Biografie di personaggi Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/biografie-personaggi/ Mon, 24 Mar 2025 17:07:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.1 Ricordando Dino Biffi: una pagina di storia del movimento cattolico a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/ricordando-dino-biffi-una-pagina-di-storia-del-movimento-cattolico-a-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/ricordando-dino-biffi-una-pagina-di-storia-del-movimento-cattolico-a-castel-bolognese/#respond Sun, 01 Dec 2024 22:28:08 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12079 (introduzione) Il 5 novembre 2024 è scomparso l’ex sindaco Reginaldo Dalpane, primo cittadino dal 1956 al 1964. Sembra giusto ravvivare il ricordo del suo predecessore, il cav. Dino Biffi, deceduto il 24 ottobre 1985 nel nostro (rimpianto) Ospedale Civile dopo breve degenza. La sua figura è ingiustamente dimenticata e sconosciuta …

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(introduzione) Il 5 novembre 2024 è scomparso l’ex sindaco Reginaldo Dalpane, primo cittadino dal 1956 al 1964. Sembra giusto ravvivare il ricordo del suo predecessore, il cav. Dino Biffi, deceduto il 24 ottobre 1985 nel nostro (rimpianto) Ospedale Civile dopo breve degenza. La sua figura è ingiustamente dimenticata e sconosciuta ai più. Nato a Castel Bolognese il 10 febbraio 1907 da antica famiglia castellana di tradizione cattolica, Dino Biffi fu giovanissimo presidente dell’Azione Cattolica locale negli anni difficili del fascismo, che non conquistò mai la sua adesione. Nel secondo dopoguerra, ritornato dalla prigionia in Germania, aderì alla Democrazia Cristiana e fu Sindaco della prima Amministrazione bianca di Castelbolognese dal 1951 al 1956. Fu anche giocatore, allenatore e presidente del glorioso Castel Bolognese Football Club. Ricordiamo Dino Biffi riproponendo, da Vita Castellana n. 5-6-7 del 1985, le testimonianze di chi lo conobbe da vicino e fu al suo fianco in lunghi anni di militanza politica. (A.S.)

ARTEFICE DELL’AZIONE CATTOLICA

di Angelo Donati

Aveva appena quattordici anni Dino Biffi quando entrò a militare nelle file dell’Azione Cattolica di Castelbolognese, di cui fu uno degli artefici. Anche a Castello nel 1920, per impulso della federazione giovanile diocesana stimolata dal can. Angelo Bughetti, la gioventù cattolica fondò il Circolo «Pierino Del Piano». Nardo Zannoni ne fu per troppo breve tempo esemplare presidente e al suo fianco Dino svolse le funzioni di segretario.
Non è facile far rivivere le tensioni e le battaglie di quei lontani anni ’20, quando la crisi scoppiata nel primo tormentato dopoguerra sfociò nella conquista fascista dello Stato e nel progressivo consolidamento della ventennale dittatura. Anche per i cattolici e per l’autonomia delle loro iniziative non furono quelli anni facili, soprattutto nella Romagna tradizionalmente anticlericale e spiccatamente predisposta all’esplodere della passione politica. I circoli di gioventù cattolica sorti in Romagna nel 1920-21 furono malvisti da tutte le parti politiche, che non risparmiarono derisione e ostilità nei loro confronti.
Gli ideali e le speranze che animavano la gioventù cattolica di allora e che la inducevano a tradurre con tanto entusiasmo nell’azione i principi fondamentali dell’insegnamento cristiano non trovano alcun riscontro nei programmi delle attuali generazioni oppure sono rivissuti in un contesto storico e sociale completamente diverso. Allora non veniva inteso come retorico il motto «Preghiera-Azione-Sacrificio» inciso, accanto allo scudetto azzurro, sulla seta bianca della bandiera del Circolo offerta dalla mamma di Dino, la signora Giannina Biffi, la quale nei primi anni di vita del «Del Piano» ospitava nella sua casa i soci del Circolo ancora senza sede. Dino Biffi contribuì con grande zelo a tutte le iniziative religiose, culturali e ricreative del Circolo. Esse riuscirono ad aggregare decine e decine di fanciulli e di giovani, che diedero incremento al movimento cattolico locale.
Dopo la morte prematura di Nardo Zannoni nel 1928, Dino Biffi ebbe affidata la presidenza stessa del «Del Piano», rivelandosi ancora un perfetto organizzatore. Ma responsabilità davvero ardue dovevano attenderlo per tutelare l’autonomia del suo movimento in uno scontro, talora diretto, con le autorità e con i sostenitori del fascismo locale. All’inizio degli anni ’30 scoppiò un contrasto tra la Chiesa e il regime a proposito dell’autonomia delle organizzazioni cattoliche giovanili. Il fascismo, sempre più spinto nella logica totalitaria, pretendeva che tutta la gioventù fosse inquadrata unicamente nel suo apparato organizzativo. Prima che il contrasto venisse appianato, anche il Circolo «Del Piano» di Castelbolognese venne proposto per lo scioglimento. In un rapporto dei carabinieri veniva segnalato che il presidente in più occasioni aveva detto ai soci che non dovevano iscriversi alle organizzazioni fasciste. Questo Dino Biffi lo aveva affermato in coerenza con le sue convinzioni, che non lo portarono mai ad aderire al fascismo. La propaganda del regime non riuscì ad attirarlo, a differenza di tanti altri, neppure nel momento trionfale della conquista dell’Etiopia, che Dino non mancò di criticare.
Ma come tanti altri egli doveva subire le conseguenze dell’avventura fascista, quando la seconda guerra lo costrinse a rimanere per lunghi anni lontano dalla famiglia e dalla patria. Chiamato alle armi nel 1943, dopo l’8 settembre venne fatto prigioniero ad Atene dai tedeschi e deportato in Germania. Fece dure esperienze in diversi campi di concentramento in situazioni davvero drammatiche, come quando scampò fortunosamente, anche se ferito, ad uno spaventoso bombardamento che lo colse ad Amburgo insieme con altri compagni condannati ai lavori forzati. Il calvario doveva concludersi alla fine del 1945. Aveva respinto in precedenza l’offerta, sia pure allettante, del rimpatrio, rifiutando coraggiosamente la condizione di aderire alla Repubblica di Salò.
Il primo dopoguerra aveva visto Dino giovanissimo militante e protagonista nelle file dell’Azione Cattolica. Il secondo dopoguerra lo sollecitava a riproporre il suo impegno nel movimento politico dei cattolici che si raccoglievano con entusiasmo e speranza attorno alla Democrazia Cristiana, appena venuta alla luce dalle rovine del fascismo e della guerra. Quando nel 1951 i democratici cristiani di Castelbolognese ebbero per la prima volta l’occasione di eleggere tra le loro file la guida dell’Amministrazione locale, Dino Biffi venne chiamato per le sue qualità di uomo saggio ed esperto a ricoprire la carica di Sindaco.
La perdita dell’amico Dino mi ha profondamente turbato, perché con lui ho passato gli anni più belli della mia attività religiosa e culturale nel mio paese. Spero tuttavia che questo ricordo contribuisca a sottrarre all’oblio una pagina importante della storia dei cattolici di Castelbolognese.

NEL CALCIO CASTELLANO

di Ubaldo Galli

Con Dino abbiamo passato gli anni più belli del calcio castellano, dal 1923 al 1926 quando il Castelbolognese faceva il campionato cosiddetto «romagnolo», che era composto dal Castello, dall’Imolese, dal Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Lugo e Ravenna, con risultati eccezionali, ai quali il mio amico Dino ha dato un contributo fuori dell’ordinario. Nella squadra era una sicurezza. Il gioco lo teneva spesso impegnato nel pomeriggio della domenica e dovevi così rinunciare a partecipare alla «Benedizione» nella chiesa parrocchiale, con grande disappunto della madre. A questo proposito mi recavo io stesso dalla signora Giannina a chiedere il permesso per Dino a nome di tutta la squadra e solo a me lo concedeva, pur brontolando.
In un campionato, di cui non ricordo l’annata, nel girone di ritorno la coppia dei terzini Biffi II – Galli subì due soli gol e questo per merito, lo posso ben dire, di Dino che in quel periodo dimostrò di essere uno dei più validi calciatori non solo del Castelbolognese, ma di tutto il calcio romagnolo. Giocatore leale, deciso, era per noi il prototipo del calcio locale. Al calcio castellano fu sempre molto affezionato, ricoprendone nel dopoguerra, per qualche tempo, la carica di Presidente.

DOPO LA BUFERA

di Domenico Gottarelli

Quasi sicuramente il mio primo incontro con Dino risale al 1939, quando poco più che adolescente, cominciai a frequentare il Circolo dell’Azione Cattolica di Castelbolognese.
Ricordo bene, però, le sue frasi secche e taglienti e i suoi giudizi scarni e ironici, che colpivano come frustate e che stroncavano in me, allora giovanissimo, la voglia di qualsiasi replica.
Era una persona che mi metteva in soggezione.
Venne la guerra e un giorno, richiamato, Dino partì.
Alle morti, ai massacri e alle distruzioni della guerra, si aggiunsero gli orrori, le sofferenze e le brutalità della guerra civile. Ben oltre la fine del conflitto, si continuò a vivere in un clima di violenza, al quale, impotenti, sembravano assuefarsi anche molti di animo sensibile e mite. Nell’autunno del 1945 Dino tornò dalla prigionia, più magro e lievemente zoppicante, ma il suo carattere non sembrava cambiato. Le sue battute erano sempre graffianti e io, anche se nel frattempo ero cresciuto, davanti a lui mi sentivo ancora in soggezione.
All’unanimità i componenti la sezione della Democrazia Cristiana di Castello, alla cui costituzione, nei giorni che seguirono la fine della guerra, in casa dell’amico Angelo Donati, avevo partecipato insieme ad altri coetanei, lo chiamarono alla segreteria.
Esordì, di fronte all’assemblea acclamante, con queste parole: “Noi non abbiamo nemici, ma solo avversari” e proseguì, con tono pacato e con un’oratoria scarna e priva di retorica, illustrando i principi fondamentali e irrinunciabili, cui doveva ispirarsi la nostra azione politica.
Per quei tempi, le sue erano parole di rottura e molto diverse da quelle che abitualmente era dato di ascoltare. Egli concepiva la politica come una civile competizione e in coerenza con la sua fede religiosa, affinata dalla lunga milizia nelle file dell’Azione Cattolica e dalle sofferenze della guerra e della prigionia, volle subito mettere in risalto che la libertà non era conciliabile con la violenza e che questa sarebbe stata sconfitta soltanto se gli italiani avessero compreso che era necessario saper perdonare, anziché insistere nel voler giudicare.
Man mano che le sue parole fluivano, sembravano diventare più calde e suadenti; cominciai a rendermi conto, e con me tanti altri amici, che le spigolosità del suo carattere erano più apparenti che reali, una scorza per coprire una pasta fatta di bontà e di rettitudine.
Non mi sentii più in soggezione e da allora lo considerai, come già lui mi considerava, un amico.

SINDACO NEGLI ANNI ’50

di Reginaldo Dal Pane

Don Biffi è stato il primo Sindaco democristiano di Castelbolognese, eletto in una lista di coalizione con repubblicani e socialdemocratici, uscita vittoriosa nelle elezioni amministrative del 27 maggio 1951.
In un periodo in cui le passioni politiche e le polemiche erano ben più spinte del momento attuale, seppe essere esempio di tolleranza e di moderazione. Sindaco veramente di tutti: quante polemiche anche in Consiglio Comunale smorzate con una battuta conciliante!
Assertore dell’impegno politico come servizio, rinunciò alla pur modesta indennità di carica che anche allora era ammessa per i sindaci, impegnandosi a conciliare l’attività amministrativa con il suo lavoro di dirigente cooperativo in quel movimento che, per opera soprattutto di Giovanni Bersani, era sorto e tuttora prospera nel Bolognese.
Fu sindaco della ricostruzione: case popolari, scuole da rifare o costruire ex novo come quella di Biancanigo, iniziative per dare occupazione a chi non l’aveva e per istituire i primi servizi essenziali alla nostra comunità. Chi scrive queste righe, suo successore nel 1956, trovò costruito il primo lotto delle fognature e approvato il progetto generale, pronto per l’appalto l’acquedotto, impostati i lavori di ricostruzione del Palazzo Mengoni, della Piazza Bernardi e altre opere minori che fecero di Castelbolognese un vero cantiere di opere pubbliche.
Successivamente fu presidente delle Opere Pie, continuando nell’opera di potenziamento dell’azienda agricola e di sistemazione delle case coloniche. Se oggi l’azienda è attiva e condotta con criteri tali da reggere il confronto con le migliori aziende private, si deve anche all’opera di amministratori come Dino Biffi, che consideravano sacro il bene pubblico.
Non era certo per la spesa facile, ma per quella oculata, redditizia, da amministratore che agisce nel pubblico col criterio del «buon padre di famiglia».
Quando si scriverà la storia di Castelbolognese del secondo dopoguerra, è certo che un posto di rilievo spetterà a questo democratico e cristiano, a Dino Biffi, il cui ricordo è per noi di esempio nell’impegno quotidiano.

UN PUNTO DI RIFERIMENTO

di Natalino Guerra

Per noi, usciti ventenni dalla guerra e dalla Resistenza, Dino Biffi era un punto sicuro di riferimento a Castelbolognese, come lo erano Zucchini a Faenza, Montanari a Lugo, Masoni a Russi, Cristofori a Solarolo, Brusa a Bagnacavallo, Castellucci, Massaroli e Zaccagnini a Ravenna. Noi potevamo contestarli e li contestammo per alcune idee e per alcuni indirizzi, veri o supposti, ma sempre e comunque erano naturalmente le nostre guide nel partito, nelle istituzioni e nel paese.
Dino Biffi era forse il più schivo di tutti. Mai un pretendere, sempre un sorridere, mai un chiedere, sempre un donare, mai un condannare, sempre un amare. Ovunque se stesso, nella famiglia e nella società, nella Chiesa e nelle opere parrocchiali, come imprenditore economico e come Sindaco di tutti.
Nel rosso dilagante ed egemonico in Romagna fu uno dei primi Sindaci «bianchi» in provincia di Ravenna: in punta di piedi entrò in Municipio, dopo cinque anni di ottima Amministrazione in punta di piedi ritornò nella sua casa, a lavorare, ad amare, a pregare. Nessuna ipoteca per il futuro, nessun rimpianto per il passato: la politica era sempre e solo servizio. Era forse un uomo di un’altra generazione.

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Addio sindaco contadino: Reginaldo Dal Pane ci ha lasciato https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/addio-sindaco-contadino-reginaldo-dalpane-ci-ha-lasciato/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/addio-sindaco-contadino-reginaldo-dalpane-ci-ha-lasciato/#respond Thu, 07 Nov 2024 17:43:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12043 di Paolo Grandi Lo aveva addirittura scritto nel titolo del suo ultimo libro, uscito nel settembre 2024 in occasione del suo novantanovesimo compleanno: non sono stanco di vivere. Ma dall’Alto, quell’aldilà cristiano nel quale lui ha sempre creduto, è arrivata la chiamata dopo un breve malattia che tuttavia non gli …

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di Paolo Grandi

Lo aveva addirittura scritto nel titolo del suo ultimo libro, uscito nel settembre 2024 in occasione del suo novantanovesimo compleanno: non sono stanco di vivere. Ma dall’Alto, quell’aldilà cristiano nel quale lui ha sempre creduto, è arrivata la chiamata dopo un breve malattia che tuttavia non gli aveva fatto perdere l’abituale lucidità, nel tardo pomeriggio del 5 novembre 2024.
Nato nella parrocchia di Formellino di Faenza in una famiglia contadina patriarcale che si spostava da un podere all’altro per trovare sempre migliori condizioni di vita e di lavoro, il piccolo Reginaldo, arrivò a due anni nella casa di via Farosi dove rimarrà fino alla morte, in una parte di quel podere, di proprietà dei conti Ginnasi che abitavano poco lontano, nel cosiddetto “Palazz d’Orsoni” che la famiglia aveva abbandonato oltre un decennio prima perché, così indiviso, era troppo grande per le forze lavoro di quel tempo. Il piccolo Reginaldo crebbe frequentando per i giochi una delle figlie dei Ginnasi e per la dottrina cristiana la parrocchia di Casalecchio. Il suo percorso di studi s’interruppe dopo la quinta elementare: la famiglia non aveva le possibilità economiche né lui stesso si era opposto, benché fosse stato uno scolaro esemplare e molto diligente, perché gli premeva lavorare per non pesare sulla famiglia. Da autodidatta formò la propria cultura leggendo i classici ed avendo libero accesso alla biblioteca dei Ginnasi. Una cosa, tuttavia, Reginaldo non accettava: sentire i suoi chiamare i conti “signor padrone”; certo, ragionava, erano padroni della terra, ma non i padroni delle persone; gli seccava quando sentiva il nonno, capofamiglia, uomo anziano, dare del lei alla figlia del conte Carlo, che era una ragazzina poco più grande di lui, la quale a sua volta gli dava del tu. E così egli rifletteva sul fatto che in India vi erano le caste, abolite per legge, ma di fatto ancora in vigore. Ma non c’erano caste anche qui?
Fu proprio la ricerca di questo senso di giustizia a spingere nel dopoguerra Reginaldo in politica, che fu dapprima attratto dalla sinistra per un profondo senso di giustizia che sentiva in sé e per il desiderio di aiutare la povera gente; “ero forse uno dei pochi che leggeva l’Unità nella casa del popolo, ma non mi piaceva l’esaltazione dell’Unione Sovietica e di Stalin e sapevo che non poteva esistere la dittatura del proletariato.” Così Reginaldo ricorda.
Una sera fu invitato a un incontro che si tenne presso il cortile della chiesa arcipretale di Castel Bolognese. C’era a parlare un giovane bolognese, che poi sarebbe di­ventato deputato e della cui amicizia fu onorato per tutta la vita: era Giovanni Bersani. Quell’incontro fu per lui illuminante e così cominciò a leggere e a studiare alcuni libri sulla dottrina sociale della Chiesa, soprattutto l’enciclica di Leone XIII, Rerum novarum. Era il 1947, vigilia delle elezioni politiche che si tennero nella primavera successiva. L’impegno della Chiesa fu immane: in ogni parrocchia vi era una persona che si impegnava a convogliare i voti verso la Democrazia Cristiana e Reginaldo fu il “collettore” di Casalecchio. Nel 1948 l’iscrizione alla Democrazia Cristiana e poco dopo la sua elezione nel Consiglio Provinciale del partito e contemporaneamente nacque il suo impegno nel sindacato CISL e nelle ACLI. Per Reginaldo il politico era l’uomo che intende spendersi per il bene comune, per il bene-benessere della gente e non per un tornaconto, ma per l’intima convinzione di dover mettere a frutto il proprio talento per migliorare le condizioni di vita della gente, liberamente e gratuitamente, tanto che per tutta la vita Reginaldo ha vissuto del lavoro dei campi, alla ricerca della giustizia sociale da coniugare con la libertà ed avendo come stella polare la parabola dei talenti.
Nel 1956 fu eletto in Consiglio Comunale ed a sua volta votato quale Sindaco dalla maggioranza, carica che mantenne fino al 1964. Questa esperienza è stata descritta nel suo libro “Il sindaco contadino”, ma in breve può così riassumersi: lotta alla disoccupazione attraverso l’esecuzione di una serie di lavori pubblici: Acquedotto, con la costruzione della torre piezometrica, lavatoio pubblico, fognature, case popolari, restauro e riapertura dell’ospedale ma, soprattutto, la dichiarazione di Castel Bolognese come “comune depresso”, cosa che gli attirò le ire delle sinistra all’opposizione ma che costituì la base per attirare investimenti e creare la zona industriale che, sviluppatasi poi nei decenni successivi, oggi è un fiore all’occhiello della nostra città che molti ci invidiano. Si provvide, tramite la costruzione delle case popolari, ad abbattere gradualmente le baracche che ospitavano i senzatetto della guerra; arrivò il metano e si impostò l’acquisto del terreno ove poi sarebbero sorte la nuova scuola media e l’asilo nido, prevedendo l’abbattimento della casa di Pagnòca. Ricordo che, assieme a mio padre che lui stimava molto, partiva per Roma per appuntamenti nei Ministeri: un viaggio defatigante che iniziava poco prima delle 23 salendo sull’ultimo treno per Ancona e da là con un “accelerato” che partiva verso le 4 ed arrivava a Roma alle 7 e mezzo della mattina, col solo biglietto di seconda classe ed a proprie spese. Dopo le visite ed un frugale pasto, il viaggio di ritorno che iniziava nel pomeriggio e terminava alle 10.30 della sera. Si passava da Ancona perché allora la tariffa ferroviaria era chilometrica e l’itinerario più breve ed economico era via Orte e Ancona, naturalmente in seconda classe!
Dopo un breve incarico di Consigliere nel Consiglio Provinciale, Reginaldo optò per il Sindacato. Come frequentatore della sede della Democrazia Cristiana e collaboratore di quel partito fino al suo scioglimento lo ricordo quale “vecchio saggio” (vecchio perché ero giovane io!): alle riunioni, anche le più animate, ove comunque lui non alzava mai la voce, era un piacere ascoltarlo nel suggerire le soluzioni ai problemi o le proposte da vagliare e discutere magari dopo un confronto in Consiglio Comunale.
Certamente, Reginaldo era conscio che la sua era una generazione tutta particolare, che ha conosciuto una accelerazione a livello tecnologico quale mai era accaduto. Dall’aratura coi buoi ancora praticata nel dopoguerra allo sbarco sulla luna, per tacer dei computer, internet ecc.. La sua è stata una generazione che ha conosciuto la povertà, condizioni di vita oggi difficilmente immaginabili nei nostri territori, che è cresciuta sotto il fascismo e ha sperimentato gli orrori e le devastazioni della guerra.
Voglio concludere con le ultime parole del suo libro “Non dipende da me arrivare a cento anni, ma anche se non ci vedo e non ci sento bene, non mi sono stancato di vivere.” E se si pensa che tra gli ultimi atti del suo peregrinare terreno v’è stata la Confessione e la Comunione, prima di morire dopo pochi minuti, il suo esempio di vita e di Cristiano ci illumini, pensando che il 5 novembre 2024, nel tardo tramonto, un Giusto è salito nel Regno dei Cieli a dar gloria a Dio.

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Ricordo di Don Sante Orsani, parroco della Costa e Priore di Valsenio https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-don-sante-orsani-parroco-della-costa-e-priore-di-valsenio/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-don-sante-orsani-parroco-della-costa-e-priore-di-valsenio/#respond Sat, 03 Aug 2024 10:39:57 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11820 di Paolo Grandi Da oltre cinquant’anni don Sante e la parrocchia della Costa erano una cosa sola: lui ne era guida spirituale, tuttofare e motore di tante iniziative ove sapeva coinvolgere anche molti parrocchiani. Era arrivato lassù nel 1962 come cappellano, poi subentrò come Arciprete e da quella chiesa, che …

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di Paolo Grandi

Da oltre cinquant’anni don Sante e la parrocchia della Costa erano una cosa sola: lui ne era guida spirituale, tuttofare e motore di tante iniziative ove sapeva coinvolgere anche molti parrocchiani. Era arrivato lassù nel 1962 come cappellano, poi subentrò come Arciprete e da quella chiesa, che domina la strada Casolana non s’è più mosso. Nato da una famiglia contadina a Riolo Terme nel 1933, avrebbe compiuto 91 anni il prossimo 24 settembre; frequentò il Seminario di Imola dove suo Prefetto fu don Serafino Donattini, zio di mia moglie purtroppo tragicamente scomparso nel 1956, e venne ordinato Sacerdote dal vescovo Carrara nel 1959.
Alla morte dell’ultimo parroco residente di Valsenio aveva di buon grado accettato l’incarico di amministratore parrocchiale ed in questa veste promosse, curò ed inaugurò i restauri di quella bella Abbazia durati alcuni anni e che ci hanno restituito quell’edificio in tutto il suo splendore arricchendone la storia grazie ai preziosi ritrovamenti scoperti durante i lavori.
Ma anche la piccola e bella chiesa della Costa di Borgo Rivola era stata a suo tempo oggetto di profondi restauri che don Sante aveva promosso: entrando in chiesa si notavano subito l’ordine, la cura degli altari, la pulizia e magari si veniva accolti dal bel suono dell’organo, pure questo da lui restaurato, molte volte suonato da don Sante stesso! Che poi il titolo di “don” non sarebbe stato neppure da usare nei suoi confronti al quale sarebbe occorso dare il titolo di “Reverendo Monsignore”: infatti per disposizione papale risalente ai secoli passati l’Arciprete della Costa gode del titolo e delle onoreficenze di “Protonotario Apostolico” soprannumerario, una carica di cui si sente poco parlare al di fuori di Roma in quanto sono solo 14 i soprannumerari extra Urbem. E proprio con la veste canonica di Protonotario lo abbiamo visto il 24 settembre scorso in occasione della grande festa data dai Parrocchiani per i suoi “primi” novant’anni!
Dotato di sottile ironia, protagonista di scherzi già all’epoca del Seminario, don Sante scherzava spesso sulla sua età e in chiesa ti portava verso una piccola edicola, dove si trova una targa con l’elenco di tutti i parroci di Borgo Rivola. L’ultima riga riporta il nome don Sante Orsani e la data del 1968; e qui diceva sorridendo: «voglio farci incidere un simbolo dell’infinito». E se sempre lui sarà in infinito il Parroco della Costa nel ricordo dei tanti Parrocchiani e fedeli da Lui incontrati, qualcuno accanto a quella data scriverà 29 luglio 2024.
Un legame particolare vincolava don Sante a Castel Bolognese: qui infatti vivono un fratello, agricoltore a Casalecchio ed una sorella, vedova di Gian Andrea Dal Pane, oltre a tanti nipoti e pronipoti. Spesso quindi lo incontravi in piazza o sotto i portici oppure davanti all’Altare ove era venuto per celebrare una qualche Messa. Ma di tanti era anche guida spirituale, fra costoro si ricorda Novella Scardovi, testimone di accoglienza e carità.
Il suo carattere, ove scaturiva una nota di leggerezza che è sempre servita per incoraggiare le persone al suo fianco e che spesso si confondeva con l’amenità, si scuriva con severità se il protagonista del dialogo era il Demonio. Don Sante infatti aveva praticato esorcismi e, si dice da parte di testimoni, avesse addirittura in un cassetto la fotografia del Diavolo.
Amante delle arti ed in particolare della musica, era un discreto suonatore di organo ed a volte ha accompagnato la corale di San Petronio in alcune solennità, specie per Pentecoste. Proprio per questo motivo aveva trasformato l’abbazia di Valsenio in un caposaldo degli appuntamenti musicali in vallata. Un’altra occasione che mi piace ricordare sono le serate del concorso canoro “Ri…cantare a Riolo” organizzato per tanti anni dall’infaticabile Giuliana Montalti e del quale noi due componevamo parte della Giuria, lui quale Presidente. Ma accanto a questi non mancavano altre iniziative culturali, di preghiera e di aggregazione che hanno contribuito a tenere viva e unita le sue comunità e i suoi parrocchiani.
Ma don Sante amava pure la natura e le montagne e fu tra I primi a portare lo Scoutismo di ispirazione Cristiana nella nostra Vallata.
Al suo funerale, celebrato il 1 agosto dal vescovo di Imola con l’assistenza di tanti Sacerdoti e al Rosario recitato la sera precedente hanno partecipato tantissime persone che non si è riuscito a contenere in Chiesa. Anche il canto, il “bel canto” che lui gradiva, ha accompagnato le funzioni dando loro la dovuta solennità.
Nel ricordino consegnato si legge: “Il Signore lo accolga fra le sue braccia! Il suo esempio e il suo ricordo rimangano impressi nel nostro cuore! Grazie don Sante!

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L’infanzia castellana dello storico e avvocato Emilio Papa https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/linfanzia-castellana-dello-storico-e-avvocato-emilio-papa/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/linfanzia-castellana-dello-storico-e-avvocato-emilio-papa/#comments Sat, 22 Jun 2024 17:15:03 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11744 di Andrea Soglia Il 2 maggio 2022 è morto a Torino, sua città di adozione, lo storico e avvocato Emilio Papa. Come ci rammenta Wikipedia “ha insegnato nelle Università di Bologna, di Bergamo e di Torino, nella quale ha esordito quale assistente di Alessandro Galante Garrone e ha poi tenuto, …

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di Andrea Soglia

Una rara immagine di Emilio Papa (dal Corriere della Sera del 3 maggio 2022)

Il 2 maggio 2022 è morto a Torino, sua città di adozione, lo storico e avvocato Emilio Papa. Come ci rammenta Wikipedia “ha insegnato nelle Università di Bologna, di Bergamo e di Torino, nella quale ha esordito quale assistente di Alessandro Galante Garrone e ha poi tenuto, per oltre vent’anni, un corso di Storia dei partiti e dei movimenti politici. Come docente di Storia contemporanea, ha rivolto i suoi interessi soprattutto alla storia delle istituzioni, ma si è interessato anche di fascismo, di storia del movimento operaio e socialista, di storia della magistratura italiana. Autore di una ventina di volumi (molti ristampati più volte) e di centinaia di saggi pubblicati in riviste, si è anche dedicato alla “storia generale” con una Storia della Svizzera e una Storia dell’unificazione europea. Di rilievo anche la sua attività come giornalista (fu tra l’altro consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti e presidente, per tredici anni, della Commissione ricorsi e disciplinare dell’Albo nazionale dei giornalisti) e avvocato (fu difensore di ufficio, benché rifiutato dai brigatisti, nel processo alle Brigate Rosse celebratosi a Torino dal 1976 al 1978 e difensore civico della Città di Torino dal 2004 al 2010)”
Emilio Papa era nato a Imola il 25 dicembre 1931, ma aveva trascorso l’infanzia a Castel Bolognese. Emilio era figlio di una castellana doc, Giovanna (detta Gianna) Zaccherini e di Luigi Papa, originario di Carinola (Caserta), maresciallo dei carabinieri ad Imola. Giovanna era figlia di Emilio Zaccherini (storico mediatore di vini della famiglia dei Macapac) e di Maria Bagnaresi.
Emilio Zaccherini possedeva una bella casa in via (allora viale) Marconi e lì Emilio Papa, con la sorella Loriana, crebbe, stringendo solide amicizie con i ragazzini della zona due dei quali, tuttora viventi, ricordano con affetto e con orgoglio il loro amico d’infanzia poi divenuto un personaggio importante nel mondo accademico.
Ci riferiamo a Tonino Bellosi (oggi residente a Ravenna) e Valentino Donati, che è ben conosciuto dai castellani. Tonino e Valentino non dimenticano quegli anni felici, trascorsi a giocare nel Prato della Filippina, in quello dei Cappuccini e nella zona di via Marconi, in particolare nello stabilimento stracci di Antonio Diversi (e Dintò), nonno di Tonino. Della combriccola facevano parte, fra gli altri, Gianni Tosi (prematuramente scomparso, cugino di Emilio), Thelmo Magnani, Leone Musiani, Goffredo Costa (detto Pera Vuipèna), Sandro Martelli ed ovviamente Emilio Papa, oltre a Tonino e a Valentino. Particolarmente stretta fu l’amicizia fra Tonino ed Emilio, praticamente “gemelli”, essendo nati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Tonino e Gianni Tosi non mancarono di assistere alla laurea di Emilio, anche se oramai si era trasferito lontano da Castello.
Loriana Papa ricorda ancora nitidamente gli anni della guerra, dal 1943 al 1945, trascorsi a Castel Bolognese. Emilio in quel periodo frequentò, con Tonino, la Scuola media, istituita provvisoriamente in paese (dove era attiva solo la Scuola di Avviamento) per evitare che i ragazzi si dovessero recare nella vicina Faenza.
Nel periodo di sosta del Fronte i Papa si rifugiarono anche loro nelle cantine, trovando riparo in quella della proprietà di Felice Borghi, sulla via Emilia interna. Il 24 gennaio del 1945 una granata penetrò nella cantina Borghi, uccidendo ben 7 persone, fra cui 5 componenti della famiglia Fenara, sfollata da Bologna. Alla famiglia Papa, rimasta senza un sicuro alloggio, non rimase che trasferirsi a Bologna.
Loriana ed Emilio rimasero sempre legati a Castel Bolognese e agli amici d’infanzia. Tonino Bellosi rammenta che Emilio Papa si considerava un Castellano e amava parlare in dialetto romagnolo con Tonino durante i loro incontri, suscitando gli affettuosi rimbrotti della moglie Maria che non riusciva a capire una parola. Quando, di tanto in tanto, Emilio ritornava in Emilia-Romagna, non perdeva troppo tempo in soste intermedie. Se alle 12 il suo treno arrivava a Bologna proveniente da Torino, alle 14 con Loriana era già a Castello. Aveva anche pensato di trasferirvisi, una volta raggiunta la “pensione”, e di acquistare la casa che era appartenuta al nonno Emilio, salvo poi rimanere a Torino con la moglie Maria e i figli Stefano e Leonardo: il suo Castello, oramai, era troppo cambiato. La casa Zaccherini oggi non esiste più, demolita per lasciare spazio a nuovi edifici residenziali.
Ringraziando Loriana Papa, Tonino Bellosi e Valentino Donati per le testimonianze, alleghiamo a questo profilo “castellano” un bel ricordo, pubblicato sul Corriere della Sera del 3 maggio 2022 da Pier Franco Quaglieni, amico di Emilio Papa.

Torino ha perso Emilio Papa. Studiava la storia difendeva il diritto.
Studioso, storico e difensore d’ufficio delle Br

di Pier Franco Quaglieni

E’ mancato Emilio Papa. La sua morte è per me l’interruzione di una lunga amicizia nata quand’ero suo allievo all’università di Torino e mi chiamò successivamente ad essere suo assistente a «Storia dei partiti», cattedra che tenne per circa vent’anni prima di passare ad insegnare Storia contemporanea.
Furono suoi allievi centinaia di giovani che faranno scelte politiche distanti tra loro come lo storico Oliva, il leader comunista Rizzo e il cattolico Leo, tanto per citare tre nomi: il segno dello spirito liberale del suo magistero, sempre ispirato ai valori della tolleranza, in anni di esasperato ideologismo e di violenze non solo verbali.
È morto a poco più di novant’anni, splendidamente portati, a causa di una banale caduta per strada e ad un intervento chirurgico.
L’ho frequentato per tanti anni, ma oggi voglio solo ricordare il rigore e l’indipendenza dello studioso, la bontà d’animo dell’uomo, il suo entusiasmo, velato da un certo realismo ironico, nel vivere la vita, il suo straordinario e affiatato matrimonio con Maria – da cui ebbe due figli anch’essi avvocati – che è stata la straordinaria donna della sua vita, il suo coraggio nell’accettare di essere tra i difensori d’ufficio delle Br, rischiando la vita.
Sono migliaia le telefonate e le mail che ci siamo scambiati anche nei giorni in cui venne ricoverato in ospedale. Ci sentivamo spesso ed ascoltare una sua opinione per me era sempre molto importante. Ci legava anche la comune amicizia con Norberto Bobbio.
La sua opera parla crocianamente per lui, a partire da un libro che è diventato un classico e che resta ancora oggi insuperato: «Storia di due manifesti», quello fascista di Gentile e quello antifascista di Croce del 1925, un’opera scritta con l’equilibrio dei grandi storici che avevano appreso da Chabod il distacco critico necessario, trattando dei temi più arroventati.
Si dedicò poi allo studio delle società operaie, di un tema complesso come i rapporti tra Fascismo e cultura ed anche delle Brigate Rosse, con il distacco dello storico e non con i pregiudizi di una potenziale vittima del terrorismo.
Di sicura importanza è la sua «Storia della Svizzera» e la sua opera sul federalismo, come appaiono significativi i suoi studi su Carlo Rosselli e sul fascista critico Giuseppe Bottai. Il saggio «Cos’è’ la democrazia», edito nel 2014, rappresenta un’acuta e non rassegnata disamina delle pecche della democrazia, ma anche una sua vigorosa difesa, in anni in cui il populismo e il sovranismo incominciavano a tentare di corrodere le libere istituzioni repubblicane.
Il suo interesse si rivolse anche ai temi dell’unificazione europea di cui aveva intravisto lucidamente tutte le fragilità.
Torino gli deve molto. Si prestò anche ad esercitare il mandato di Difensore civico, una carica oggi abolita. Più volte mi raccontò della sua delusione per quell’esperienza a tutela del «buongoverno», come mi disse citando Einaudi, il Presidente che ricordammo insieme a Dogliani davanti alla sua tomba.

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Gianni Gaddoni, l’ultimo orologiaio https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/vecchi-castellani/gianni-gaddoni-lultimo-orologiaio/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/vecchi-castellani/gianni-gaddoni-lultimo-orologiaio/#respond Wed, 05 Jun 2024 16:08:52 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11709 di Paolo Grandi Ci ha lasciati domenica scorsa 2 giugno 2024, dopo breve malattia Giovanni Gaddoni, conosciuto da tutti come Gianni. Era nato nel 1944 ed in ottobre avrebbe compiuto ottant’anni; la sua famiglia, di solida fede cattolica, era di Biancanigo ed abitava in Strada Rossi nelle ultime case addossate …

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di Paolo Grandi

Ci ha lasciati domenica scorsa 2 giugno 2024, dopo breve malattia Giovanni Gaddoni, conosciuto da tutti come Gianni. Era nato nel 1944 ed in ottobre avrebbe compiuto ottant’anni; la sua famiglia, di solida fede cattolica, era di Biancanigo ed abitava in Strada Rossi nelle ultime case addossate all’argine del Senio.
Il fratello Gino, maestro, ha insegnato per anni a generazioni di castellani nelle nostre scuole elementari. Gianni invece aveva seguito una strada diversa, seguendo un corso professionale per la riparazione di orologi e sveglie per poi affinarsi presso un orologiaio di Imola e finalmente aprendo la propria attività a Castel Bolognese nel 1966 in Piazza Fanti.
Il suo negozio conobbe un enorme successo, anche perché la riparazione venne affiancata dalla vendita di orologi, sveglie, oggetti d’oro e d’argento ed anche premiazioni sportive. Conservo dentro una pendola, tuttora funzionante, acquistata presso di lui da mio padre, la garanzia datata 1970!
Nel 1970 il matrimonio a Riolo con l’amata Annalena, l’amore di una vita che gli è rimasta sempre a fianco anche nei momenti difficili e dalla quale ha avuto due figli.
Per oltre vent’anni Gianni ha sollevato quotidianamente la serranda della sua attività, poi preferì per un breve periodo tornare a lavorare presso terzi in attesa di riaprire il proprio esercizio, cosa che avvenne nel 1996, non più in Piazza Fanti ma sotto i portici della via Emilia tra la casa di Angelo Biancini e la Farmacia Ghiselli.
Gianni ha sempre amato il suo lavoro ed ha saputo precorrere i tempi aggiornandosi ed adeguandosi all’elettronica applicata agli orologi anche se il suo oggetto preferito da riparare erano le vecchie pendole a molla. Nonostante fosse giunto all’età della pensione non aveva voluto lasciare l’attività ed ha continuato, nonostante il COVID, fino allo scorso anno, quando apparve sulla vetrina il cartello “prossima chiusura”. Ma neppure l’alluvione, che ha pesantemente coinvolto il suo negozio ed il laboratorio, lo ha fermato.
E così il cartello è rimasto lì soppiantato solo da quello, posto sulla saracinesca dalla famiglia “chiuso per lutto”. Di recente, non più di dieci giorni fa mi ero recato da lui per un problema ad un orologio, prontamente risolto, e tra le varie chiacchiere si era parlato di una probabile chiusura definitiva al prossimo fine mese di giugno, alla quale, tuttavia, nonostante l’età, neppure lui credeva perché troppo attaccato al suo lavoro che neppure si fermava il giovedì pomeriggio, giorno di chiusura, quando Gianni si recava in treno a Bologna dai fornitori alla ricerca di pezzi di ricambio. Spesso capitava incontrarci in stazione, io in discesa dal treno provenendo da Rimini, lui in salita per Bologna, sempre lasciandoci con un cordiale saluto.
Dopo la cremazione, le sue ceneri riposeranno nella “sua” Biancanigo, nella stessa tomba della madre.

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Ricordo di suor Lidia Zanchetta (1926-2018) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-lidia-zanchetta-1926-2018/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-lidia-zanchetta-1926-2018/#respond Fri, 26 Apr 2024 15:06:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11618 Suor Lidia ha raggiunto i cori angelici di Paolo Grandi (testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 7 luglio 2018) Suor Maria Lidia Zanchetta, monaca domenicana del Monastero della Santissima Trinità, ci ha lasciato per rivestire l’abito di sposa di Cristo il 27 giugno 2018 alla bella età …

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Suor Lidia ha raggiunto i cori angelici

di Paolo Grandi
(testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 7 luglio 2018)

Suor Maria Lidia Zanchetta, monaca domenicana del Monastero della Santissima Trinità, ci ha lasciato per rivestire l’abito di sposa di Cristo il 27 giugno 2018 alla bella età di 92 anni da poco compiuti, il 22 maggio 2018, di cui 74 passati dentro le mura del nostro Monastero.
Era giunta dalla natia Castione di Loria nel 1944 alla vigilia della tragica sosta del fronte sul Senio e così fu costretta, assieme alle altre novizie, a riparare a Bagnara di Romagna fino alla fine del conflitto per poi riunirsi nell’amato Monastero alle consorelle.
Dotata di una bella voce di soprano leggero, aveva col canto annunciato la sua volontà di voler vivere in Monastero in una maniera alquanto originale, come ha raccontato nell’elogio funebre suo nipote, il domenicano padre Giacomo Milani. Una sera raccolse ragazze e “filarini” del paese sfidandoli in una gara di canto: lei fu la più brava e nel ringraziare annunciò cantando: domani vado in Monastero.
Quella bella voce non l’ha mai abbandonata fino alla malattia che l’ha costretta a letto per più di due anni. Tra i servizi svolti in Monastero c’era proprio quello di maestra del canto: canti che oramai non risuonano più tra quelle mura, forse troppo frettolosamente archiviati come “vecchi”; canti che ho ascoltato sempre uguali ma ogni volta diversi dalla sua voce e dall’organo suonato dalle mani di Suor Serafina, fin da bambino e che mi hanno accompagnato per decenni con le loro melodie antiche ma pur sempre gioiose e composte. Suor Lidia era talmente presa dal canto da seguire le note, libro in mano, con le movenze del corpo e del capo in un unicum inscindibile. Così come cantano gli uccellini, muovendo la piccola testina, così si muoveva suor Lidia tanto da guadagnarsi l’epiteto, da lei ben gradito, di Usignolo del Signore. Da lei ho imparato le melodie per i salmi, il preconio pasquale, il canto dei vespri e tanti canti che tuttora eseguo o conservo tra i miei ricordi.
Poi per tanto tempo suor Lidia ha avuto l’incarico di sacrestana e, come dice il vangelo: “lo zelo per la tua casa mi divora”. Pretendeva una liturgia corretta e precisa e proprio per questo, nelle occasioni principali in Monastero, come il Triduo Pasquale, San Domenico, la Santissima Trinità, voleva che noi chierichetti arrivassimo almeno mezz’ora prima, ci ritirassimo con lei nel parlatorio della Sacrestia e lì, messale alla mano, vi si leggevano e ci spiegava tutti i momenti più salienti della liturgia del giorno distribuendo compiti e mansioni. Il premio erano gli zuccherini e il vermut (annacquato!) a fine funzione.
Oltre poi al delicato compito di Maestra della Novizie, colei che scruta la vera vocazione delle postulanti, suor Lidia si era aperta anche alla collaborazione con la Parrocchia e generazioni di ragazze e ragazzi di San Petronio sono stati preparati da lei per ricevere la Prima Comunione.
Da oggi l’Usignolo del Signore, che ne ha cantato le lodi su questa terra per ben 92 anni, tacerà qui per sempre; è volato, desideroso dell’alito d’eternità, a cantare le stesse lodi, i medesimi canti, con le medesime movenze davanti a Dio nel grande, immenso Coro degli Angeli.

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Ricordo di suor Serafina Brazzalotto (1925-2024) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-serafina-brazzalotto-1925-2024/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-serafina-brazzalotto-1925-2024/#comments Thu, 11 Apr 2024 16:14:46 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11606 SUOR SERAFINA BRAZZALOTTO CI HA LASCIATI Era la decana delle Domenicane di Castel Bolognese di Paolo Grandi (testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 4 aprile 2024) È stata una Pasqua di Risurrezione anche per Suor Serafina Brazzalotto che dalla notte fra il 31 marzo ed il 1 …

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SUOR SERAFINA BRAZZALOTTO CI HA LASCIATI
Era la decana delle Domenicane di Castel Bolognese

di Paolo Grandi
(testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 4 aprile 2024)

È stata una Pasqua di Risurrezione anche per Suor Serafina Brazzalotto che dalla notte fra il 31 marzo ed il 1 aprile 2024 ci ha lasciato per partecipare alla gloria del suo Signore che ha pregato nel Monastero delle Domenicane di Castel Bolognese per quasi 82 anni.
L’avevo incontrata l’ultima volta assieme a mia moglie per lo scambio degli auguri di Natale e ci era apparsa ancora in buona forma, lucida e cordiale come sempre. Ed effettivamente era da un mese che aveva rinunciato a scendere in coro con le consorelle, anche la mattina per le Lodi, vinta dagli acciacchi della vecchiaia. Una monaca da primato, giunta quasi a 99 anni (li avrebbe compiuti a giugno) dei quali 81 e mezzo circa passati qui in questo amato Monastero. . Era arrivata a Castel Bolognese nell’ottobre del 1942 da Castione di Loria nel trevigiano e faceva parte di quell’affollato gruppo di monache giunte dal Veneto in quegli anni. All’interno del Monastero ha lavorato e svolto numerosi incarichi. Ha svolto il lavoro di magliaia anche perché si ricordava come operare con quelle macchine che erano molto simili a quella con la quale si era dedicata a quel lavoro con sua sorella, poi ha lavorato di cucito e, come altre consorelle, ebbe il privilegio di appuntare una stella dorata sul nuovo manto della Patrona di Castel Bolognese. Ha svolto l’incarico di maestra delle Novizie per tanti anni; ha accompagnato col suono dell’organo il canto delle Monache e dei fedeli per altrettanti anni, è stata Priora per nove anni.
E qui voglio lasciarmi trasportare dal ricordo di quando, fin da bambino, assieme alla zia Virginia frequentavo il Monastero, con suor Serafina all’organo e suor Lidia al canto che costituivano una coppia inscindibile per dar lode al Signore. Crescendo, sempre loro sono state le mie maestre del salmodiare e di tanti canti liturgici e sacri che di sicuro non si sentono più ma che tuttora porto nel cuore.
Tempo fa suor Serafina mi aveva offerto la sua testimonianza su don Garavini, benemerito sacerdote castellano, lei ultima monaca vivente ad averlo conosciuto e così lo ricordava fraternamente: “Con noi a volte era scontroso, irascibile, ma ciò nonostante lui ci ha sempre voluto bene ed ha sempre condiviso le nostre gioie e le nostre sofferenze; ci diceva: “Io vi sgrido sempre, vi strapazzo, ma vi voglio bene” e ci difendeva ovunque “Guai a chi dice male di voi!”.
Oggi, di fronte alla sua dipartita, resta quella risposta datami alla domanda un po’ forse scontata ma doverosa fattale per gli 80 anni di professione religiosa: “Ma in questo tempo mai un ripensamento sul bilancio della sua vita?” e la risposta, granitica, è stata “No, mai”. La sua fedeltà è senz’altro già stata premiata nell’Empireo del Paradiso e la voglio da ultimo ricordare con quell’immagine che ci ha lasciato nel documentario “Le custodi della Fede” dove la si vede camminare nel giardino, breviario in mano, accarezzata dal vento con la musica angelica del Canone di Pachelbel e immaginare in quel vento il soffio divino che l’ha condotta la notte scorsa direttamente dal suo Sposo e Signore.
Il funerale si è tenuto mercoledì 3 aprile 2024 alle 15 nella chiesa delle Monache Domenicane.

SUOR SERAFINA BRAZZALOTTO:
DA OTTANT’ANNI NEL MONASTERO DOMENICANO DI CASTEL BOLOGNESE
Il prossimo 15 ottobre compirà 80 anni di vita claustrale

di Paolo Grandi
(testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 13 ottobre 2022)

Ha battuto tutti i traguardi raggiunti dalla compianta regina Elisabetta II; eppure non si tratta né di un Capo di Stato, né di una Nobile di sangue blu, ma di una piccola monaca domenicana del Monastero di Castel Bolognese: è suor Serafina (al secolo Imelda Brazzalotto), ha 97 anni e vive in questa comunità claustrale da ottant’anni. L’occasione era ghiotta per porgerle qualche domanda per due motivi: lei è una delle, ancora, poche testimoni del vecchio Castello prima delle distruzioni belliche; inoltre, assieme a suor Lidia, ora scomparsa, erano l’asse portante della musica nel Monastero: suor Serafina suonava e suor Lidia cantava con la sua voce armoniosa ed assieme sono state le mie maestre di canto salmodico. Con l’aiuto delle consorelle ed il benestare della Priora qualche giorno fa l’ho incontrata ancora ben in forma fisicamente, lucidissima e, vista la presenza del fotografo, l’amico Francesco Minarini, la sua prima attenzione è stata: “Ma è pari il velo? Non è storto vero perché altrimenti vengo male in fotografia”!
“Io vivevo a Castion di Loria, in provincia di Treviso, vicino a Castelfranco Veneto; i miei genitori erano contadini ma comunque gestivano un piccolo emporio in paese. La nostra casa era molto umida e forse per questo io ero arrivata sestogenita dopo cinque fratellini tutti morti in tenerissima età. Di fatto ero quindi la primogenita, ma la mia mamma, durante un sogno, aveva capito che io non ero stata generata per stare nel mondo. Dopo di me seguirono altre tre sorelle ed un fratellino. La mia sorella più prossima lavorava con la macchina per la maglieria ed aveva seguito un corso apposito a Treviso; così anche io oltre a dare una mano in bottega, la aiutavo a confezionare le maglie. Mia sorella poi si sarebbe sposata con un grande commerciante di stoffe di Treviso. Fu un momento triste per la famiglia quando subimmo un furto in negozio; questo atto sconsiderato ci mise in grande difficoltà.”
“Crescendo in età mi sentii attratta dalla vocazione; tuttavia in Veneto non esistevano Monasteri femminili, ma solo conventi ed io mi sentivo attratta piuttosto dalla vita contemplativa. Fu così che maturò la scelta di farmi monaca e di entrare nella famiglia domenicana, seppur così lontano da casa; i miei genitori mi lasciarono libera di scegliere. La scelta del Monastero di Castel Bolognese fu dovuta al fatto che una compaesana, suor Teresa Moro (che sarà Priora negli anni ’60 per lungo tempo ndr) era già qui ove l’accompagnò un frate domenicano capitato in Parrocchia per un ciclo di prediche che poi l’aiutò nel suo percorso vocazionale; la seguirono poi altre sue due sorelle ed una decina di ragazze della zona; fra queste una mia amica che poi divenne suor Michelina (per anni portinaia del Monastero ndr). Fu proprio in occasione della sua professione, nel maggio del 1942 che entrai per la prima volta nel Monastero di Castel Bolognese per provarne la vita e la regola monacale. Mi trovai bene e presi così la mia decisione.”
“Il 15 ottobre 1942 entrai definitivamente nel Monastero. Mi accompagnò in treno papà. Ricordo che nell’atrio, assieme a me, c’era un’altra ragazza, un po’ più anziana, pronta ad entrare, anch’ella accompagnata dal padre. Quando fu aperto il portone entrai non prima di aver salutato papà che era rimasto seduto nell’atrio, sulla panca, che mi ricambiava il saluto piangendo. Avevo diciassette anni. Prima di raggiungere il Monastero volli fare un giro per Castel Bolognese. Ricordo di essere passata sotto la torre civica, di aver attraversato la piazza, di aver visto una Via Emilia così scarsa di traffico!”
“Durante la sosta del fronte io fui sfollata a Bagnara di Romagna con le Consorelle più giovani; le più anziane rimasero qui a presidio e difesa del Monastero. A Bagnara fummo accolte in una casa da una signora la quale, pensando di ospitare monache amanti della solitudine, lige e poco socievoli ci accolse con una grande freddezza e con un piglio serissimo ed accigliato. Dopo che ci conobbe così tutte giovani, allegre, giocose ci disse: “non credo più a nessuno” e si pentì per averci trattato dapprima con grande distacco; anzi alla nostra partenza pianse di cuore. A Bagnara eravamo unite ma un po’ sole; il Vescovo ci aveva sciolto dalla clausura ma noi preferimmo restare assieme e fare vita appartata; molte volte ci assalì la paura perché anche nelle vicinanze di Bagnara si accanirono i bombardamenti e anche noi corremmo nei rifugi. Il nostro cruccio maggiore era però ricevere scarse notizie sulle consorelle rimaste a Castel Bolognese e sulle nostre famiglie in Veneto. Noi scrivevamo ma il servizio postale era per lo più paralizzato. Solo ogni tanto ricevevamo qualche biglietto da casa con solo scritto: stiamo bene.” Il che ci rincuorava.
“Arrivò la liberazione e noi tornammo tutte a Castel Bolognese a piedi da Bagnara, desiderose di riprendere la nostra vita di monache ma la sorpresa al nostro arrivo fu spaventosa: il Monastero era stato più volte colpito dai bombardamenti ed era in gran parte inagibile. Ci rimboccammo le maniche ed iniziammo una parziale ricostruzione; appena fu possibile attraversare il Po giunsero in bicicletta dalla pianura veneta i nostri parenti anche con viveri e beni di prima necessità; tra costoro c’era anche papà. A Castion di Loria avevano indetto una lotteria per raccogliere aiuti per noi! Alcuni, specie i parenti di madre Teresa Moro, rimasero qui anche qualche mese per aiutarci materialmente nella ricostruzione.”
“In questi anni dentro il Monastero ho lavorato e svolto numerosi incarichi. Ho lavorato come magliaia anche perché ricordavo come operare con quelle macchine che tanto erano simili a quella con la quale si era dedicata al lavoro mia sorella, ho lavorato di cucito e, come altre consorelle, ho avuto il privilegio di appuntare una stella dorata sul nuovo manto della Patrona di Castel Bolognese. Ho svolto l’incarico di maestra della Novizie per tanti anni; ho accompagnato col suono dell’organo il canto delle Monache e dei fedeli per altrettanti anni, sono stata Priora per nove anni.”
È giunta così anche l’ultima domanda, un po’ forse scontata ma doverosa: “Ma in questi ottant’anni mai un ripensamento sul bilancio della sua vita?” e la risposta, granitica, è stata “No, mai”. Auguriamo nella preghiera a suor Serafina ancora lunghi anni in salute, conservando quello spirito vivace e quella serenità che continuano a contraddistinguerla, certi che il traguardo che lei ha raggiunto è stato superato da poche monache sia dell’ordine domenicano che di altri ordini.

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Primi piani: Angelo Biancini https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/primi-piani-angelo-biancini/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/primi-piani-angelo-biancini/#respond Thu, 28 Mar 2024 21:24:01 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11527 (introduzione) Vi proponiamo, con il consenso del figlio Cesare, un ritratto davvero particolare di Angelo Biancini, scritto sul Carlino da una penna illustre, quella di Roberto Gervaso, che era amico di Biancini sin dai tempi delle frequentazioni con Orio Vergani. E’ un ritratto di Biancini uomo in cui tanti castellani …

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(introduzione) Vi proponiamo, con il consenso del figlio Cesare, un ritratto davvero particolare di Angelo Biancini, scritto sul Carlino da una penna illustre, quella di Roberto Gervaso, che era amico di Biancini sin dai tempi delle frequentazioni con Orio Vergani. E’ un ritratto di Biancini uomo in cui tanti castellani ritroveranno il Biancini che ricordano ancora oggi. Gervaso naturalmente esagera ironicamente le abitudini di Anzulé e certe situazioni, che sono però tutte realmente accadute: chi non ricorda, infatti, il Biancini autostoppista e il suo inseparabile sigaro?
Arricchisce il testo, del 1974, una fotografia scattata da Giorgio Giovannini (per la quale ringraziamo Domenico Giovannini) durante la Pentecoste dello stesso anno che ritrae Biancini, davanti al Bar Commercio, in mezzo ai castellani. D’altronde, come scriveva Gervaso, Biancini “conosce tutti e tutti conoscono lui. A tutti dà del tu e tutti lo danno a lui”. Bellissima, infine, ci sembra l’immagine di Anzulé, talmente appassionato del suo lavoro, che “scolpisce anche quando dorme”. (A.S.)

di Roberto Gervaso
tratto da Il Resto del Carlino, giovedì 7 novembre 1974

Tempo fa, Angelo Biancini, meglio noto come Anzulé, fu invitato a commemorare Michelangelo. La cerimonia era stata fissata per le quattro del pomeriggio a Caprese, dove il Buonarroti nacque. Alle quattro meno un quarto tutte le autorità, con in testa Fanfani, erano già sul posto. Mancava solo Anzulé. Cosa gli era successo? Qualcuno avanzò l’ipotesi che l’auto su cui viaggiava fosse rimasta in panne. Altri il timore che si fosse dimenticato dell’appuntamento. Niente di tutto questo.
Dalla sua casa di Castel Bolognese, in quel di Imola, Angelo, memore dell’impegno pomeridiano, era partito all’alba, naturalmente in autostop, suo unico mezzo di locomozione. Ad Anghiari s’era fermato per mangiare un panino e bere un bicchiere di vino. Ma il panino era diventato una doppia porzione di riso e fagioli, una bistecca alla fiorentina per quattro, un’insalata mista per sei, una fetta di castagnaccio per otto, il tutto innaffiato da un paio di fiaschi di Chianti e alcuni grappini. Alla fine del pantagruelico pasto Anzulé fu assalito da una tale ceccagna che decise di farci su una dormita. Il trattore gli mise a disposizione un bugigattolo, adibito a ripostiglio, dove spiccava una sgangheratissima branda.
A quella vista, gli occhietti furbi e fanciulleschi di Biancini s’illuminarono come se, invece d’un traballante e bisunto giaciglio, gli fosse apparsa la Madonna di Lourdes o Sophia Loren. Non fece in tempo a sdraiarsi che le palpebre gli s’abbassarono e la bocca gli si aprì, anzi gli si spalancò. Quando, dopo tre ore si svegliò, per quanti sforzi facesse, non riusciva a capire dov’era e, soprattutto, perché si trovava in quel buio e polveroso anfratto. Si stropicciò gli occhi, accese un sigaro e, per una decina di minuti, restò lì, come imbambolato. Non era la prima volta — e non sarà nemmeno l’ultima — che gli capitavano simili infortuni.
Ripresa, finalmente, conoscenza, saltò giù dalla branda, infilò la porta, scese a precipizio le scale e, smoccolando, abbordò il primo mezzo diretto a Caprese. Arrivò a destinazione alle cinque accolto da un silenzio gelido e da sguardi riprovatori. Agitando con una mano il sombrero, che porta in tutte le stagioni e a tutte le latitudini, e con l’altra l’inseparabile toscano, Anzulé guadagnò di corsa la tribuna e si piantò davanti al microfono. Poiché nel viaggio aveva perduto gli appunti, dovette parlare a braccio. Non ricorda quel che disse, perché lo disse sotto i fumi dell’alcool, che non aveva ancora completamente smaltito. Ricorda solo che ebbe un gran successo, un mucchio d’applausi e il perdono generale.
Come avrebbero potuto negarglielo? Di Biancini non si può non essere amici. A Castel Bolognese, dove è nato e vive, è ormai un’istituzione. Anzi, un nume tutelare, un santo patrono. Conosce tutti e tutti conoscono lui. A tutti dà del tu e tutti lo danno a lui. Quando passa per le strade o attraversa la piazza, salutando a destra e a manca, lanciando occhiate nient’affatto furtive alle donne, fissando appuntamenti in questo o quel caffè per una partita a scopa o a tressette, commentando ad alta voce il goal di Riva o la volata di Gimondi, come se Riva o Gimondi fosse lui, lo diresti più un discendente del Passatore che un emulo di Michelangelo.
Il suo trombone è lo scalpello e non manca mai il bersaglio. Cominciò a maneggiarlo da ragazzo, per consolarsi di non poter lavorare nei campi o spignattare in cucina. Avrebbe, infatti, voluto fare il contadino, come il bisnonno, o il cuoco, come il nonno, famoso alla corte sabauda per i suoi tortellini e il suo pollo alla cacciatora. Da allora non l’ha più deposto. Lo tiene in tasca, come un talismano, fra banconote, santini, toscani e mille altre cianfrusaglie.
E’ un lavoratore caparbio e incontentabile. Gli allievi dell’Istituto di Ceramica di Faenza, questa Sorbona romagnola, di cui è direttore artistico, lo temono quasi quanto lo amano. Esigentissimo con sé stesso, non lo è meno coi discepoli. Quando sbagliano, le sue urla trafiggono le mura dell’Istituto investendo la vicina piazza. Chi non ne conosce la causa, potrebbe pensare che qualcuno, colto da improvvisa follia, stia consumando un delitto o uno stupro. E, invece, è Anzulé, fuori di sé per un’argilla cotta male o un bronzo mal cesellato. Ma le sue ire, per fortuna, sbollono subito. Dopo un paio d’ululati, conditi d’irriferibili moccoli, Anzulé diventa più affettuoso e compagnone di prima. L’unica cosa che non torna come prima è la glicemia, la quale sale a picco al di là d’ogni limite di guardia.
Se la porta addosso da una ventina d’anni come da una ventina d’anni, a giudicare almeno dallo sfrittellamento e dalla ciancicatezza, porta addosso il completo “bianco”, confezionatogli, dice lui, dal migliore sarto di Castel Bolognese, che, se s’intona col sombrero di paglia, fa a pugni con uno sbrindellatissimo maglioncino marrone e un paio di sandali frateschi, dal colore indefinibile. Quand’è stanco — e la sera, dopo dodici ore di bulino — è stanchissimo, si dimentica perfino di spogliarsi. Si corica vestito, con le mani ancora impastate d’argilla e il sigaro acceso, che la moglie gli spegne, appena s’addormenta.
La mattina s’alza alle quattro e mezzo e alle cinque è già fuori coi cani, un barboncino e un lupo, che personalmente accudisce e sfama. Vanno insieme a prendere il “Carlino”, poi si dirigono verso il parco o lo scalo ferroviario, a seconda della stagione. Letto il giornale, riporta i cani a casa e comincia l’antelucano pellegrinaggio ai vari bar del paese. Sosta in tutti, meno uno, gestito da una donna con la quale ha litigato. E in tutti beve un caffè, un grappino o un sangiovese. Con quali conseguenze per il diabete ve lo lascio immaginare. Se gli capita, fa anche una partitina a scopa ma, a quell’ora, è difficile che gli capiti.
Alle cinque e mezzo, con in bocca il terzo sigaro della giornata, si piazza ai bordi della via Emilia, in attesa che qualche automobilista gli dia uno strappo sino a Faenza. Una volta ci andava in bicicletta, ma da quando un camion di Foggia, carico di mozzarelle, per poco non lo travolse, preferisce l’autostop. Sale sulla prima macchina e in dieci minuti è a Faenza. Altri dieci li passa nel bar di fronte all’Istituto d’arte dove, fra un altro caffè e un altro grappino, fuma un altro sigaro: il quinto, perché il quarto l’ha fumato nel tragitto fra Castel Bolognese e Faenza.
Alle sei in punto varca la soglia della scuola e alle sei e cinque è già al lavoro. Si toglie la giacca, infila lo spolverino e, con piglio michelangiolesco, comincia a dar di scalpello. Per raddoppiare la foga, quasi che i grappini ingurgitati non gliene avessero infusa abbastanza, si mette a cantare a squarciagola l’”Aida” o il “Trovatore”, svegliando non solo i custodi della scuola, ma tutti i vicini. La glicemia nuovamente gli sale, ma lui non ci bada: vorrà dire che, invece d’una doppia porzione di tortellini, ne mangerà una e mezzo, invece di due fiaschi di trebbiano, s’accontenterà di uno. Alle nove comincia le lezioni. Alle nove e cinque leva le prime urla. A mezzogiorno riprende la via di casa, sempre in autostop, e dopo essersi sorbito un ennesimo grappino e fumato un ennesimo sigaro.
Alle tre è di nuovo all’Istituto, dove resta fino alle sette. Il tempo per sfornare un altro capolavoro, lanciare altre urla, fumarsi un’altra dozzina di sigari e, fra un urlo e un toscano, bersi un altro gotto di sangiovese o di trebbiano. Quando, finalmente, dopo una cena, che lui definisce frugale perché di pasta e fagioli ne mangia solo un piatto e di vino ne beve solo un fiasco, si corica, la glicemia ha allegramente doppiato il livello di guardia. Un altro, al suo posto, sarebbe già in pieno coma diabetico. Biancini no. Lui è fra le braccia di Morfeo, e russa così fragorosamente che la moglie, i vicini e persino il pappagallo e i cani non riescono ad addormentarsi.
I suoi sogni sono invariabilmente ambientati in una vecchia trattoria, in questo o quel bar, nelle aule dell’Accademia. Sì, perchè Anzulé scolpisce anche quando dorme. La sua passione per il bronzo, l’argilla, il bulino non l’abbandona mai. Ce l’ha nel sangue e ce l’ha così prepotente che nemmeno la glicemia riesce a domarla, o anche solo a smorzarla. Lui il diabete lo combatte — e lo vince — senza medicine. Un buon colpo di scalpello, e quelli di Biancini sono infallibili, gli fa meglio di cento dosi d’insulina.
Quanti ne dia, ogni giorno — e ogni notte — non so. Quel che so è che le sue opere — ceramiche e bronzi — hanno fatto, e fanno, il giro del mondo; che non c’è collezionista, degno di questo nome, che non ne possieda almeno una; che la galleria d’arte moderna del Vaticano ne trabocca; che il Papa gli ha affidato, e gli affida, commissioni su commissioni (il monumento a San Tommaso d’ Aquino l’ha fatto lui).
Se Anzulé fosse nato al tempo del Vasari, un posto di proscenio nelle Vite non gliel’avrebbe tolto nessuno. Ma, forse, è meglio che sia nato in questo secolo. Come avremmo altrimenti potuto fare la sua conoscenza, godere i suoi capolavori e udire, passeggiando per Faenza, le sue urla e i suoi “do” di petto?

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Le zitelle alla dote: una tradizione veliterna risalente ai tempi del card. Domenico Ginnasi https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/le-zitelle-alla-dote-una-tradizione-veliterna-risalente-ai-tempi-del-card-domenico-ginnasi/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/le-zitelle-alla-dote-una-tradizione-veliterna-risalente-ai-tempi-del-card-domenico-ginnasi/#respond Sun, 03 Mar 2024 15:25:51 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11463 di Paolo Grandi A Velletri, il cardinale Domenico Ginnasi, nella Cappella oggi dedicata al Sacro Cuore di Gesù in Cattedrale, nel 1638 fondò la Confraternita del Suffragio, che estraeva quattro doti l’anno il 12 Marzo, giorno della festa di San Gregorio mandando le ragazze in processione a Pentecoste, mentre la …

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di Paolo Grandi

A Velletri, il cardinale Domenico Ginnasi, nella Cappella oggi dedicata al Sacro Cuore di Gesù in Cattedrale, nel 1638 fondò la Confraternita del Suffragio, che estraeva quattro doti l’anno il 12 Marzo, giorno della festa di San Gregorio mandando le ragazze in processione a Pentecoste, mentre la Confraternita della Pietà a Santa Maria in Trivio estraeva doti mandando in processione le ragazze alla Madonna in Via Lata, fuori le mura della città. Anche l’ Arciconfraternita di Maria SS.ma del Gonfalone estraeva un numero imprecisato di doti, questo fino a quando non dovette usare quei fondi per ricostruire la chiesa crollata per un terremoto, riprendendo poi ad estrarre doti almeno fino agli anni venti del novecento. Ma il più importante benefattore delle ragazze povere a Velletri, fu Salvatore Scandelloni, Canonico del Capitolo della Cattedrale, che lasciando legati nel suo testamento 7.500 istituì il più cospicuo sussidio dotale in città, un altro benefattore fu Nicola Antonio Gregni con i suoi 60 scudi lasciati in deposito al Sacro Monte di Pietà Ginnasi istituì due doti l’anno da estrarre a turno dalle parrocchie cittadine.
Naturalmente per avere questi benefici bisognava eccellere nel catechismo e partecipare alla processione del SS.mo Salvatore che fino al 1954 si svolgeva la sera del 14 Agosto fino a Santa Maria in Trivio e la mattina seguente si riportava l’antica icona in Cattedrale.
Le ragazze risultate vincitrici delle doti ricevevano in date stabilite la “polizza” che mettevano in una borsa di tela bianca che portavano in processione legata ad un fianco, il loro vestito, candido, era realizzato con la stoffa che veniva consegnata loro all’atto dell’assegnazione del beneficio. Tali distribuzioni sono andate avanti sino alla seconda guerra mondiale.
Nel 1989 alcuni cultori di storia veliterna pensarono di riscoprire questa importante pagina di storia cittadina, fondando il gruppo in costume “Le zitelle Velletrane” e così ricostruendo le vicende delle doti, dalla rievocazione storica della candidatura alla dote, fino alla partecipazione alla Processione della Madonna della Carità ogni 2 settembre. Dal 2006 il gruppo ha ricevuto in dono un prezioso medaglione con l’effige della Madonna delle Grazie, realizzato dallo scultore Giuseppe Cherubini nel bicentenario del patrocinio della Vergine sulla città. Il medaglione viene indossato nelle processioni dalla Priora, cioè quella ragazza che convolerà a nozze entro l’anno.
Le Zitelle alla dote, oggi non indossano più quella candida veste, ma dei preziosi costumi fedelmente replicati sulla scorta delle stampe e delle incisioni giunte fino a noi dal XIX secolo. Questi preziosi abiti sono stati realizzati con la consulenza iconografica e storica del Prof. Clemente Marigliani dalla costumista Marina Sciarelli e rappresentano il più grande patrimonio del gruppo che si definisce appunto di costume.
Il 24 Febbraio scorso si è svolto il primo degli appuntamenti legati alla rievocazione storica della Zitella alla Dote 2024, che non è solo una pura rievocazione storica: ad essa è legata una vera propria somma in denaro che ogni anno viene erogata. In quella serata sono state aperte le candidature e le ragazze hanno potuto porre il memoriale nel quale, esprimendo la loro volontà di candidarsi, hanno dichiarato di avere tutti i requisiti necessari: la fede cattolica, essere nubili e di avere un’età tra i 18 e i 30 anni. Il prossimo 15 marzo l’urna sarà sigillata e successivamente una Commissione all’uopo nominata secondo il regolamento approvato all’epoca della rievocazione provvederà all’esame delle candidature, a stabilire il numero delle doti da estrarre in base alle risultanze dei memoriali determinando anche la somma per ogni una di esse, riservandosi anche di non assegnarne qualora il numero delle candidate fosse esiguo o non si ravvisi la sussistenza dei requisiti richiesti. Dopodiché la Commissione formerà “i bollettini”, praticamente bigliettini col nome delle candidate, che introdurrà nella bussola per l’estrazione. Il 25 marzo la Commissione procederà all’estrazione pubblica della Zitella 2024. Alla Zitella estratta in una seconda occasione pubblica verrà affidato uno degli abiti storici di Velletri che dovrà indossare nella processione della Madonna delle Grazie (4 Maggio 2024) e nella processione della Madonna della Carità (7 Settembre 2024) e negli eventi a cui il gruppo può essere invitato durante l’anno. La Zitella potrà continuare ad indossare l’abito storico che resterà proprietà del gruppo di costume qualora desideri restare a far parte dello stesso. La Zitella, una volta assolti gli impegni richiesti dal regolamento riceverà poi la dote mediante una cerimonia pubblica in luogo ora e data ancora da stabilire.
È bello pensare che dietro a questa bella iniziativa vi sia un po’ di Castel Bolognese, grazie all’attività benefica del cardinale Domenico Ginnasi.
Infine, nella Cattedrale di Velletri, oltre alla Cappella del sacro Cuore, già descritta in altra parte, è pure conservato il busto di San Clemente papa ordinato sempre dal card. Ginnasi e realizzato da Giuliano Finelli (Carrara 1602 – Roma 1653) allievo del Bernini, nel quale possiamo riconoscere le fattezze dello stesso cardinale. Purtroppo con i bombardamenti della seconda guerra mondiale è andata distrutta la Cappella Ginnasi, sempre in Cattedrale, affrescata da Caterina.

Si ringrazia la Fondazione Museo Luigi Magni e Lucia Misirola per le fotografie

 

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Alessandro Ginnasi (1849-1924) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/alessandro-ginnasi-1849-1924/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/alessandro-ginnasi-1849-1924/#comments Wed, 14 Feb 2024 21:25:37 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11356 (introduzione) Tre anniversari “tondi” ci portano a pubblicare questo testo su Alessandro Ginnasi, a cui è intitolato uno dei plessi scolastici di Castel Bolognese. Il conte Ginnasi moriva 100 anni fa, il 14 febbraio 1924. La vedova Maria Regoli (1859-1937), per onorarne la memoria, fece costruire l’Orfanotrofio femminile Ginnasi la …

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Ritratto di Alessandro Ginnasi eseguito da Anacleto Margotti, tratto dalla memoria funebre (Archivio Andrea Soglia)

(introduzione) Tre anniversari “tondi” ci portano a pubblicare questo testo su Alessandro Ginnasi, a cui è intitolato uno dei plessi scolastici di Castel Bolognese. Il conte Ginnasi moriva 100 anni fa, il 14 febbraio 1924. La vedova Maria Regoli (1859-1937), per onorarne la memoria, fece costruire l’Orfanotrofio femminile Ginnasi la cui prima pietra veniva posta il 24 giugno 1934, 90 anni fa. Una volta esaurita l’opera pia, l’edificio veniva riconvertito a Scuola elementare, la cui entrata in attività risale all’anno scolastico 1973-74, ossia 50 anni fa.
Alessandro Ginnasi fu amante della musica, della letteratura e dell’arte, e si era molto distinto nel disegno al Collegio San Luigi. Riservatissimo in vita, fu prodigo di aiuti generosi verso tutti colori che ricorrevano a lui. Con la sua morte si estingueva uno dei rami nobili più illustri e antichi della Romagna. Vedovo di Giovanna Morelli, morta ad appena 23 anni nel 1878, nel 1884 (altro anniversario “tondo”) aveva sposato Maria Regoli.
Il testo che vi proponiamo, tratto da Il Diario del 23 febbraio 1924, riporta anche un resoconto degli imponenti funerali e delle numerose elargizioni in beneficenza effettuate da Maria Regoli in memoria del marito. Nel testo si parla anche di un ritratto del conte Alessandro Ginnasi disegnato a carboncino dal pittore Anacleto Margotti. Una sua riproduzione fu poi pubblicata sulla memoria funebre distribuita nel trigesimo della morte. (A.S., 2024)

La morte del Conte Alessandro Ginnasi

Lunedì 18 [febbraio 1924] alle ore 14,30 si spegneva improvvisamente nel suo palazzo in Imola il N. U. Conte Alessandro Ginnasi, Conte e Patrizio di Faenza, Patrizio Romano, Nobile di Bologna, Nobile di Velletri. Egli apparteneva ad una delle più antiche e nobili famiglie romane che vanta illustri nomi come quello del Cardinal Domenico Ginnasi noto per l’efficace aiuto dato a Sisto V, nunzio apostolico a Madrid e provvido governatore di Velletri, morto nel 1639 lasciando in beneficenze ingenti ricchezze, onde sorse in Roma il Collegio Ginnasi per gli alunni di Castel Bolognese; il busto marmoreo del Card. Ginnasi, scolpito dal Bernini, trovasi tuttora nella chiesa di S. Lucia alle Botteghe Oscure in Roma.
Il Conte Alessandro, figlio del Conte Vincenzo e di Teresa Dalpozzo, nacque a Faenza il 17 maggio 1849; fu educato nel collegio S. Luigi di Bologna ove ebbe a compagni Alfredo Oriani e il nostro compianto amico Odoardo Galeati col quale si mantenne in rapporti di costante amicizia.
Dimorò prima a Faenza, poi a Castel Bolognese ove conobbe Colei che divenne premurosa compagna della sua vita, Maria Regoli, la quale seppe con savia opera ed infaticabile attività conservare integro il patrimonio di nobiltà e di ricchezza di quell’antichissimo casato.
Il Conte Alessandro, di temperamento riservatissimo, incurante del chiasso mondano, amante della sua casa, viveva appartato; ma quanti lo conobbero e lo accostarono ammirarono in lui l’intelligenza, la cultura e la bontà d’ animo.
Fu credente, e soccorse molte miserie.

Il trasporto funebre

I funerali ebbero luogo giovedì 21 corrente. La salma fu esposta al pubblico in camera ardente severamente apparata dal Sig. Golfari di Forlì e venne rimossa alle ore 10 per la Chiesa del Carmine. La salma nella camera ardente fu visitata dalla cittadinanza dalle ore 8 alle 9,30. Il Prof. A. Margotti, con quella rapida abilità che lo distingue, e con sentimento animatore, ritrasse a carbonello le sembianze del Conte. La camera ardente fu fotografata dal Cav. Galassi e dal Ferlini. Il corteo riuscì imponente. Seguivano la Salma, la moglie N. D. Contessa Maria Regoli Ginnasi, la sorella Marchesa Giulia in Zacchia, i cognati Conte Comm. Emanuele Rasponi, sig. Luigi Regoli, i nipoti Conte Dott. Nicola Rossi, sigg. Ermete, Zerelia e Tino Morelli, il Marchese Angelo Marsigli, Conte Leone Rossi e la Marchesa Marsigli, Marchese Antonio Zacchia, la Contessa Giulia Alberti Rossi, il Marchese Gianni Zacchia, Marchese Maurizio Zacchia, Marchese Del Turco, Conte Comm. Annibale Ginnasi Sindaco d’Imola, Mons. Aldo Tabanelli, Vicario Generale della Diocesi, per S. E. Mons. Vescovo d’Imola; Sottoprefetto d’Imola, Conte Flaminio Ginnasi, Conte Vincenzo Del Pero e Signora, Conte Paolo Ginnasi e Famiglia, Conte Gioacchino Ginnasi, Antonio Piancastelli per il Sindaco di Castel Bolognese, Don Musconi per l’Arciprete di Castel Bolognese, Capitano RR. CC., Conte Ginnasi Filippo, Conte Ginnasi Avv. Domenico, Prof. D’Agostino, Dott. Carlo Lesi e Signora, Avv. G. Casoni, Avv. Loreti, Avv. Villa, Cav. G. B. Raffi, Prof. A. Margotti, Sig. Carlo Cavallari, Sig.ra Lina Casoni, Sig.ra Maria Nardozzi, Sig.ra Ceresoli, Rag. Francesco Gamberini per le Contesse Imelde e Maria Antonietta Ginnasi in Podesià Lucciardi; Rag. Donati Aldo, Costa Cleto e Fanti Earico pel Consorzio Agrario, Rappresentanza del P. N. F., Signor Mario Boccella per la Camera Agraria, Dott. Vincenzo Croci, una rappresentanza del Seminario Diocesano, i Giovani Esploratori, Asilo Giardino, Paggi del SS. Sacramento, Artigianelli S. Caterina, Buon Pastore, Orfanotrofi Maschile e Femminile, Breforofio, Opera Assistenza all’Infanzia, Dame della Provvidenza, Patronato Fanciulle, Istituto B. Teresa del Bambin Gesù, Patronato Giovani, Figlie del lavoro, Ricovero, Madre Pie di Castel Bolognese, Confraternite, Clero, il Parr. D. Giovanni Menzolini che precedeva il carro funebre, e moltissime altre personalità, e i Coloni della possidenza del Defunto, con ceri, nonchè quelli delle possidenze Zacchia, Marsigli e Rossi. Il corteo imponente fu messo gentilmente in ordine dai Can. Cav. Poggi e da D. Gaetano Marzari. Prestarono solerte servizio di vigilanza i Vigili Urbani.
La Chiesa del Carmine era gremita.
Fu eseguita la bellissima Messa Funebre di D. L. Perosi a 3 voci pari con un complesso di professori d’orchestra e di elementi vocali di primo ordine.
Le due voci soliste, il tenore Cav. Rodolfo Rossi di Bologna ed il basso Michele Sampieri di Pesaro, provetti artisti di canto, misero in rilievo in modo incomparabile quelle parti della Messa dove Perosi ha maggiormente trasfusa la sua grand’anima d’artista e di genio.
Sedeva all’organo il M.o Luigi Pennazzi di Lugo; dirigeva il M.o D. Antonio Vassura.

La beneficenza

La N. D. Contessa Maria Regoli Vedova Ginnasi, alla quale presentiamo vivissime condoglianze, per onorare la memoria dell’amato Consorte Conte Alessandro Ginnasi ha offerto:
Ospizi Marini, L. 1000 – Orfanotrofio Maschile, 500 – Orfanotrofio Femminile, 500 – Asilo Giardino, 500 – Ricovero Mendicità, 500 – Brefotrofio, 500 – Partito Nazionale Fascista, 5OO – Poveri della Parrocchia del Carmine, 500 – Poveri della Parrocchia di Sesto Imolese, 500 – Dame della Provvidenza, 500 – Opera d’Assistenza all’Infanzia, 500 – Comitato Antitubercolare, 5OO – Patronato Fanciulle, 500 – Figlie del Lavoro, 500 – Patronato Giovani, 500 – Istituto S. Caterina, 500 – Istituto Buon Pastore, 500 – Istituto Madri Pie di Castel Bolognese, 500 – Paggi del SS. Sacramento, 200 – Assistenza Civile e Religiosa Orfani Guerra, 200 – Giovani Esploratori Cattolici, 200 – Opera Diocesana delle Vocazioni Ecclesiastiche, per onorare la memoria del Conte Alessandro e del Suo Grande Antenato Card. Domenico Ginnasi, 500 – Asilo Notturno, 200 – Al “Diario” 200 – Ad “Imola Nuova”, 200.

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