aggrediti ed in difesa dei suoi interessi”.
Le sue lettere agli amici nei dieci mesi della nostra neutralità furono talora acerbe polemiche, altre volte inni agli aggrediti, sempre incitamento a prepararsi al grande cimento. E quando finalmente l’intervento nostro non fu più un dubbio, egli chiese immediatamente il suo posto, non potendo stare lontano dai fratelli che si schieravano dallo Stelvio al mare in attesa di avanzare.
Il 13 maggio infatti egli lasciava Torino, dopo avermi scritto queste parole: “Caro Enzo, a conclusione delle nostre discussioni, delle nostre diatribe parto domani notte volontariamente per il fronte Nord-Est, dove fra poco si compirà il destino d’Italia a scorno di Giolitti e dei suoi ascari! Finalmente! Oh! non puoi credere con quanta gioia, con quanta fede, con quanto coraggio, con quanta speranza ti do questa notizia! E’ stata una decisione fulminea: stamane solo ò fatto e riuscito a tutto! … Evviva! Ho mantenuta fede al mio giuramento! Ora a te e con te quelli che potendo vogliono la guerra redentrice!” E la sera del 1° giugno già dormiva in Ala redenta, ove passò i primi mesi alla fronte, compiendo scrupolosamente il suo dovere, ma col cuore non del tutto contento.
E non poteva certo essere contento lui, che aveva abbandonato gli ozi e gli agi della grande guarnigione per menare le mani, e si vedeva invece costretto a vivere “quasi inoperoso, escluso completamente dalla grande battaglia, dubbioso sopratutto di poter avere il sospirato battesimo del fuoco”. E questo stato d’animo traspare in tutte le sue lettere, specialmente in quelle agli amici che, più di lui fortunati, già si erano battuti e qualcuno aveva anche arrossato col suo sangue i campi di battaglia. Egli lavorava dalla mattina alla sera e dopo il lavoro, stanco, andava a letto, ma non dormiva: pensava! Pensava a casa sua, dove non erano rimasti che i due vecchi genitori, perché gli altri suoi quattro fratelli erano come lui alla fronte; pensava alla donna amata, che finalmente poteva far sua per sempre; pensava agli amici, ma sopratutto pensava a trovare una soluzione che l’avesse accontentato, non scontentando i suoi cari..
E questo duello durò fino al 15 settembre del ‘15, fino a quando cioè la sua forza di volontà seppe fare per un istante tacere tutti gli altri affetti più intimi, per ascoltare soltanto quello della Patria. “Il segreto!! Eccolo” a me scriveva il 25 settembre. “ Sono al 7° Fanteria ad un corso di aspiranti ufficiali! Due mesi, poi potrò condurre il mio plotone all’assalto! Sono finalmente contento, anche perché la mia Peppina, la mia famiglia mi ànno dato il loro plauso !”.
E cominciò la sua vita attiva di guerra, vita piena di disagi, di fatica e di lavoro, che ben presto fiaccò la sua salute, ma che egli superava con.la sua forza di volontà, e con il suo entusiasmo. “Mi tormenta – a me scriveva il 15 ottobre – una forte tosse che non vuole andarsene nonostante le mie specialità medicinali. Però niente paura ed avanti sempre fin dove potrò arrivare”. Il 15 novembre finì felicemente il corso, il 13 dicembre raggiunse la 5a compagnia del 58° fanteria (brigata Abruzzi), che presidiava allora Passo Cereda, coperto di boschi e di nevi perenni. E lì continuò la sua vita di lupo, mentre le sue condizioni di salute si aggravavano sempre più, anche perché egli, mantenendo fede ancora una volta alla sua parola, teneva tutto nascosto, e compiva scrupolosamente il suo servizio per non creare sospetti nei superiori e colleghi, che non voleva abbandonare, perché li amava svisceratamente come i suoi soldati, e perché si sentiva finalmente a pieno contento di poter dirsi soldato e soldato nel senso più nobile, più completo della parola.
Ai primi di gennaio del ‘16 però, dovette darsi malato: era ormai troppo tardi!
La sua esistenza era già minata e per sempre; inutili perciò le cure della scienza e della famiglia. Egli era votato alla morte ed alla morte più brutta, triste per un soldato come lui, che tante volte l’aveva sfidata con quella serenità che à solo chi è cosciente del proprio dovere, come dimostrano queste parole che egli scriveva il 25 ottobre del ‘15 a suo padre, alla vigilia del battesimo del fuoco: “Domani andrò in linea, dove avrò finalmente il sospirato battesimo del fuoco. Io ve l’annunzio col cuore pieno di angoscia per il timore dell’ignoto, ma con lo spirito, con la mente calma, sapendo di andare a compiere il mio dovere di Italiano e di Uomo Civile. E, so muoio durante la lotta, sappiate che ne sarò contento e felice non perché non porti affetto sincero a voi, alla mamma, alla mia famiglia, ma perché Iddio non poteva concedermi di morire di una morte più bella, per una causa più santa!”.
E dal 25 gennaio 1916, nel convalescenziario di Iseo, cominciò la sua lenta agonia, quell’agonia che, oltre a togliergli ogni illusione di vita, gli fece svanire tutti i sogni. Io lo ricordo nel bianco lettuccio della sua cameretta adorna de’ bei quadri di suo zio. Era là col capo reclinato, col viso scarno, muto, immobile, triste! Non appena però gli giungeva una lettera dalla fronte di qualche amico o la notizia di una nostra vittoria tutto si trasformava: balzava dal letto con i suoi occhioni luccicanti, pieni di gioia, che non era completa, soltanto perché non poteva dire “io c’ero!”. Mai però un lamento, mai una maledizione per le sue condizioni! Sempre egli accompagnò col pensiero e con l’augurio le sorti della patria nostra e tutte le sue lettere ai fratelli, agli amici erano piene di fede, di incitamento, di augurio nella vittoria.
Morì la sera del 10 febbraio 1917. Tutto il paese senza distinzione di classi e di partiti, si raccolse intorno alla sua bara, che copri di fiori, e con una manifestazione che fu davvero apoteosi espresse il suo compianto, la sua gratitudine, il suo orgoglio, la sua venerazione.

Zona di guerra, aprile 1918.

Gianni Piancastelli ritratto dallo zio Giovanni Piancastelli (immagine tratta da: “Samantha De Santi, Valentino Donati, Giovanni Piancastelli, artista e collezionista (1845-1926), Faenza, Edit Faenza, 2001”

Testo tratto da I caduti per la patria: i figli di Romagna per la madre Italia, fascicolo 18 “Gianni Piancastelli, Tullio Lonzi, Augusto Farneti, Vittorio Magalotti, Forlì : Premiato stabilimento tipografico romagnolo, 1918

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