L’alimentazione umana al tempo della mia infanzia e adolescenza
di Maria Landi
(Introduzione) Il 21 agosto 2022 al Mulino Scodellino Maria Landi ha animato un “trebbo gastronomico” in cui ha raccontato, attigendo ai ricordi di infanzia e adolescenza, come si mangiava un tempo nelle campagne castellane. I temi principali sono stati il pane come alimento principale, il cibo quotidiano e i pranzi delle feste. Con la compagnia di Andrea Soglia, Maria ha letto anche varie sue poesie sempre di argomento “gastronomico”. Mentre preparava l’incontro Maria Landi ha buttato giù un po’ di appunti che sono stati un’utile scaletta per il trebbo; questi appunti Maria li ha pazientemente riordinati e ce li ha inviati per il sito. Ci sembrano molto interessanti e li pubblichiamo pensando di farvi cosa gradita, così come molto apprezzato era stato il trebbo di cui alleghiamo qualche fotografia tratta dalla pagina facebook del Mulino Scodellino. Ringraziamo Anna Ragazzini per la sempre gentile collaborazione. E, naturalmente, un grosso grazie a Maria! (A.S.)
L’elemento indispensabile dell’alimentazione ai tempi della mia infanzia e adolescenza era senza alcun dubbio il pane. Quando sulla tavola mancava il pane c’era solo da soffrire la fame. Molte cene consistevano a volte in un pezzo di pane, “un trocal d’pan” inzuppato nel vino, oppure in una fetta di pane sfiorata da un velo di marmellata, o cosparso di pepe e sale e una lieve lacrima d’olio, antenata dell’odierna bruschetta. Il companatico c’era solo rare volte.
In campagna il pane si faceva in casa. Chi non aveva il forno portava l’impasto già lavorato e gramato a cuocere in paese. Si poggiava su lunghi assi sui quali si confezionavano le pagnotte, che venivano contrassegnate da un timbro di riconoscimento, segnandole con un segno di croce prima dell’infornata. Più tardi si ritirava il pane caldo, fresco e fragrante per i bisogni di un intera settimana. Le donne di casa, sotto l’inflessibile comando dell’azdora che non ammetteva contestazioni, buone buone espletavano questo importante lavoro come un rito solenne.
Durante i cinque lunghi anni di guerra, le già precarie condizioni esistenti si aggravarono ulteriormente. Verso la metà degli anni Trenta l’Italia subì le Sanzioni Economiche, imposte dalla Società delle Nazioni di cui faceva parte. Aveva meritato un simile affronto, per avere violato certe regole vigenti fra gli stati membri della Società. Con una guerra di conquista aveva invaso una vasta zona dell’Africa, precisamente l’Etiopia, non rispettando i trattati esistenti. Pressappoco la stessa situazione che sta accadendo ora fra la Russia, che sta invadendo l’Ucraina in una guerra spietata e le Nazioni Unite che sono contrarie a questo infame sopruso.
L’Italia fu privata delle necessarie risorse che non aveva e che acquistava nei mercati stranieri. In modo particolare vennero a mancare i generi alimentari, indispensabili per sfamare la popolazione. Onde arginare questo disastro fu istituita la famosa “Battaglia del Grano”, uno slogan propagandistico che doveva far aumentare le scarse scorte. Le terre incolte, certe aree sportive e certi giardini furono coltivati e piantati a grano. Piazza d’Armi a Faenza, non ancora alberata e priva di costruzioni divenne un vastissimo campo di grano, che faceva un bellissimo effetto al tempo della maturazione.
Quando a giugno del 1940 anche l’Italia entrò in guerra le poche scorte diminuirono ancora. C’era anche da provvedere ai rifornimenti alimentari per i soldati dislocati nei vari fronti. Le tristemente famose Tessere Annonarie vennero inventate in questo frangente. Ogni cittadino venne fornito di diversi fogli multicolori composti di cedole staccabili, che davano diritto all’acquisto di ciò che serviva per tirare avanti alla meno peggio. Questo stratagemma copriva la triste realtà. Tutto era razionato e si poteva acquistare solo ciò che era stato deciso dall’alto. La cedola del pane concedeva un ettogrammo e mezzo di pane al giorno, aumentato a tre e mezzo per gli uomini che lavoravano e le donne in stato interessante. Una famiglia di quattro persone poteva arrivare fino a otto etti, essendoci un uomo. Se facciamo un paragone con oggigiorno che di pane se ne mangia pochissimo, vediamo che otto etti sono tanti. Il gradevole companatico di oggi però, a quei tempi era quasi assente. Il grano era sempre più scarso. Per far farina a sufficienza si macinavano tutti i tipi di cereali e anche legumi. Si arrivò persino a mischiare a queste strane farine patate lesse schiacciate. Dalla strana mistura usciva un pane brutto e disgustoso e nonostante tutto era sempre troppo poco.
Chi aveva come noi la fortuna di vivere in campagna, riusciva in qualche modo a procurarsi il cibo. Cera l’orto con alcuni alberi da frutto, si coltivavano anche gli angoli più stretti. C’era il cortile dove di nascosto dalle istituzioni crescevano conigli e polli, con relative uova. Occorreva stare molto attenti per non farsi decurtare cedole, in seguito alle spiate dei vari delatori che, girando per le campagne, segnalavano i cosiddetti “furbetti” che tentavano di aggirare le spietate regole.
Inoltre si dava un aiuto ai contadini dalle famiglie dei quali era venuto meno la forza lavoro dei giovani, costretti sotto le armi. Nei momenti cruciali si dava una mano, ricevendo in cambio un riconoscimento in natura, mai in denaro. Vigeva l’antica forma del baratto. Tu mi aiuti, io ti do quello che ho. Poi si andava a spigolare dopo il raccolto, anche se per questo povero lavoro occorreva il permesso dall’alto. Poiché il bisogno aguzza l’ingegno, i giardini, i balconi, le terrazze vennero convertiti in orti. I celebri orti di guerra, cantati anche nelle canzoni patriottiche.
Per questi motivi e un’infinità di altri noi non soffrimmo mai la fame vera e propria. Quella fame mai saziata che strisciava fra le popolazioni delle città, dove per procurarsi un po’ di cibo si doveva sottostare alle regole di quell’orribile sistema chiamato Mercato Nero o Borsa Nera. Molte persone per procurarsi di che sfamare la famiglia si privò dei propri averi.
Il lungo periodo di grande crisi alimentare interessò il primo mezzo secolo del ‘900. Finita la guerra e l’altrettanto pesante dopoguerra si ripristinò alla meglio la situazione e si ricominciò a vivere. Riprese un’alimentazione quasi normale. Il cibo non era più razionato, anche se non proprio abbondante. Ecco allora le brave massaie riannodare le fila interrotte per così lungo tempo, quando si erano inventate, con il poco che c’era, il necessario alla sopravvivenza della famiglia. Tornarono sulla tavola Odori e Sapori dimenticati da tanto. La poesia che ricorda le tante loverie scordate per forza maggiore, la scrissi una ventina di anni fa su preghiera di una amica nostalgica, che chiedeva romanticamente qualcosa che ricordasse il passato. Un caro amico di allora, il Professor Stefano Borghesi apprezzò molto la composizione definendola semplicemente deliziosa.
La cucina quotidiana prevedeva per il pranzo un primo di minestra, non c’era distinzione fra pasta asciutta o in brodo, si chiamava tutta “minestra” e veniva cotta in qualsiasi tipo di brodo oppure in acqua e poi condita. Si impastavano acqua, farina e poche uova e si cuoceva in brodo di fagioli o in una brodaglia condita con ritagli di carne, pomodoro e cipolla la cosiddetta minestra matta, poco gradevole e che si mangiava solo per sfamarsi. Spesso c’era il riso cotto nel latte molto allungato con acqua , oppure in un brodo ricavato bollendo le ossa scarnificate del maiale, i piedini o zampetti, le orecchie, il codino tutto ben raschiato e pulito. Il brodo era fitto e denso, ma non sgradevole. Si facevano i curzul ricavati dalla sfoglia lasciata molto grossa e condita con quello che c’era, tornati in auge con ottimi sughi nelle cucine dei ristoranti odierni. Lunghi vermicelloni chiamati bigoli si facevano rotolando sul tagliere strisce di pasta, a volte si condivano con aglio e prezzemolo e risultavano semplicemente disgustosi. Oggi si chiamano strozzapreti e sono presentati nei migliori ristoranti ben conditi come novità assoluta.
I pasti si concludevano con frittate farcite con svariati tipi di erbe commestibili, oppure con teglie di friggione, “e Frizai” molto spesso presente sulla tavola, dentro il quale si intingeva il pane e che accontentava grandi e piccini. Ogni tanto si sacrificava un pollo, ma non si poteva consumare tutto in una volta. Una parte si riponeva in un cestino appeso a una corda e calato giù nel pozzo per conservarlo al fresco. Il frigorifero non era ancora stato inventato. Anche il cocomero passava un po’ di tempo nel pozzo.
In campagna, in particolari periodi, il lavoro era tanto intenso che la giornata iniziava all’alba e terminava al tramonto. Non esistevano pause caffè o pause di altri tipi. La prima colazione chiamata “panett”, consistente spesso in un pinzimonio di scalogno e cipolla e qualche fetta di un salume, annaffiati con un bicchiere di vino, si consumava nel campo di prima mattina. Le donne portavano grosse ceste di vettovaglie e apparecchiavano sulle zolle. A metà mattina da capo, con una grande teglia di friggione nel quale intingere il pane, si mettevano in pari gli appetiti. Anche a mezzogiorno si mangiava sul posto di lavoro. Tutto ciò per non sciupare tempo a spostarsi. Forse l’odierno picnic ha copiato questa antica usanza. Anche gli operai che lavoravano alla trebbiatrice, ”la Machina da Batar”, cambiando sempre zona di lavoro, mangiavano sul posto. Naturalmente erano le donne che portavano il cibo, affrontando lunghi tragitti disagevoli. Il menù era composto da un primo di minestra sempre asciutta, perché il brodo sarebbe traboccato nel percorrere carraie e sentieri spesso dissestati, seguivano un po’ di polpette, una porzione di pollastro e spesso uova sode spruzzate di rosolio.
Un altro alimento che ha aiutato molto nei momenti più neri è stata la polenta di mais. Si consumava abbrustolita sulla brace e a volte fritta nello strutto di maiale, una vera prelibatezza, oppure condita con quello che c’era in casa. Era gradita e apprezzata da tutti. Il granturco era per l’alimentazione del bestiame, ma dopo macinato si sceglieva la parte più fina che sarebbe diventata polenta, il resto diventava broda e pastone per gli animali. In granelli era una ghiottoneria per maiali e polli. Messi ad abbrustolire diventavano “galletti” per la gioia dei bimbi. Esistono ancora ma ora si chiamano popcorn e si comprano già pronti sigillati in sacchetti di carta lucida. La polenta dopo un certo tempo non fu più apprezzata come prima, quasi ci si vergognasse di un cibo così povero. Ora invece nelle sagre di paese questo piatto condito a puntino è tornato molto gradito. I grani del mais bolliti si trovano oggi mischiati ad altri alimenti, in insalate varie e si comprano in barattoli. Le granelle pallide e mollicce son diventate parte dell’alimentazione umana.
Non vogliamo dimenticare in questo nostalgico “amarcord” l’importanza del maiale che si macellava in ogni casa di campagna. Di questo povero animale ingrassato per essere sacrificato alla fame degli uomini, si consumava tutto. Si cominciava col migliaccio, conosciuto come “Barlenga”, fatto col sangue del martire, che diventava, a saperlo cucinare, una leccornia da giorni di festa. Dalla spartizione delle povere spoglie si ricavavano un’infinita varietà di pietanze, preparate da esperti norcini, “i mazler” che venivano riposte, ben salate per essere consumate fino all’estate. Persino le setole e le ossa servivano, venivano vendute a peso ai cenciaioli, i strazir.
Il mangiare della domenica era un po’ più ricercato e piacevole da consumare. La domenica si santificava la festa con la minestra cotta nel brodo di carne. Mia nonna Mariuccia partiva appena giorno, la domenica, per andare in paese a comprare la carne da brodo e tornava immediatamente per arrivare ad assistere alla prima messa nella chiesa della Pace. Portava alla mia famiglia un cartoccio di carne del valore di lire 3 e 50, non ricordo però di quale periodo si tratti, con la quale si faceva un brodo da leccarsi i baffi e dentro il quale si cuocevano i tagliolini impastati con sole uova.
Mia madre confezionava una specie di polpettone chiamato “e pì”, il pieno impastato con farina, pan grattato e uova. Lo cuoceva immerso nel brodo, dopo lo affettava ed era un ottimo contorno per il lesso, il quale doveva bastare anche per la cena. Qualche volta ciambella o zuccherini completavano la giornata di festa. Sempre la nonna alcuni venerdì andava al mercato ad acquistare un tipo di pesce che sapeva lei, importante per lo sviluppo intellettivo dei bambini.
Dall’uva appena pigiata si estraeva il mosto col quale si creavano pietanze per le nostre mense. I “sugal”, una miscela di mosto con farina bianca e gialla bollita a lungo, dava una specie di marmellata per il fine pasto. Sempre dal mosto, bollito per diverse ore si creava la deliziosa “saba”, dentro la quale si inzuppavano i ravioli di castagne, “i Sabadò”, da mangiare a carnevale e nelle feste del patrono. Inoltre nella saba si bollivano pere, mele cotogne e gherigli di noce che diventavano lo squisito “Savor,”. Sempre dal vino, cotto e speziato, nasceva il “Brulé”. In particolari serate di allegria, a trebbo nelle stalle riscaldate dal fiato delle bestie, si mangiavano le caldarroste annaffiate col vino cotto.
C’erano poi le feste grosse. In primis, il Santo Natale e la festa del Patrono, Sant’Antonio protettore della campagna e degli animali da cortile. Erano queste le uniche giornate nell’arco dell’anno in cui si mangiavano i cappelletti, orgoglio e vanto della nostra cucina. Si preparava un ricco brodo, per fare il quale si immolava un cappone e lì, dentro quella delizia si cuocevano i cappelletti. Seguiva un arrosto di carne, poi il dolce, quasi sempre la Zuppa Inglese, la “Sopa Inglesa”, specialità di mia mamma e poi vino in abbondanza. Lungo l’anno c’erano altre feste importanti, la Santa Pasqua, in cui era obbligatorio mangiare i passatelli più le solite quisquiglie. Da noi si festeggiava il quindici agosto, giorno dell’Assunzione, ma non riesco a ricordare il menù di quella giornata di piena estate. Per preparare il po’ po’ di roba che costituiva il menù delle feste, si sacrificavano i capponi, polli allevati nell’aia che a tempo debito sotto le mani esperte e un po’ crudeli delle “azdore” diventavano capponi. Oggigiorno si fanno molto sbrigativamente con una vaccinazione. Se quei bellissimi galli, conquistatori di galline, vanto e orgoglio dei cortili che vengono scelti per l’operazione, sapessero a cosa vanno incontro, scapperebbero a gambe levate. Per loro fortuna non lo sanno.
Quanto raccontato fino qui, in questa sequela di ricordi è soltanto un vago accenno a quanto è capitato a noi nel lungo periodo della storia che oramai fa parte del nostro passato.
Aggiungo per diritto di cronaca una costatazione. Difficilmente nel periodo menzionato si incontravano bambini e adolescenti sopra peso, grassi e obesi. Non erano ancora state soppiantate le fette di pane casereccio con marmellata o con burro fatto in casa con la panna del latte, da sempre colazione e merenda per bambini. Con il passare degli anni per fortuna migliorarono le condizioni di vita. Arrivarono le merendine, gli snacks, i dolcetti, molto più gustosi e sempre pronti, facili da preparare e tutto cambiò. Cambiò anche la fisicità dei bambini.
Ai tempi della mia giovinezza nessuno in casa aveva la bilancia pesa persone. Non c’erano nutrizionisti o diabetologi. Nessuno si interessava di calorie, carboidrati, grassi saturi o insaturi, non se ne conosceva l’esistenza. Gli argomenti di conversazione non sfioravano il colesterolo, i trigliceridi, la glicemia, il diabete e via via tutte le altre cose delle quali ora sappiamo quasi tutto. Quando moriva qualcuno improvvisamente, senza tanti complimenti si diceva: “e purett, u j’è avnu un colp”. Se qualcuno a una certa età perdeva l’orientamento si commentava così: “u s’è imbambinì…”
Detto tutto ciò si deve ammettere che le malattia infierivano con violenza anche una volta, basti pensare alla terribile epidemia di Spagnola che decimò la popolazione mondiale negli anni Venti e giù di lì, o alla tremenda forma di tubercolosi che si portava via la migliore gioventù dalle famiglie dove entrava. Prima che il mondo conoscesse la penicillina.
A questo punto si deve ammettere, con molto piacere, che nonostante i pro e i contro, l’aspettativa di vita da allora in poi ha fatto un bel balzo in avanti.
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