Luigi Patuelli (1921-2008)

https://www.castelbolognese.org/wp-content/uploads/2013/09/luigi_patuelli.jpg (37737 byte)

Luigi Patuelli (Biblioteca comunale Dal Pane, Carte Patuelli)

Il professore Luigi Patuelli.
Una testimonianza esemplare di carità.
Impegnato nell’Oami di Faenza e nell’Opera Santa Teresa di Ravenna.

Se qualcuno ritiene che l’indifferenza sia giunta ad un punto tale che la gente ignori le opere buone e chi le compie, avrebbe potuto ricredersi se, venerdì 10 ottobre, avesse assistito in San Petronio alle esequie di Luigi Patuelli, deceduto in età di 87 anni. Il rito, presieduto da mons. Roberto Brunato, vicario della diocesi di Faenza e amministratore parrocchiale di Biancanigo e Tebano, è stato seguito da una folla numerosa. C’erano i castellani di San Petronio e di Biancanigo, per i quali il professore Luigi era prima di tutto “Gigì d’la Ciùs”. Egli apparteneva all’antica famiglia Patuelli, che fin dal settecento ha atteso ininterrottamente alla custodia della chiusa, tra Biancanigo e Tebano, regolante il flusso delle acque del Senio nel canale dei Molini. Erano presenti anche operatori e beneficati dell’associazione Oami di volontariato, per la quale Patuelli si era a lungo prodigato né mancavano insegnanti che furono al suo fianco nella scuola. In Luigi Patuelli coesistevano una buona formazione umanistica e una fervida spiritualità francescana. Aveva insegnato lettere italiane e classiche con esemplare dedizione ai suoi compiti di educatore. Concluse il servizio nella scuola media di Castel Bolognese, da cui si congedò con rimpianto, nel 1986, quando aveva maturato il pensionamento. Ma non si mise a riposo nonostante i postumi, che sempre lo hanno tormentato, di un malanno causatogli dalla lunga prigionia di guerra. Nel 1985, a Faenza, era venuto a sapere, per caso da una locandina, dell’inaugurazione della “Casa famiglia San Francesco” con la quale l’Oami, associazione dedita alle persone inabili, si insediava nella città manfreda. Qui per vent’anni, fino agli ultimi giorni, Patuelli si è continuamente prodigato come volontario a sostegno e a conforto di tanti sfortunati nei quali, come mons. Brunato ha ben sottolineato nell’omelia, aveva imparato a vedere Gesù, che tanto amava. Era pure solito unirsi al gruppo dei Castellani che nell’ultima domenica di ogni mese prestano servizio volontario presso l’opera Santa Teresa di Ravenna, alla quale sono state devolute le offerte raccolte nel corso del funerale. A conclusione del rito funebre sono state ascoltate toccanti testimonianze. E’ seguita la lettura della pergamena pontificia, datata 29 maggio 2008, che l’estinto non ha fatto in tempo a ricevere: gli è stato conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Silvestro Papa per il bene reso alla Chiesa Cattolica. In San Petronio è scoppiato un applauso caloroso. Vi si sono ritrovate all’unisono tutte le persone che hanno conosciuto Luigi Patuelli sotto aspetti diversi, ma che, forse, non avevano colto fino in fondo l’intensità della sua opera caritativa, circondata dalla modestia e dal riserbo che contraddistinguono le persone sante.

Testo tratto da “Il Nuovo Diario Messaggero” del 18 ottobre 2008.


Testimonianza del prof. Luigi Patuelli resa l’11 aprile 2001 in occasione della cerimonia per il 56° anniversario della Liberazione di Castel Bolognese promossa dall’Amministrazione Comunale

(digitalizzazione a cura di Maria Merenda)

Note di un ex prigioniero di guerra

Luigi Patuelli (Biblioteca comunale Dal Pane, Carte Patuelli)

La parola italiana “cattivo” deriva dal latino captivus – prigioniero, perché quale persona è più miserabile di un prigioniero e, in particolare, di un prigioniero di guerra, secondo l’antica identificazione greca del bello col buono e, per conseguenza, del brutto col cattivo?
Ecco io lo fui per circa due anni e mezzo, un periodo tristissimo che ha fortemente condizionato la mia esistenza sotto l’aspetto fisico e psicologico.
E’ un fatto ormai lontano, ma che spesso affiora dal profondo del cuore, soprattutto quando mi giunge notizia, col passar degli anni sempre più frequente, della scomparsa di qualche amico, o meglio compagno, perché, come dirò più avanti, la parola “compagno” è più completa di “amico”.
A vent’anni fui chiamato a prestare servizio militare nella divisione “Pistoia” e, precisamente, nel 35° e poi nel 36° Regg.to di Fanteria motorizzata. In tale condizione attraversai, praticamente, tutta l’Italia, finché fummo trasferiti alla base navale di Trapani, da dove saremmo stati condotti in Tunisia: qui si stava combattendo l’ultimo atto della campagna di Africa, nel quale l’esercito italiano, dopo tante battaglie anche gloriose, se si può parlare di vera gloria nelle imprese belliche, stava per essere intrappolato dalle truppe inglesi provenienti da est e da ovest dalle truppe americane, sbarcate in Nord Africa l’8 novembre 1942.
In Tunisia operava la Divisione Pistoia e noi, che facevamo parte della XLII Brigata Speciale, di supporto alla medesima, dalla Sicilia e, precisamente, da Castelvetrano, avremmo dovuto raggiungerla; ma un furioso bombardamento alleato, la notte precedente la partenza, distrusse gran parte degli aerei e così fummo impediti di partire. D’altra parte non era possibile attraversare in nave il Mar Mediterraneo, perché gli alleati ne avevano fatto un loro lago.
Ben presto in Tunisia ogni resistenza italiana cessava con la resa della I° Armata, comandata dal Generale Messe, già comandante dell’Armir, il 13 maggio 1943.
Noi allora fummo destinati alla linea fortificata costruita a difesa della base di Trapani. Frattanto le truppe alleate, il 10 luglio 1943, sbarcavano in Sicilia.
Il 22 luglio reparti dell’VIII Armata Americana, comandata dal Generale Patton provenienti da est, da Palermo, e da sud ovest da Marsala occuparono la base.
Il giorno seguente fummo catturati dai paracadutisti americani, armati fino ai denti.
Aveva inizio, allora, la nostra disavventura.
Non è possibile immaginare le nostre tristissime condizioni, dovute anche al fatto che erano molti i soldati italiani caduti in mano alleata e che il giorno dovevano lavorare faticosamente, spesso sotto la minaccia dei bombardamenti tedeschi.
Il 25 luglio, diffusasi la notizia della caduta di Mussolini dopo la burrascosa riunione del Gran Consiglio del Fascismo, credendo che la guerra fosse finita e quindi prossimo il ritorno alle nostre case, demmo luogo a incredibili scene di entusiasmo, buttando per aria quanto ci veniva sottomano. I soldati di guardia al campo, scambiando la nostra gioia per un tentativo di ribellione, cominciarono a sparare; quindi ci allinearono, seduti per terra, con la minaccia delle armi da un capo all’altro, solo che ci fossimo mossi.
A metà agosto fummo portati in Tunisia, dove restammo per un breve periodo di tempo.
Dal campo di prigionia fummo trasferiti al porto di Biserta, a piedi, di corsa, per una ventina di chilometri, sollecitati dalle baionette dei soldati marocchini, sotto lo sguardo compiaciuto degli ufficiali e sottufficiali francesi.
Sperimentammo così l’odio che Mussolini aveva attirato sull’Italia con la dichiarazione di guerra alla Francia del 10 giugno 1940, per “avere diritto con qualche migliaio di morti di sedere al tavolo della pace”, ad appena dodici giorni dalla resa incondizionata ai tedeschi: un odio che si manifestò varie volte durante la nostra permanenza in Nord Africa e poi anche in Francia.
La lunga navigazione da Biserta ad Orano non fu scevra da pericoli; soprattutto riecheggia nel mio cuore e nelle mie orecchie il tonfo dei corpi dei miei amici gettati in mare, deceduti per incidenti o malattie.
Sbarcati ad Orano, iniziò per noi una triste Via Crucis, tra vari campi di concentramento fino ai confini col deserto, pressati da enormi privazioni e difficoltà.
Quanta fame, ma soprattutto quanta sete! Laudato si’, mi Signore, per sora acqua (S. Francesco). Tutto ciò nell’ansia dolorosa della lontananza dalle nostre famiglie, di cui, per più di due anni, non avremmo avuto notizie.
Dice Primo Levi (prigioniero dei Tedeschi):

Sognavamo nelle notti feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo.
Tornare, mangiare: raccontare.
E si spezzava in petto il cuore.

Anche se non si veniva uccisi o non si moriva di stenti, come capitava ai prigionieri dei tedeschi, era sempre una tortura quella nel campo di concentramento.
Ma in quelle immani difficoltà era pur sempre forte il legame di umanità che ci univa.
Ho detto, all’inizio, eravamo solidali nel dolore, e come potevamo non esserlo? Eravamo tanto amici, ma soprattutto compagni; la parola “compagno” è carica di immenso significato: deriva dal latino “cum pane”, significa realizzare l’amore, dividere un po’ d’acqua e un po’ di pane quando qualcuno fosse riuscito a procurarsene.
Il vero amore non è solo affettività, ma soprattutto effettività.
L’8 settembre 1943 eravamo imbarcati sulla nave “Santa Rosa”, diretti negli Stati Uniti. Ma, all’annunzio dell’armistizio, fummo fatti sbarcare: così riprese tristemente la solita processione tra i vari campi di prigionia del Nord Africa.
Sapete qual è stato il più lauto pranzo della mia vita? Tre filoncini di pane ottenuti da un algerino con lo scambio di un giubbotto logoro.
La situazione, tuttavia, dopo qualche tempo, lentamente andava migliorando.
Fummo adibiti, in un primo momento, alla fabbricazione di mattoni con paglia e fango (ricordate il film “Ben Hur”?), poi a lavori di supporto alle truppe inglesi e americane della MBS (Mediterranean Base Section) di Orano.

Padre Bernardo Zani (immagine tratta dal sito http://www.messaggerocappuccino.it/images/pdf/1986/05/CiniMC051986.pdf)

Durante la permanenza nell’ultimo campo del Nord-Africa ci fu di grande sollievo l’assistenza spirituale di un meraviglioso Padre Cappuccino Romagnolo di Perticara, Bernardo Zani, che è rimasto mio amico fino alla sua morte.
Nei primi mesi del 1944 fummo sottoposti ad un interrogatorio, in cui dovevamo scegliere tra la collaborazione con i Tedeschi e la Repubblica Sociale di Salò o con gli Alleati; la maggior parte di noi aderì a questa seconda ipotesi.
Incorporati nelle I.S.U. (Italian Service Units) restammo in Africa fino a metà ottobre 1944; quindi fummo trasferiti in Francia, nella zona di Marsiglia. Per un certo periodo di tempo, di notte, facemmo gli scaricatori nel più grande porto del Mediterraneo; poi fummo adibiti al funzionamento di una vasta base di rifornimento per le truppe alleate che combattevano sul fronte del Reno in Germania.
Ricordo ancora, con immensa commozione, il suono delle campane della Chiesa di un piccolo paese del Sud della Francia, Rognac, che annunziavano la fine della guerra in Europa: era l’8 maggio 1945.
Della situazione italiana e soprattutto di quella del nostro paese ignoravamo quasi tutto.
Poco dopo fummo trasferiti in Belgio, a Liegi; su una collina circostante lessi una memoria riconoscente dei soldati italiani che durante la I guerra mondiale avevano contribuito alla liberazione del Belgio, invaso dalle truppe tedesche.
Da Liegi fummo condotti in Francia, a Roubaix e, quindi, di nuovo in Belgio nella zona di Mons, Charleroi.
Verso la fine di ottobre fummo, finalmente, rimpatriati, attraverso il Lussemburgo, la Francia e la Svizzera.
Raggiungemmo Novara, poi Pescantina vicino a Verona, che era il centro di raccolta di tutti i prigionieri di guerra, provenienti dall’Est e dall’Ovest.
Oramai eravamo liberi; lasciati a noi stessi, attraverso varie peripezie, che non sto a ricordare, perché vi ho già troppo annoiati; riuscii a raggiungere Verona, Bologna e finalmente Castelbolognese.
Non avrei mai immaginato di trovare un paese così disastrato!
Poi, a piedi, con un sacco sulle spalle, contenente le mie poche povere cose, percorsi via Biancanigo, fino a quando, in vista della chiesa e del campanile di Tebano, imboccai la stradina che conduce alla chiusa, in fondo alla quale c’era mia madre coi miei fratelli: mio padre era morto durante la mia assenza. La casa non c’era più, tutt’intorno erano mine di ogni tipo.
Quel lungo, amoroso abbraccio materno mi ripagò delle tante sofferenze, nelle quali, praticamente, si era esaurita la mia giovinezza.
Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia. (Dalla Bibbia).
La prigionia era stata dura, ma mi aveva, mio malgrado, maturato; soprattutto aveva infuso nel mio animo un grande senso di umanità, d’accettazione, anche se difficile, del dolore, alleviato dall’abbandono alla misericordia di Dio.
Sottomessi, ad intervalli, a soldati stranieri di circa una decina di nazionalità, sentivamo profondamente l’ansia della libertà, la nostalgia dell’Italia e della sua bandiera. Un amore di Patria, il quale, oltre ad essere ideale, avrebbe dovuto realizzarsi in fratellanza e solidarietà, in dono di se stessi agli altri, soprattutto ai più poveri di ogni condizione, perché anche noi eravamo stati tanto poveri, tanto “cattivi”!

Canzone del Prigioniero

Lento il sole tramonta
ed indora il giorno che muore;
dentro ogni cuore si desta
un’ansia mesta d’amor.
Dalla prigione africana
si leva un canto che va
alla casetta lontana
dove ci aspetta papà.
Triste è la sera
che cala sulle tende, o prigioniero,
tu pensi a chi t’attende.
Ad una stella chiedi: stella, sai perché?
Quando imbrunisce
io nel cielo penso a te?
Lo sai perché?
Perch’io incontro
in quell’istante in te
l’amor di mamma
e della donna che
sopra una culla sta.
Prega il Signore
ed il papà ritornerà.

Sopra il mare vedremo
la prora amica arrivar
la pace e l’amore
devono nel mondo tornar.
Tiepido il bacio di mamma
il più bel premio sarà.
Patria, Famiglia una fiamma
che spegner mai si dovrà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *