Un’opera misconosciuta di Gerolamo da Treviso il Giovane a Castel Bolognese

Faenza è giustamente orgogliosa del bellissimo affresco che adorna l’abside della chiesa della Commenda, doppiamente caro perchè alla magìa di colori suscitata dallo smagliante pennello del pittore veneto, va congiunto il ricordo umanistico di frate Sabba. Purtroppo è un capolavoro che muore, una limpida espressione dello spirito italiano condannata dal logorio del tempo a scomparire inesorabilmente.

La pittura della Commenda è quella che meglio misura l’eccellenza dell’arte di Gerolamo da Treviso e rappresenta forse il culmine massimo di un’attività diffusa per vari luoghi del Veneto poi continuata nell’Emilia, nella Romagna e in Liguria. Qui fra noi il pittore deve avere per molti anni operato: del 1525 sono i monocromi in S. Petronio a Bologna; successivamente troviamo i segni della sua attività nella nostra Romagna. L’affresco accennato appartiene al 1533, ma il Gaddoni, lo storico della diocesi d’Imola, ha rinvenuto le traccie della presenza e della attività del pittore a Castelbolognese l’anno precedente a quello; precisamente in un rogito del Gottarelli (ora Arch. Not. Faentino) che al 3 settembre 1532 registra un pagamento a lui fatto dalla Confraternita di S. Croce per le pitture eseguite nell’oratorio di essa, oggidì scomparso.

Notizia ne diede il dotto francescano imolese nella bellissima monografia pubblicata nell’occasione del restauro della chiesa di S. Sebastiano in Castelbolognese, e al nome del pittore accennava parlando dell’affresco che oggi ancora campeggia dietro l’altar maggiore, lasciando in dubbio però a quale autore questo potesse attribuirsi. Dall’iscrizione coi nomi dei committenti che sottosegna la pittura egli, servendosi di numerose memorie d’archivio, ne collocava in modo certo l’esecuzione tra gli anni 1532-34, cioè proprio quando il trevigiano operava in Castelbolognese e a Faenza. Nonostante ciò il Gaddoni concludeva affermando: …da raffronti fatti colle opere del suddetto pittore mi sono convinto trattarsi, nel caso nostro, di figure che hanno reminiscenze della scuola di Innocenzo da Imola”.

Lo storico imolese, valoroso e profondo indagatore degli archivi notarili ed ecclesiastici, non s’accorse della via errata, o forse gli nocque l’eccessiva timidezza nell’affermare ciò che in modo certo non balzasse fuori dalle antiche carte, o forse l’amore per l’artista della sua città gli traviò il giusto apprezzamento. Francamente nell’affresco di S. Sebastiano non v’è proprio nulla che rammenti la maniera di Innocenzo Francucci, se non forse una vaga intonazione raffaellistica nient’affatto a lui particolare; e nemmeno posso consentire col Buscaroli che accomuna, sulla traccia della stessa derivazione marchesiana o ramenghiana, gli affreschi di Casanola (Solarolo) e questo di Castelbolognese. A parte la grande differenza che separa queste due opere, debbo affermare che la seconda dimostra abbastanza chiari il gusto e l’esecuzione di Gerolamo da Treviso, e quindi tempo che a questi vada assegnata.

Tra i pittori veneti di minor fama che operarono a lato dei grandi maestri dell’epoca aurea, il trevisano connaturato, come tutti gli altri, dei principi fondamentali del colorismo e della fusione dei toni (ciò che è maggiormente evidente nei suoi primi lavori), è pur quello che successivamente evolvendosi di più s’accostò ai maestri delle altre scuole operanti fuori della cerchia veneziana. Artista non molto ricco di opere, soprattutto subì l’influsso della scuola bolognese, nè a volte seppe sottrarsi al manierismo raffaellesco: vario quindi e mutevole a seconda dei modelli a cui più direttamente s’ispirava, raggiunse spesso nella fusione di elementi diversi l’eccellenza dell’arte.

Nell’affresco di Castelbolognese (m. 2,24 X 1,93) la Madonna, seduta sul trono levato su di un alto zoccolo e colla spalliera drappeggiata da un panno rosso, poggia i piedi su un tappeto violaceo ricadente all’innanzi e tiene sul ginocchio sinistro il Bimbo che, avvolto in un breve pannicello bianco, stringe nella mano una rondinella. La Madre indossa un abito rosso a riflessi bluastri avvolto in basso da un ampio manto azzurro; giù dal capo le ricade un velo bianco che s’avvolge attorno al petto. Biondi sono i capelli della Madre e del Figlio, roseo il colorito delle carni con pastosità di tono più intenso. Ai lati del trono chiude l’orizzonte, lasciando solo scorgere in alto un tratto di cielo, un fondale scuro su cui spiccano da ogni lato due figure di santi prospetticamente disposte e cioè, sull’innanzi S. Sebastiano e S. Filippo Benizzi. Il Santo Martire, poggiato il corpo sulla gamba destra, china lievemente il capo biondo e sogguarda con occhio mesto all’infuori della scena; S. Giuseppe s’appoggia al bastone; S. Filippo tiene fra le mani congiunte il fiore di giglio; S. Rocco indossa l’abito da pellegrino con mantellina, berretto color viola, calzari azzurri, egli porta al petto il braccio destro in cui racchiude la lunga asta, e tiene posato un piede sul gradino del trono.

L’intonazione di tutta l’opera è calma, raccolta, priva di ogni sfoggio; nessun elemento estraneo distoglie l’occhio dalle figure sacre, nè turba l’equilibrio delle parti, rigorosamente esatto ed armonico. Ciò che induce subito a pensare all’arte veneziana è il colorito effuso che uniformemente si espande con note vivaci, componendo in armonia profonda queste figure la cui vita si esprime attraverso i toni caldi delle forme, la vibrazioni degli impasti, la sfumatura dei contorni e delle ombre. E’ il predominio della forma e del colore sopra la sostanza e il disegno: a ben guardare si scopre che la pastosità delle carni, dei volti e di tutto l’assieme delle figure manca di vero sostegno; essa non che l’espressione della sensibilità. e della fantasia coloristica che guidano il pennello del pittore. E sotto questo particolar modo di esprimere noi possiamo riconoscere certi modelli, certe forme caratteristiche e comuni a tutta l’opera del dolce artista veneto: guardate i visi della Madre e del Bimbo dall’espressione così calma e tranquilla, in cui gli occhi s’allontanano e sfuggono verso i lati della fronte, in cui il naso è piuttosto largo alla base; notate gli stessi caratteri nel S. Sebastiano e quel suo sogguardare di lato; il profilo severo del S. Rocco che rammenta, sebbene con minor fierezza, quello del pastore che avanza da destra nell’Adorazione ora al Christ Church College di Oxford; vedete quelle mani dalle dita affusolate; i tipi dei santi, dalle ombre diffuse e dal colore acceso; tutti caratteri insomma così evidenti che rendono superfluo istituire confronti più precisi.
Il Venturi, nella monumentale sezione della sua Storia dedicata alla pittura del ‘500. rileva come sia carattere precipuo di Gerolamo da Treviso l’impulso verso il movimento, lo straniarsi dalle forme rigide a mezzo di particolari vivaci che rompano la monotonia della scena; e pensa che in particolar modo abbiano operato su ciò l’impeto del Pordenone e del Romanino, l’irrequietezza del Correggio e del Mazzola. Se all’incontro nell’affresco di S. Sebastiano troviamo tutto calmo e simmetrico, pacato e raccolto, io credo che ciò debba essere derivato dallo studio fatto nel lungo soggiorno a Bologna delle composizioni del Francia e del Costa, i quali però nulla poterono sulla sua natura essenziale di colorista.

Attualmente non abbiamo la certezza documentaria che quest’opera sia di Gerolamo da Treviso, ma considerando che egli agiva a Castelbolognese nel 1532, nel 1533 a Faenza, e che la data approssimativa del nostro affresco coincide con questi anni, non vedo proprio a quale altro pittore dell’epoca, e meno che mai ad un romagnolo, si debba pensare. L’arte di Gerolamo da Treviso in Romagna una apparizione solitaria che rapidamente scompare senza scia e senza illuminare di alcun vago riflesso i pittori indigeni.

Non saprei dire se nell’esecuzione il pittore possa aver avuto la collaborazione di suoi aiuti; ma non mi sembra perchè l’opera dimostra un tono piuttosto uniforme e costante in tutte le sue parti. Se il pittore non ha raggiunto il fastigio come nell’abside della Commenda di Faenza, vorrà dire che qui non ha avuto un ispiratore e un mecenate esigente come frate Sabba; quindi s’è contenuto entro limiti più modesti ed ha maggiormente affrettato il suo pennello. Ma ciò non diminuisce affatto il pregio di quest’opera purtroppo manomessa dall’arbitrio vandalico degli imbianchini, e poi abbandonata in una deplorevole condizione. Da quelle forme emana sempre solenne e magico un respiro di poesia; ed oggi nella chiesetta, sotto lo sguardo dolce della Madre, accanto alla trafitta carne del Martire Sebastiano, degnamente si onora la memoria dei caduti per la Patria.

Antonio Corbara

Tratto da Valdilamone, gennaio-marzo 1934


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L’affresco in una fotografia antecedente al 1945. Il dipinto fu danneggiato durante l’ultima guerra. In fase di restauro fu distaccato e riportato in tela a cura della Soprintendenza, nella persona di Alessio Verri. Attualmente le dimensioni sono 200×190 cm e sono visibili la Vergine seduta al centro su alto trono e il Bambino e, in basso, le mezze figure di S. Rocco e S. Filippo Benizzi. La scomparsa iscrizione recitava così: ANTONIVS.TABANELVS.GEORGIVS.TABANELVS.INMAGINEM./
VIRGINIS.FIERI.IVSSEERVNT (sic).DIVVM.VERO.SEBASTIANVM/ HIERONIMVS.ROSSIVS.DIVUM.ROCHV.BVLDRINVS.FIERI.IVSSERVT./ SCVM.VERO.IOSEPHVM.S.ALEXANDER.DE.MAZOLANO.SCVM.VERO./
PHILIPPV.FR.ANGELVS.FIERI.FECERVNT./
CETERA.VERO.ORNAMENTA.HELEMOSINIS./
HIC.ET.INDE.COLLECTIS.FACTA.FVERVNT.

Didascalia a cura di Andrea Soglia

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