Il barbiere di campagna: Antonio Dall’Oppio

Superare la soglia dei novant’anni oltre mezzo secolo fa era cosa più rara di adesso. Se poi il vecchio nonno aveva la saggezza e il vigore fisico di Antonio Dall’Oppio, classe 1849, non ci si deve stupire se il suo ingresso nelle osterie, di cui Castello un tempo era pieno, fosse salutato dagli umili avventori con un vociare festoso che si levava dalle tavole insieme con un applauso spontaneo.
Antonio Dall’Oppio era l’amico di tutti; di fronte a lui molti anziani si sentivano ringiovanire. Lo soprannominavano “Tugnì la Bagliona” perché la madre era una “bélia” molto popolare, una levatrice di robusta corporatura che era solita augurare cent’anni ai suoi figli e a tutti gli infanti che aiutava a venire al mondo.
Antonio vantava nel suo casato alcuni tra i più valorosi garibaldini di Castello. Da parte della moglie Rosa, sorella di don Achille, parroco della Serra, era imparentato con la distinta famiglia Bornazzi di Massa Lombarda. Francesco, il primogenito prematuramente scomparso, fu sacerdote e stimato latinista. Un altro figlio, Natale, durante l’ultima guerra fece parte del Comitato di Liberazione a Firenze segnalandosi per i suoi meriti. Adele, l’ultimogenita, gli diede i due nipoti Francesco e Rosalba Martini, nati nella casa dei nonni materni in via Ginnasi a Castel Bolognese: il primo divenne monsignore e fece carriera nella Segreteria di Stato del Vaticano.
Tugnì la Bagliona, barbiere e cercatore di funghi, conosceva palmo a palmo la campagna di Castello che percorreva dalla mattina alla sera per fare la barba ai contadini e ai signori. Fedele agli insegnamenti materni che gli raccomandavano di camminare continuamente, sarebbe entrato in competizione con i podisti di oggi i quali, riconoscendo in lui un precursore, potrebbero intitolargli la loro associazione.
All’età di novant’anni compiuti il barbiere di campagna si vantava di percorrere a piedi dieci chilometri al giorno. Dritto come un fuso, faceva passi brevi ma sicuri. Sapeva tenere ancora in mano il rasoio anche se negli ultimi anni si limitava a radere la barba al conte della Serra, che gli faceva gran festa quando lo vedeva arrivare (a piedi, naturalmente) alla villa.
La Serra era tra i luoghi più battuti da Tugnì insieme con il cane Furia che tra gli alberi e i rivali dei fossi gli scovava grosse palle di trifola: la bella trifola bianca da agosto a Natale, poi la trifola nera fino a febbraio e la rossiccia marzuola.
Rimasto vedovo partì con l’unico figlio maschio superstite per Firenze. Ritornò poi nella terra natale a scorrazzare come prima e a incontrare la sua gente nelle osterie dove l’odore dei tartufi risvegliava i suoi più cari ricordi di vagabondo. E gli amici lo ascoltavano a bocca aperta come se fosse un padre: i suoi detti, i racconti della sua vita polarizzavano l’attenzione di tutti attorno alle belle tavole bagnate di albana e battute dai pugni degli avventori avvolti in nubi di fumo e capaci di passare repentinamente dalla lite alla risata più scrosciante.
Tugnì il vegliardo ultranonuagenanio, tracciava i profili dei suoi parenti garibaldini, degli amici e dei clienti o rievocava in modo fascinoso fiere e feste delle parrocchie che descriveva così: “Campiano dove si accamparono i soldati; la Serra dove i soldati fecero la trincea; Bergullo dove i soldati fecero l’albergo; Mazzolano sul rio Sanguinanio dove avvenne la battaglia; Ossano dove furono sepolte le ossa dei caduti; Biancanigo dove i cavalieri si batterono all’arma bianca; la Pace, dove nel 1100 fu fatta la pace. Ogni parrocchia mi dà la trifola e la trifola mi dà la forza di vedere ancora tante cose nuove e belle nel mondo”.
Ad ogni replica del racconto seguiva immancabilmente l’acclamazione dell’uditorio: “Evviva Tugnì la Bagliona!”.
Nell’inverno 1944 il fronte di guerra si porta sul Senio: Castel Bolognese è investito in pieno dalla bufera.
Tugnì la Bagliona ha 95 anni, ancora lucido e saldo sulle gambe ma costretto dagli eventi bellici a sopportare l’immobilità del rifugio.
Si ammala di bronchite e viene ricoverato nell’unico locale allora agibile e sicuro dell’ospedale: la cantina. Qui presta servizio civile come volontaria Rosalba, la nipote prediletta che un giorno gli aveva detto: “Se tu, nonno, dici che quando sarò grande morirai, voglio restare piccola”. Rosalba, che lo sente ripetere: “Aiutami, aiutami!”, lo assiste notte e giorno fino alla morte. E’ il 18 dicembre 1944.
Il funerale dell’amico di tutti si svolge in circostanze drammatiche.
Il custode del cimitero non ha il coraggio di muoversi a causa dei bombardamenti e consegna le chiavi alla nipote e al genero dell’estinto. La bara viene caricata dai due famigliari su un carretto sotto il quale, all’altezza del prato della Filippina, essi sono costretti a cercare riparo sorpresi da un’incursione aerea.
Nonostante la furia bellica il vecchio Tugnì può dirsi fortunato: viene condotto al camposanto da due famigliari che lo amano e che con le loro poche forze riescono a sollevare la bara fino ad introdurla al sicuro nel loculo a lui destinato accanto a quello della moglie.
In quello stesso loculo Tugnì la Bagliona riposa tuttora in pace.

S. Borghesi

Testo tratto da Il Nuovo Diario del 21 marzo 1998; fotografia tratta dal Fondo Stefano Borghesi, Biblioteca comunale di Castel Bolognese.

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