Quasi una novella: il coniglio bianco

Questa narrazione sembrerà una novella, ma novella non è: è uno dei pochi sereni episodi del periodo della doppia invasione del nostro paese che noi, nonni romagnoli, ricordiamo. Si riferisce all’ultimo periodo delle ostilità, finite sul Senio, un fiumiciattolo a sghimbescio, a breve distanza, specialmente a sud, dal nostro Castello, che fermò per cinque mesi l’avanzata alleata, il tempo per far diminuire ed affamare una popolazione e a riempire di macerie gran parte della località trasformandone l’aspetto.
Era il dicembre del 1944: i tedeschi si erano sparpagliati nelle campagne coi loro armamenti, mentre dalle colline occhieggiavano gli alleati sempre pronti a rintuzzare, con dose sempre maggiore, il tiro di disturbo avversario. In osservazione, nel cielo, c’era sempre la cosiddetta “cicogna”, l’aereo di avvistamento.

Era una mattina tranquilla senza scoppi di granate, con un cielo sereno senza aerei: di queste giornate approfittavano i castellani ed i molti sfollati per uscir dalle cantine e dai ricoveri per far provviste di cibo e di acque e per prendere un po’ di sole, sempre in guardia però del pericolo incombente. Mia moglie, a corto di cibarie pensò di recarsi in campagna, dalla famiglia colonica dove eravamo stati nell’estate sfollati, a breve distanza dalla linea del fronte per acquistare qualcosa di più sostanzioso del magro vettovagliamento fornito dallo spaccio aperto da volenterosi di ogni partito che ogni giorno rischiavano la pelle per rifornirci. Era il C.L.N. clandestino che si era proposto di “sfamare” il paese.
Mia moglie prese con sé la figlia decenne; con un po’ di paura, ma con la fiducia nella Provvidenza, si mise in cammino. La calma era assoluta: nella stradina semideserta, che iniziava dalle mura del vecchio cimitero, ora orto del Cappuccini, incontrarono due persone, fuori per lo stesso scopo. Null’altro. La bimba un po’ fantasiosa, si stupiva degli uccelli che, di quando in quando, un po’ spauriti volavano sugli alberi scheletriti.

Alla svolta della stradetta, là, ove, dopo un bivio, volge verso il canale e rasenta una villa allora deserta ed il sagrato della parrocchiale, in vista della casa colonica, la madre, che ormai aveva tirato un sospiro di sollievo perché la méta era prossima, vide luccicare sul ponticello che attraversa il canale un susseguirsi di scatole unite fra loro, luccicanti al sole. Mentre si fermava sorpresa e prendeva per mano la bimba, scorse soldati tedeschi che accorrevano gridando: “Achtung! Achtung! Mine! Mine” indicando il centro della strada. Con grande ansia e preoccupazione fu raggiunta la casa colonica.  Ma come era cambiata dall’estate che per i bimbi era stata come una villeggiatura, perché ignari del pericolo quotidiano. All’interno del casolare, nella cui aia erano piazzate armi leggere, nelle stanze e perfino nella stalla, giacevano sulla paglia e anche sul nudo suolo, con le bende insanguinate e sudice, in varie posizioni, feriti che si lamentavano in una lingua assai dura, straniera.

La madre fu presa da una grande commozione e Maria Rosa la figlia, volse altrove gli occhi, stringendosi a lei. La famiglia contadina si era ristretta in due camere slabbrate: l’accoglienza fu festosa, ma triste: da poco tempo un figlio era stato ucciso da una scheggia di granata. Antonia, una delle due donne di casa, dopo aver ascoltato le richieste della visitatrice, scuotè mestamente il capo e poi disse “Un coniglio, sì”.  E così il coniglio bianco, dagli occhi rossi come brace, l’ultimo rimasto fu sistemato nella sporta e cambiò domicilio. Madre e figlia ringraziarono e poi presero, tremebonde, la via del ritorno. Giunsero a casa soddisfatte, ma stanchissime, ed emozionate. La bestia intanto fu posta in un incavo della soffitta, illuminata da un lucernario. Lì, ogni giorno, nelle ore tranquille, si riforniva alla ben meglio con quel che si aveva e con l’erba strappata dal vicino prato. Non ci sentimmo di ucciderla.

Il coniglio bianco divenne così l’amico dei figli: da solo, anche le bestie sono intelligenti alla loro maniera, aveva appreso a scendere due ripide rampe di scale attraversare una camera e a sistemarsi in cucina ove, in mancanza d’altro, rosicchiava il cuoio di vecchie scarpaccie. Passarono i giorni e la stretta alleata si fece soffocante e pericolosa: Castello sotto il martellamento delle artigliere, le bombe degli aerei e le mine tedesche si sbriciolava sempre più, mentre parte dei suoi abitanti cadeva morti o feriti e gli sfollati partivano. Quando furono presi di mira campanili e torre centenaria, i colpi si ripercuotevano sulla nostra casetta. Ed una volta… una granata la colpì in pieno all’altezza della soffitta, traforando i due muri maestri. Noi pensammo: “Povero coniglio!” Ma dopo un po’ di tempo, ce lo vedemmo davanti tremante ed impolverato in cucina. Sembrava guardarci coi suoi timidi occhi rossi, ma era cieco. Lo tenemmo lo stesso per la gioia dei ragazzi.

Passò qualche mese, venne la Primavera con le dolci arie d’aprile. Da poco era passata la Pasqua, le campagne si vuotarono di tedeschi. Dopo l’ultima prova, un bombardamento a tappeto sulle nostre campagne, l’alba della risurrezione. Era il 25 d’Aprile: la popolazione festante, in un paese irriconoscibile, salutò i polacchi liberatori. Il coniglio non fu sacrificato. Servì a rinnovare la sua razza giacché si era provveduto, da altri a salvare le femmine, nascondendole alle razzie tedesche. Per un certo tempo fu un simbolo, sebbene cieco, di virilità e moltiplicò la sua specie. Ma una mattina, lo trovammo stecchito nel suo nascondiglio. Lo credete? Ci commovemmo, i bimbi piansero. La timida bestia era stata la fedele compagna delle nostre tristi avventure incognite e tragiche.

Angelo Donati

tratto da: Le Piè, n. 2, 1981

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