2 marzo 1945 – testimonianza inedita di Giovanni Camerini

Sveglia alle 7 e 30, come ogni giorno.

Colazione con latte condensato e caffè d’orzo e poi si parte per il lavoro. Ormai da quattro mesi si viveva in cantina, in quella dei vicini, perché la nostra abitazione ne è priva. Eravamo in dieci in due stanze e condividevamo tutto. Non c’erano finestre e l’illuminazione era garantita da candele e lumi a petrolio. La vita all’esterno era praticamente inesistente perché eravamo continuamente sotto tiro dei cannoni alleati che ci sparano dalle colline al di là del fiume Senio . Le case erano ridotte a cumuli di macerie ed i ruderi che restavano sembravano scheletri dalle orbite vuote. Quando si usciva era necessario correre per guadagnare un rifugio sicuro: il porticato che corre ai lati delle vie principali del paese i cui archi sono stati chiusi con muri di pietra per assicurare protezione.

Già da qualche mese il comando tedesco, in accordo con le autorità locali, aveva reclutato giovani e meno giovani per formare squadre da adibire a lavori di utilità militare. Io ero tra quelli.  Il punto di ritrovo della mia squadra, dieci persone in tutto, era in via Pallantieri, dove c’era una stanza adibita a deposito degli attrezzi. Alle 8 partimmo scortati da due militari tedeschi della Wehrmacht armati di fucile: destinazione la ferrovia nei pressi della stazione, verso la prima linea. L’incarico consisteva nella preparazione di postazioni scavate nel terreno, a forma di sette, profonde oltre un metro. La giornata era splendida. L’aria era calda ed il cielo terso; una bella giornata di primavera ma con una calma irreale, quasi a preannunciare una “tempesta” improvvisa. Eravamo suddivisi in vari gruppi di due persone, io ero assieme ad Aldo, più grande e più esperto di me perché aveva fatto il militare. Iniziammo a scavare nel punto più avanzato e più lontano dalla stazione. Distanziati di una ventina di metri c’erano gli altri: Gigetto e Paolo, Pompeo e Marchì e così via.

Dopo un’ora di lavoro un rombo di motore ruppe il silenzio. Un ricognitore alleato stava volteggiando sopra di noi; pochi minuti e poi scomparve.
-Ci hanno visto!- dissi ad Aldo
-Chissà cosa cercano?- rispose continuando a scavare.
Di colpo un sibilo ci fece fermare: -Giù che ci sparano addosso!- urla Gigetto gettandosi a terra nell’altra postazione ancora incompiuta.
– Zurück! Zurück! – si sentì gridare: erano i soldati che ci intimavano di ritirarci.

Correndo all’impazzata, incespicando e tuffandoci a terra tra una raffica e l’altra riuscimmo a trovare più sicuro riparo tra le mura diroccate della stazione. Ormai era impossibile continuare il lavoro, troppo esposti e troppo pericoloso. La decisione del comandante tedesco fu di riprendere l’attività nelle ore notturne, era una soluzione tutto sommato accettabile perché tutti noi volevano finire alla svelta ed abbandonare la linea ferroviaria, troppo controllata dagli alleati. Riuscimmo a tornare incolumi a casa.

Presto giunse la sera e dopo aver cenato con uno stufato di fagioli mi avviai verso il solito punto di ritrovo. Non tutti quelli del mattino erano presenti; qualcuno aveva pensato di rinunciare rischiando le ritorsioni dei militari.  Il sole era già tramontato lasciando un cielo sereno e senza luna. Il buio si fece presto fitto, tanto che si faticava a vedere il terreno sotto i piedi. Lungo il viale della stazione incrociammo la squadra di Leone: – dove vai? – mi chiese l’amico – noi andiamo nel parco della “contessa” a seppellire dei morti tedeschi – proseguì senza attendere la mia risposta. Continuammo così uno vicino all’altro ancora per il viale e poi giù, lungo i binari, fino alle postazioni abbandonate in tutta fretta, il mattino. Aldo era ancora con me
– Speriamo di far presto a finire- mi disse
– Se ci lasciano in pace- risposi – è buio, almeno questa volta non ci hanno visto!-

Riprendemmo il lavoro. Ancora quel profondo silenzio, rotto solo dal colpi delle vanghe che fendevano il terreno. Poco dopo tre razzi traccianti ci sorpresero passando sopra le nostre teste.
-Sono traccianti! – disse Gigetto dalla buca vicina
Aldo, a tutta risposta, si lasciò scappare una bestemmia: certo in quelle situazioni non si pensa tanto alle buone maniere!
-Ci siamo di nuovo? – chiesi
La risposta alla mia domanda fu una scarica di granate che ci investì in pieno coprendoci di terra.
-Giù! Giù nel buco! – urlai a squarciagola
-Giù!, giù!- gridarono anche gli altri compagni lontani.

Le scariche si susseguirono per almeno dieci minuti e non ci davano tregua, poi una breve pausa permise a quelli più vicini alla stazione di correre e di rifugiarsi nella cantina, assieme ai soldati tedeschi. Per noi nulla da fare, eravamo troppo distanti e scappare al buio non era possibile. Mi rannicchiai di più contro la parete di terra della mia buca; fosse stata profonda quanto la parte di Aldo avrebbe permesso un maggior riparo, ma non c’era tempo neppure per ragionare perché il bombardamento riprese con una maggior violenza, con scariche a tappeto che avanzavano progressivamente verso la stazione. Ero senza l’elmetto e mi riparai la testa con il badile. Un attimo di sosta… troppo breve, poi ancora quei maledetti traccianti e via di nuovo le granate. Così continuò per parecchie decine di minuti, che mi parvero un’eternità.

Gli scoppi che avvenivano intorno alle nostre postazioni sollevavano quintali di terreno che in parte ci investiva e dall’alto anche qualcheshrapnel , le famose granate che esplodono un mille pezzi, ci condirono ben bene. Ad un tratto uno scoppio assordante: una granata esplose nel muro ormai diroccato di un piccolo deposito ferroviario poco distante. Lo spostamento d’aria mi fece sobbalzare ribaltandomi all’indietro. Tutto intontito mi misi in ginocchio: percepivo una strana dolenzia al braccio destro ed una completa perdita della sensibilità della mano. La testa, sporca di terreno, mi doleva.
Il buio pesto non mi permetteva di vedere nulla, così tastai il braccio per capire la causa di questa strana sensazione. Partendo dalla mano, che non riuscivo a muovere, cominciai a risalire. L’avambraccio era intatto, ma a metà omero solo un sottile brandello di muscolo era rimasto a sorreggere l’arto.
– Sono ferito! – grido ad Aldo – Gigetto, sono ferito! Vieni con la cassetta di pronto soccorso! –
-Resisti, vengo appena mi lasciano uscire!- risponde
-Vieni, sono ferito!- continuai a gridare
– Moriamo tutti! Moriamo tutti! – gridò Aldo – ed invece di aiutarmi iniziò a recitare il Rosario
Strano effetto fa la paura: un bestemmiatore incallito come Aldo tutto ad un tratto si trasforma in un fervente devoto.

Ma il bombardamento, che non rispetta credi e devozioni, continuava violento senza sosta. Riavutomi dall’intontimento mi accorsi di una forte emorragia: era necessario fermarla al più presto, così, non avendo nulla a disposizione perché Gigetto era ancora bloccato nella sua buca e con lui la cassetta dei medicinali, uscii allo scoperto sotto le granate e a tentoni recuperai la sciarpa che avevo lasciato appeso ad un tronco di un albero. Con questa tentai di legare il braccio ma con una sola mano a disposizione non ci riuscii. Mi avvicinai ad Aldo che distogliendosi dalle preghiere mi aiutò a stringere la ferita.

Finalmente una pausa… Gigetto ci raggiunse e con un laccio improvvisato mi serrò il braccio ulteriormente; tastando la mia ferita disse – che buco! Ne manca un pezzo! –
Ancora una pausa… questa sembrava durare più a lungo e così anche i compagni rifugiati in cantina poterono accorrere in mio soccorso.  Presto… presto… occorreva abbandonare subito quel posto avanzato, ma il buio e le forze che piano piano mi mancavano mi fecero incespicare più volte. Mi adagiarono così in una specie di barella ottenuta con il mantello di Marchì e raggiungemmo correndo il comando tedesco, che era situato in un palazzo a circa metà del viale della stazione, proprio mentre riprendeva il cannoneggiamento. Ci identificarono e con una torcia elettrica il comandante ispezionò il mio braccio: – Brutta ferita! – esclamò consigliandomi di raggiungere a piedi il posto di medicazione tedesco nel centro del paese.

Raggiunto l’ospedale militare un capitano medico mi soccorse medicandomi ed iniettandomi farmaci e calmanti.  Da qui inizia un’altra avventura, ben più lunga e dolorosa di quella descritta, dove il nemico non è più il cannone o la bomba ma è il pericolo dell’amputazione del braccio destro.
Avevo solo sedici anni…..

Giovanni Camerini classe 1928

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