Domenico Minardi (1923-2002)

Domenico Minardi e il cardinale Achille Silvestrini nel 1990 fotografati in un momento della visita di Silvestrini a Castel Bolognese

Domenico Minardi e il cardinale Achille Silvestrini nel 1990 fotografati in un momento della visita di Silvestrini a Castel Bolognese

Domenico Minardi un cantore della vita. Ha amato la cultura romagnola più della filosofia.

Venerdì 15 marzo tanti castellani hanno data l’estremo saluto a Domenico Minardi nella chiesa di San Petronio. Ha celebrato il cardinale Achille Silvestrini, romagnolo schietto, che ha sempre coltivato i legami di amicizia con gli ex compagni del Liceo Torricelli di Faenza: una combriccola di ex studenti, oggi settantottenni, fedele alla bella tradizione di ritrovarsi periodicamente. Tra i castellani quella scolaresca contava, oltre a Domenico Minardi, Rosalba Martini, Tinetta Zanelli, Domenico Bosi, Gastone Raccagna. Il cardinale conosce ad uno ad uno i suoi compagni e non manca mai, nei momenti dell’addio, di ricordarli con umanità e vivo rimpianto. Cosi ha fatto per Minardi, toccando le corde delle poesie in dialetto, in cui il castellano lasciava sfuggire le sue confidenze più sincere. Domenico Minardi era conosciuto per la professione, prima, di veterinario, poi, di insegnante nella locale scuola media, ma lo era ancor di più per la conversazione briosa e la battuta di spirito.
L’apparente sicurezza di sé nascondeva i sentimenti prevalenti nel suo mondo interiore: i teneri affetti famigliari, l’avvertenza della umana fragilità, il timore delle insidie a cui siamo esposti, il compiacimento per tutto ciò che dà vitalità.
Era orgoglioso di avere le radici in questo paese e nella sua gente: un vecchio castellano, come altri rimasti ormai in minoranza, che avvertivano smarrimento della propria identità nei cambiamenti della vita di oggi.
Molti lo hanno conosciuto meglio da vicino quando, poco più di un anno fa, fece un brillante intervento al Trebbo del Vernacolo Romagnolo organizzato nel Centro Sociale Castellano. Recitò, tra l’altro, il suo “Quand ‘ca semia burdél”: “Era bello rincorrere il treno a vapore che, fischiando, si perdeva in fondo alla strada, era bello nel silenzio della notte cantare, sognando di essere divenuti dei re. Dopo tanti anni, contando quei ragazzi, mi sono accorto che ne manca qualcuno, l’ha portato via, credo, colui che ci strappa da questa terra ad uno ad uno”.
La ricordanza era, per Domenico Minardi, espressione di gratitudine al vecchio Castello e al valori che esso ha impresso in tante generazioni, ma era anche un plauso alla giovinezza in cui si esalta la vita:

“… Ricordo che in alto, sulla capanna, c’era un pezzo di latta con su stampato un cuore: il cuore dei ragazzi della mia Romagna, che dopo morti tornano a vivere”.

Domenico è morto a conclusione di una prolungata sofferenza, che non avrebbe augurato a se stesso e ad altri. Il destino ha voluto così, forse perché risaltasse il suo inno ai ragazzi nei quali sentiva battere il suo stesso cuore: un inno alla vita, che egli ha tanto amato, nella certezza della sua continuità oltre la morte.

Stefano Borghesi

Testo tratto da “Il nuovo diario messaggero” del 23 marzo 2002.


Proponiamo di seguito il testo di due poesie in dialetto di Domenico Minardi, pubblicate nel volumetto Quand’ ca semia burdel: poesie dialettali romagnole stampato nel 1981 e una rara registrazione audio della voce di Domenico Minardi intento a recitare le due poesie durante la serata del Folklore castellano tenuta il 23 marzo 1976 nell’Auditorium della Biblioteca comunale.

Campagna

Una bicocca fatta da cent’anni,
una porta sgangherata, due finestrette,
un nastro rosso per tener lontano il maligno,
un pozzo nell’aia, un abbeveratoio, un acquitrino,
una pagliàia con due buchi in mezzo,
un aratro vecchio, una botte già sfasciata,
colombi che si levano con degli svolazzi,
una scrofa nel fango là sdraiata,
Miseria! io ho pensato, malinconia:
dove vorreste trovare in questo mondo
un posto più adatto per voi? Ma mi sono sbagliato
perchè qui, invece, regna l’armonia.
La vecchia, seduta, fila la sua rocca
due fanciulli sporchi bevono al secchio,
la ragazza canta, e dalla bocca
getta: “amore, amore” e intanto guarda
al suo ragazzo che sdraiato nella spagnàra
aspetta il buio per dire alla sua donna
che basta una carezza fatta di sera
per essere contenti e vivere in fortuna!

Campagna

Una bicôca fàta da zènt’ènn,
una porta scavjêda, du fnistrèn,
un nàster ross par tnì luntân i malén,
un pozz int’l’éra, un ébi, un aquastrén,

una pajéra cun du bus ‘te’ mëz,
un parghìr vêc, ‘na bóta za sfascêda,
pizón ch’i s’liva ssó cun di svulëzz,
‘na trója t’la paciàra a là stuglèda…

Miséria! a j’ho pinsê, malincunèja:
dov vrèssuv, in ste’ mond puté truvê
un post pió adàtt par vó? mo a ‘m sò sbaglie,
parchè aquè, invézi, e regna l’armunèja.

La vëcia, a sdé, la fila la su róca,
du burdél inciussé ch’i bév ‘t la sécia,
la ragàza ch’la cánta, e da la boca
la bóta “amor, amor”, e intánt la sgvécia

e’ su ragàzz che, stés int’ la spagnéra,
l’aspëta e’ bur par dir a la su dóna
che basta una caréza fàta et séra
par rèss cuntént e vìvar in furtona!

A mia figlia

Ti ho aspettata una mattina di maggio,
camminando su e giù per un corridoio
ti ho guardata, ti ho presa in braccio
e ti ho stretta con amore e gelosia.
Ho scoperto per te, le favole più belle
ti ho detto che le stelle sono d’argento,
ti ho detto che in Romagna le belle fanciulle,
cantano sempre coi capelli al vento
ti ho portata lontano come in un sogno
senza pensare quando ti saresti svegliata.
Ora che sei grande devo dirti una cosa,
con fatica e con malinconia:
perdonami se le stelle non sono d’argento
e se una nube oscura l’armonia del sogno!

A la mì Fiòla

A t’ho aspité int’una matèna ‘d’mazz
caminénd in ssô in zô par’na cursèja!
A t’ho gvardê, e pu a t’ho tolt in brazz
e strèta cun amor e gelusèja.

A j‘ho svulè par te al fôl pió bèli
a t’ho dett che al stëll a’ gli è d’arzènt
a t’ho dett che in Rumagna al bell burdëli
al’ cànta sèmper cu’i cavéll a e’ vent.

A t’ho prumess quel ch’j’è ‘d pie bèl a e’ mond
a j‘ho spianè par te tot quânt al strê
a t’ho purtê luntân cum’int’un sogn
sénza pinsè quand t’a t’putré distê..

Adëss c’e’ granda a t’ho da dir un quël
mo cun fadìga e pô d’malincunéja,
scüsum tânt se al stell a l’n’è d’arzént
se una nüvla la gvàsta l’armunèia!

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