La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/ Mon, 29 Apr 2024 16:30:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.4 «deCostruire un Luogo dell’incontro e della memoria» https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/decostruire-un-luogo-dellincontro-e-della-memoria/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/decostruire-un-luogo-dellincontro-e-della-memoria/#respond Sun, 28 Apr 2024 13:26:29 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11630 Castel Bolognese (RA)                                                       22 aprile 2024 CELEBRAZIONI PER IL 40° ANNIVERSARIO DEL MONUMENTO NAZIONALE AI CADUTI B.C.M. https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_nazionale_ai_caduti_per_la_bonifica_dei_campi_minati Relatore: Prof. Arch. ERMINIO FERRUCCI https://ferrucci-marziliano.it/erminio-ferrucci/ …

The post «deCostruire un Luogo dell’incontro e della memoria» appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
Castel Bolognese (RA)                                                       22 aprile 2024

CELEBRAZIONI PER IL 40° ANNIVERSARIO DEL MONUMENTO NAZIONALE AI CADUTI B.C.M.
https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_nazionale_ai_caduti_per_la_bonifica_dei_campi_minati

Relatore: Prof. Arch. ERMINIO FERRUCCI
https://ferrucci-marziliano.it/erminio-ferrucci/
https://ferrucci-marziliano.it/

In premessa desidero ringraziare tutti i presenti, i promotori e gli organizzatori di queste celebrazioni che si svolgono per il quarantennale del Monumento ai Caduti B.C.M. che ho iniziato a progettare sul finire degli anni Settanta del secolo scorso. Un ringraziamento e un affettuoso ricordo desidero rivolgere a tutti i Membri del Comitato Promotore e agli amici carissimi: Franco Gaglio (che, in quell’epoca, era sindaco di Castel Bolognese), Bruno Violani (ex sminatore) e Angelo-Anzulè Biancini, con i quali abbiamo condiviso un dibattito culturale che è perdurato addirittura per cinque anni, allo scopo di precisare e perseguire tutti gli obiettivi che il Comitato Promotore del monumento si era prefissato.

Un ulteriore ringraziamento e un affettuoso ricordo devo poi ad Alberto Andreatti e a Giovanni Guardi, presidenti dell’ANGET Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori d’Italia – Sezione di Bologna; e, inoltre, anche alla Presidenza Nazionale ANGET di Roma che, per questa mia opera che è stata definita «una architettura d’avanguardia», ha voluto onorarmi conferendomi la medaglia d’oro-vermeil. E infine, ultimo ma non ultimo, il mio ringraziamento è rivolto al Presidente della Repubblica Sandro Pertini per il monito solenne e le parole ispirate che ha voluto dedicarci nel telegramma inviato in occasione dell’inaugurazione ufficiale del nostro monumento.

Purtroppo molte tra queste persone da me appena citate non sono più tra noi, poiché sono già trascorsi ben 45 anni dall’inizio di quel nostro questionare finalizzato alla costruzione del monumento. 45 anni. In effetti tutto ebbe inizio alla fine degli anni ’70 del secolo scorso: erano anni attraversati dalla contestazione giovanile, in un presente che allora sembrava voler superare e dimenticare le sofferenze patite nel periodo bellico che, in tal modo, perdevano progressivamente interesse in un processo di accantonamento ed estraniamento dalla memoria collettiva.

Soprattutto per tale ragione ad alcune personalità illuminate parve urgente la necessità di procedere senza indugio alla realizzazione di un monumento specificamente inteso a recuperare il ricordo degli sminatori che, non soltanto nel periodo bellico, si erano immolati per la sicurezza della popolazione bonificando i territori minati. Un monumento che, celebrando il sacrificio degli sminatori, potesse essere di ammonimento perenne per far rammentare le loro valorose gesta tramandando il ricordo di quei martiri che, anche a guerra finita, con il loro oscuro sacrificio hanno reso possibile la ricostruzione del nostro Paese.

Fin da subito Franco Gaglio e Angelo Biancini mi coinvolsero (per meglio dire: mi costrinsero) e mi affidarono gli onori e gli oneri della progettazione del monumento, e pertanto con loro e con tutti i Membri del Comitato fin da subito iniziammo a dibattere su quali fossero le finalità da perseguire nel progetto di un complesso celebrativo che avrebbe dovuto caratterizzarsi con l’allegoria della distruzione, della ricostruzione, e quindi del rinnovato fluire della vita ricomposta nei suoi atti di pacata quotidianità.

Già nei nostri primi incontri informali, tenutisi a Firenze nel 1979, in seno al Comitato Promotore vennero stabilite le caratteristiche del monumento che non avrebbe dovuto rappresentarsi con una semplice definizione antropomorfa ma, piuttosto, avrebbe dovuto segnalarsi in virtù di una forte valenza simbolica rappresentata come rimando citazionale al Bunker (ossia a un complesso di costruzioni erette con finalità militari e difensive). Dunque il monumento che la committenza voleva erigere allo scopo di onorare i Caduti per la bonifica dei campi minati avrebbe dovuto essere configurato con esiti evocativi di espressività “modernissima”, ossia aggiornata culturalmente e rivolta alle menti – e ai cuori – delle nuove generazioni.

Promosse informalmente dal Comitato Promotore del monumento (costituito da appartenenti alla Regione Militare Tosco-Emiliana, da ex sminatori, da amministratori di Castel Bolognese e della Comunità Montana dell’Appennino Faentino), le nostre riunioni proseguirono regolarmente per circa due anni, sino alla costituzione ufficiale del Comitato Promotore avvenuta in data 27 giugno 1981. In quella occasione ne venne stabilita anche la sede: a Castel Bolognese, ossia nel luogo ubicato al centro di una vasta area fatta ripetutamente oggetto delle bonifiche di sminatura all’interno della Regione Militare Tosco-Emiliana.

Era nostra opinione che l’evocazione delle devastazioni belliche, e la successiva volontà di rigenerazione, dovesse necessariamente escludere ogni statuaria con sembianze umane. Inoltre si volle porre in evidenza la solidità della materia in maniera rigorosa, a significare la solidità di una Nazione che rinasce, e per questa ragione si scelse di adottare il cemento armato. Tale impostazione brutalista (1) appare evidente nelle diverse revisioni del progetto, ma non già nella prima idea che proponeva un cumulo di blocchi lapidei policromi sui quali svettava l’Albero della Pace come metafora della continuità della vita. Nel mio progetto definitivo (che fu addirittura acclamato da tutti i Membri del Comitato), appare ben evidente la scelta decostruttivista orientata alla riflessione consapevole, che supera anche l’approccio strutturalista opponendosi altresì agli stilemi cari al pensiero post-moderno, predominante nel dibattito culturale architettonico di quegli stessi anni.

Non volevamo un monumento che fosse retorico o enfatico, ma neppure minimalista, banale o vernacolare. E pertanto, discussione dopo discussione, confronto dopo confronto, negli anni abbiamo precisato e revisionato molte ipotesi progettuali, fino a pervenire alla decisione di voler frantumare le consuetudini da secoli vigenti per l’ordinaria progettazione dei Celebrativi. E, infine, senza titubanze, abbiamo deciso il superamento della sterile percezione del “già noto” (e quindi riconoscibile) ed estetizzante, con una intenzionalità espressiva dichiaratamente decostruttivista e brutalista dove non ho (non abbiamo) voluto rappresentare le sembianze umane dell’eroe in azione e/o gli strumenti in uso per far ‘brillare’ le mine.

Dunque l’intera fase ideativa intendeva elaborare una architettura d’avanguardia (così come mi era stato espressamente richiesto da quella assai peculiare e composita committenza), in grado di sovvertire il sistema di valori plastici tradizionali del tutto insufficienti nel dare risposta alla complessità delle istanze poste in essere dai Membri del Comitato Promotore. Per tale ragione, e con tali finalità, il progetto compone un’opera architettonica in cemento armato in rapporto rispettoso e dinamico con il contesto urbano; un’opera non soggiacente ad alcun modello figurativo di riferimento e che utilizza soluzioni formali disposte per evocare in termini oppositivi il male e il bene, il caos e l’ordine, la morte e la vita, la distruzione e la ricostruzione, in una configurazione spaziale densa ma frammentata, mediante quattro massicci volumi dalla geometria inattesa.

Consapevoli che forse l’opera architettonica non sarebbe stata immediatamente comprensibile, abbiamo comunque deciso di adottare un linguaggio articolato che appare spaesante, poiché all’epoca non era mai stato applicato in nessun’altro Celebrativo: infatti l’insieme delle espressioni strutturali, morfologiche e tecnologiche è del tutto originale e, all’epoca, non era comparabile a nessuna altra opera commemorativa. Il complesso monumentale, dalle superfici di cemento grigio (con specifiche casserature in parte levigato, e in parte graffiato), si rappresenta in una configurazione ordinata: i blocchi verticali si accostano a quelli orizzontali, distaccati ma contigui e prospicienti; contrapposti, ma semanticamente collegati dall’Albero della Pace (scultura realizzata dall’Atelier di Angelo Biancini, scultore e ceramista) che è situato come cerniera tra assialità orizzontale e verticale, tra distruzione e ricostruzione, tra morte e vita, poiché i suoi rami sono gremiti di colombe che, come è noto, rappresentano la pace e la riconciliazione.

«Coordinamento perfetto, che rende l’atmosfera serena, e di una architettura d’avanguardia»: con queste parole, che Angelo Biancini vergò a mano sul cartiglio di una mia Tavola di progetto, si concluse l’annosa e difficoltosa stagione ideativa e progettuale. I Membri del Comitato con questa dedica vollero esprimermi la loro più viva soddisfazione, elogiando il progetto che, infine, venne approvato all’unanimità nella Seduta consiliare del 22 febbraio 1984. Immediatamente diedi inizio ai lavori di cantiere per la costruzione del monumento che venne inaugurato in data 15 aprile 1984 alla presenza delle massime autorità civili e militari della Nazione.

Si era dunque conclusa con successo la nostra avventura, intrapresa allo scopo di tenere in vita il ricordo degli sminatori immolatisi per consentire la rinascita della Nazione. E tra i tanti messaggi elogiativi ricevuti in quell’occasione, desidero qui citarne uno in particolare: quello del Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

«Caduti Bonifica Campi Minati.
A tutti i fratelli caduti nella bonifica dei campi minati il popolo italiano deve ammirazione e riconoscenza profonda. Il Monumento che in loro onore viene oggi inaugurato a Castel Bolognese varrà a consacrare per sempre, tra le generazioni a venire, la memoria di una epica impresa senza la quale le pagine della nostra ricostruzione e del progresso del nostro Paese non sarebbero mai state scritte. Il Presidente della Repubblica Italiana: [Firmato] Sandro Pertini».

La cronistoria del monumento è stata puntualmente restituita in una pubblicazione di cui è autrice l’architetto Maria Giulia Marziliano (2) https://ferrucci-marziliano.it/maria-giulia-marziliano/ che ha collaborato con me in tutte le diverse fasi, sia progettuali che esecutive. In questo suo libro è riportata anche la Relazione Tecnica di progetto, e pertanto in esso sono indicate le tecniche da adottare per la protezione delle superfici del monumento, e le azioni che all’epoca avevo indicato affinché fosse eseguita l’indispensabile, corretta – e continua – gestione manutentiva dell’opera.

Questa precisazione è doverosa, poiché su tale argomento sono stato ripetutamente interpellato con segnalazioni preoccupate e critiche verso una totale e inspiegabile assenza di manutenzione. Logicamente, nel corso degli anni l’incuria ha provocato un conseguente degrado del complesso celebrativo: un degrado rilevante che era già ben evidente venti anni fa, come si può percepire dalle immagini fotografiche pubblicate anche in https://ferrucci-marziliano.it/gallery/ e scattate in occasione delle celebrazioni promosse per il ventesimo anniversario del monumento.

Come alcuni di voi ricorderanno, nell’aprile 2004 infatti si è svolta la cerimonia celebrativa per il Ventennale con la presenza delle scolaresche cittadine portate al cospetto del complesso architettonico, dove si intonarono canti e si recitarono prose e poesie. In quell’occasione, l’amico Franco Gaglio ricordò agli astanti che il nostro monumento è stato ideato, progettato e costruito (decostruito) per conferire perpetuo ricordo agli sminatori, ossia a coloro «che dichiararono guerra alla guerra». Richiamando alla memoria collettiva il valore eroico di quegli uomini, il monumento intende rievocarne il ricordo affinché questo resti intatto e venga recepito dalle giovani generazioni. Con l’auspicio che le giovani generazioni ne sappiano trarre fonte di ispirazione per «sentimenti di amore, pace, rispetto e dovere verso tutti gli altri uomini».
Grazie per l’attenzione.

(1) Nato come superamento del Movimento Moderno in architettura, il Brutalismo è una tendenza culturale che sostiene uno stile ben riconoscibile: gli oggetti architettonici, privi di ornamenti, sono costruiti utilizzando il cemento lasciato visibile sulle superfici nude, senza aggiungere intonaco né rivestimento alcuno. Il termine deriva dal francese béton brut, ossia cemento grezzo, e intende porre attenzione particolare alla precisione geometrica e alla forza delle forme. L’architettura moderna, e in special modo la corrente architettonica del Brutalismo, ha fatto sempre più riferimento all’espressività del calcestruzzo lasciato “a vista”. Pertanto il concetto di Brutalismo si riconosce nelle scelte morfologiche e tecnologiche adottate, collegate a un particolare uso del cemento e delle sue superfici, mentre i criteri estetici – e il cosiddetto “brutto” e il cosiddetto “bello” – in questo caso sono considerate parole vuote, superate e del tutto prive di senso.
(2) M.G. Marziliano, deCostruire un Luogo dell’incontro e della memoria: il Monumento Nazionale ai Caduti per la Bonifica dei Campi Minati, Maggioli Editore, Rimini, 2007. Con il patrocinio di FSP – Fondazione Sandro Pertini; e con il patrocinio di ANGET – Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori d’Italia.

The post «deCostruire un Luogo dell’incontro e della memoria» appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/decostruire-un-luogo-dellincontro-e-della-memoria/feed/ 0
Ricordo di suor Lidia Zanchetta (1926-2018) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-lidia-zanchetta-1926-2018/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-lidia-zanchetta-1926-2018/#respond Fri, 26 Apr 2024 15:06:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11618 Suor Lidia ha raggiunto i cori angelici di Paolo Grandi (testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 7 luglio 2018) Suor Maria Lidia Zanchetta, monaca domenicana del Monastero della Santissima Trinità, ci ha lasciato per rivestire l’abito di sposa di Cristo il 27 giugno 2018 alla bella età …

The post Ricordo di suor Lidia Zanchetta (1926-2018) appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
Suor Lidia ha raggiunto i cori angelici

di Paolo Grandi
(testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 7 luglio 2018)

Suor Maria Lidia Zanchetta, monaca domenicana del Monastero della Santissima Trinità, ci ha lasciato per rivestire l’abito di sposa di Cristo il 27 giugno 2018 alla bella età di 92 anni da poco compiuti, il 22 maggio 2018, di cui 74 passati dentro le mura del nostro Monastero.
Era giunta dalla natia Castione di Loria nel 1944 alla vigilia della tragica sosta del fronte sul Senio e così fu costretta, assieme alle altre novizie, a riparare a Bagnara di Romagna fino alla fine del conflitto per poi riunirsi nell’amato Monastero alle consorelle.
Dotata di una bella voce di soprano leggero, aveva col canto annunciato la sua volontà di voler vivere in Monastero in una maniera alquanto originale, come ha raccontato nell’elogio funebre suo nipote, il domenicano padre Giacomo Milani. Una sera raccolse ragazze e “filarini” del paese sfidandoli in una gara di canto: lei fu la più brava e nel ringraziare annunciò cantando: domani vado in Monastero.
Quella bella voce non l’ha mai abbandonata fino alla malattia che l’ha costretta a letto per più di due anni. Tra i servizi svolti in Monastero c’era proprio quello di maestra del canto: canti che oramai non risuonano più tra quelle mura, forse troppo frettolosamente archiviati come “vecchi”; canti che ho ascoltato sempre uguali ma ogni volta diversi dalla sua voce e dall’organo suonato dalle mani di Suor Serafina, fin da bambino e che mi hanno accompagnato per decenni con le loro melodie antiche ma pur sempre gioiose e composte. Suor Lidia era talmente presa dal canto da seguire le note, libro in mano, con le movenze del corpo e del capo in un unicum inscindibile. Così come cantano gli uccellini, muovendo la piccola testina, così si muoveva suor Lidia tanto da guadagnarsi l’epiteto, da lei ben gradito, di Usignolo del Signore. Da lei ho imparato le melodie per i salmi, il preconio pasquale, il canto dei vespri e tanti canti che tuttora eseguo o conservo tra i miei ricordi.
Poi per tanto tempo suor Lidia ha avuto l’incarico di sacrestana e, come dice il vangelo: “lo zelo per la tua casa mi divora”. Pretendeva una liturgia corretta e precisa e proprio per questo, nelle occasioni principali in Monastero, come il Triduo Pasquale, San Domenico, la Santissima Trinità, voleva che noi chierichetti arrivassimo almeno mezz’ora prima, ci ritirassimo con lei nel parlatorio della Sacrestia e lì, messale alla mano, vi si leggevano e ci spiegava tutti i momenti più salienti della liturgia del giorno distribuendo compiti e mansioni. Il premio erano gli zuccherini e il vermut (annacquato!) a fine funzione.
Oltre poi al delicato compito di Maestra della Novizie, colei che scruta la vera vocazione delle postulanti, suor Lidia si era aperta anche alla collaborazione con la Parrocchia e generazioni di ragazze e ragazzi di San Petronio sono stati preparati da lei per ricevere la Prima Comunione.
Da oggi l’Usignolo del Signore, che ne ha cantato le lodi su questa terra per ben 92 anni, tacerà qui per sempre; è volato, desideroso dell’alito d’eternità, a cantare le stesse lodi, i medesimi canti, con le medesime movenze davanti a Dio nel grande, immenso Coro degli Angeli.

The post Ricordo di suor Lidia Zanchetta (1926-2018) appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-lidia-zanchetta-1926-2018/feed/ 0
Ricordo di suor Serafina Brazzalotto (1925-2024) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-serafina-brazzalotto-1925-2024/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-serafina-brazzalotto-1925-2024/#respond Thu, 11 Apr 2024 16:14:46 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11606 SUOR SERAFINA BRAZZALOTTO CI HA LASCIATI Era la decana delle Domenicane di Castel Bolognese di Paolo Grandi (testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 4 aprile 2024) È stata una Pasqua di Risurrezione anche per Suor Serafina Brazzalotto che dalla notte fra il 31 marzo ed il 1 …

The post Ricordo di suor Serafina Brazzalotto (1925-2024) appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
SUOR SERAFINA BRAZZALOTTO CI HA LASCIATI
Era la decana delle Domenicane di Castel Bolognese

di Paolo Grandi
(testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 4 aprile 2024)

È stata una Pasqua di Risurrezione anche per Suor Serafina Brazzalotto che dalla notte fra il 31 marzo ed il 1 aprile 2024 ci ha lasciato per partecipare alla gloria del suo Signore che ha pregato nel Monastero delle Domenicane di Castel Bolognese per quasi 82 anni.
L’avevo incontrata l’ultima volta assieme a mia moglie per lo scambio degli auguri di Natale e ci era apparsa ancora in buona forma, lucida e cordiale come sempre. Ed effettivamente era da un mese che aveva rinunciato a scendere in coro con le consorelle, anche la mattina per le Lodi, vinta dagli acciacchi della vecchiaia. Una monaca da primato, giunta quasi a 99 anni (li avrebbe compiuti a giugno) dei quali 81 e mezzo circa passati qui in questo amato Monastero. . Era arrivata a Castel Bolognese nell’ottobre del 1942 da Castione di Loria nel trevigiano e faceva parte di quell’affollato gruppo di monache giunte dal Veneto in quegli anni. All’interno del Monastero ha lavorato e svolto numerosi incarichi. Ha svolto il lavoro di magliaia anche perché si ricordava come operare con quelle macchine che erano molto simili a quella con la quale si era dedicata a quel lavoro con sua sorella, poi ha lavorato di cucito e, come altre consorelle, ebbe il privilegio di appuntare una stella dorata sul nuovo manto della Patrona di Castel Bolognese. Ha svolto l’incarico di maestra delle Novizie per tanti anni; ha accompagnato col suono dell’organo il canto delle Monache e dei fedeli per altrettanti anni, è stata Priora per nove anni.
E qui voglio lasciarmi trasportare dal ricordo di quando, fin da bambino, assieme alla zia Virginia frequentavo il Monastero, con suor Serafina all’organo e suor Lidia al canto che costituivano una coppia inscindibile per dar lode al Signore. Crescendo, sempre loro sono state le mie maestre del salmodiare e di tanti canti liturgici e sacri che di sicuro non si sentono più ma che tuttora porto nel cuore.
Tempo fa suor Serafina mi aveva offerto la sua testimonianza su don Garavini, benemerito sacerdote castellano, lei ultima monaca vivente ad averlo conosciuto e così lo ricordava fraternamente: “Con noi a volte era scontroso, irascibile, ma ciò nonostante lui ci ha sempre voluto bene ed ha sempre condiviso le nostre gioie e le nostre sofferenze; ci diceva: “Io vi sgrido sempre, vi strapazzo, ma vi voglio bene” e ci difendeva ovunque “Guai a chi dice male di voi!”.
Oggi, di fronte alla sua dipartita, resta quella risposta datami alla domanda un po’ forse scontata ma doverosa fattale per gli 80 anni di professione religiosa: “Ma in questo tempo mai un ripensamento sul bilancio della sua vita?” e la risposta, granitica, è stata “No, mai”. La sua fedeltà è senz’altro già stata premiata nell’Empireo del Paradiso e la voglio da ultimo ricordare con quell’immagine che ci ha lasciato nel documentario “Le custodi della Fede” dove la si vede camminare nel giardino, breviario in mano, accarezzata dal vento con la musica angelica del Canone di Pachelbel e immaginare in quel vento il soffio divino che l’ha condotta la notte scorsa direttamente dal suo Sposo e Signore.
Il funerale si è tenuto mercoledì 3 aprile 2024 alle 15 nella chiesa delle Monache Domenicane.

SUOR SERAFINA BRAZZALOTTO:
DA OTTANT’ANNI NEL MONASTERO DOMENICANO DI CASTEL BOLOGNESE
Il prossimo 15 ottobre compirà 80 anni di vita claustrale

di Paolo Grandi
(testo già pubblicato su Il Nuovo Diario Messaggero del 13 ottobre 2022)

Ha battuto tutti i traguardi raggiunti dalla compianta regina Elisabetta II; eppure non si tratta né di un Capo di Stato, né di una Nobile di sangue blu, ma di una piccola monaca domenicana del Monastero di Castel Bolognese: è suor Serafina (al secolo Imelda Brazzalotto), ha 97 anni e vive in questa comunità claustrale da ottant’anni. L’occasione era ghiotta per porgerle qualche domanda per due motivi: lei è una delle, ancora, poche testimoni del vecchio Castello prima delle distruzioni belliche; inoltre, assieme a suor Lidia, ora scomparsa, erano l’asse portante della musica nel Monastero: suor Serafina suonava e suor Lidia cantava con la sua voce armoniosa ed assieme sono state le mie maestre di canto salmodico. Con l’aiuto delle consorelle ed il benestare della Priora qualche giorno fa l’ho incontrata ancora ben in forma fisicamente, lucidissima e, vista la presenza del fotografo, l’amico Francesco Minarini, la sua prima attenzione è stata: “Ma è pari il velo? Non è storto vero perché altrimenti vengo male in fotografia”!
“Io vivevo a Castion di Loria, in provincia di Treviso, vicino a Castelfranco Veneto; i miei genitori erano contadini ma comunque gestivano un piccolo emporio in paese. La nostra casa era molto umida e forse per questo io ero arrivata sestogenita dopo cinque fratellini tutti morti in tenerissima età. Di fatto ero quindi la primogenita, ma la mia mamma, durante un sogno, aveva capito che io non ero stata generata per stare nel mondo. Dopo di me seguirono altre tre sorelle ed un fratellino. La mia sorella più prossima lavorava con la macchina per la maglieria ed aveva seguito un corso apposito a Treviso; così anche io oltre a dare una mano in bottega, la aiutavo a confezionare le maglie. Mia sorella poi si sarebbe sposata con un grande commerciante di stoffe di Treviso. Fu un momento triste per la famiglia quando subimmo un furto in negozio; questo atto sconsiderato ci mise in grande difficoltà.”
“Crescendo in età mi sentii attratta dalla vocazione; tuttavia in Veneto non esistevano Monasteri femminili, ma solo conventi ed io mi sentivo attratta piuttosto dalla vita contemplativa. Fu così che maturò la scelta di farmi monaca e di entrare nella famiglia domenicana, seppur così lontano da casa; i miei genitori mi lasciarono libera di scegliere. La scelta del Monastero di Castel Bolognese fu dovuta al fatto che una compaesana, suor Teresa Moro (che sarà Priora negli anni ’60 per lungo tempo ndr) era già qui ove l’accompagnò un frate domenicano capitato in Parrocchia per un ciclo di prediche che poi l’aiutò nel suo percorso vocazionale; la seguirono poi altre sue due sorelle ed una decina di ragazze della zona; fra queste una mia amica che poi divenne suor Michelina (per anni portinaia del Monastero ndr). Fu proprio in occasione della sua professione, nel maggio del 1942 che entrai per la prima volta nel Monastero di Castel Bolognese per provarne la vita e la regola monacale. Mi trovai bene e presi così la mia decisione.”
“Il 15 ottobre 1942 entrai definitivamente nel Monastero. Mi accompagnò in treno papà. Ricordo che nell’atrio, assieme a me, c’era un’altra ragazza, un po’ più anziana, pronta ad entrare, anch’ella accompagnata dal padre. Quando fu aperto il portone entrai non prima di aver salutato papà che era rimasto seduto nell’atrio, sulla panca, che mi ricambiava il saluto piangendo. Avevo diciassette anni. Prima di raggiungere il Monastero volli fare un giro per Castel Bolognese. Ricordo di essere passata sotto la torre civica, di aver attraversato la piazza, di aver visto una Via Emilia così scarsa di traffico!”
“Durante la sosta del fronte io fui sfollata a Bagnara di Romagna con le Consorelle più giovani; le più anziane rimasero qui a presidio e difesa del Monastero. A Bagnara fummo accolte in una casa da una signora la quale, pensando di ospitare monache amanti della solitudine, lige e poco socievoli ci accolse con una grande freddezza e con un piglio serissimo ed accigliato. Dopo che ci conobbe così tutte giovani, allegre, giocose ci disse: “non credo più a nessuno” e si pentì per averci trattato dapprima con grande distacco; anzi alla nostra partenza pianse di cuore. A Bagnara eravamo unite ma un po’ sole; il Vescovo ci aveva sciolto dalla clausura ma noi preferimmo restare assieme e fare vita appartata; molte volte ci assalì la paura perché anche nelle vicinanze di Bagnara si accanirono i bombardamenti e anche noi corremmo nei rifugi. Il nostro cruccio maggiore era però ricevere scarse notizie sulle consorelle rimaste a Castel Bolognese e sulle nostre famiglie in Veneto. Noi scrivevamo ma il servizio postale era per lo più paralizzato. Solo ogni tanto ricevevamo qualche biglietto da casa con solo scritto: stiamo bene.” Il che ci rincuorava.
“Arrivò la liberazione e noi tornammo tutte a Castel Bolognese a piedi da Bagnara, desiderose di riprendere la nostra vita di monache ma la sorpresa al nostro arrivo fu spaventosa: il Monastero era stato più volte colpito dai bombardamenti ed era in gran parte inagibile. Ci rimboccammo le maniche ed iniziammo una parziale ricostruzione; appena fu possibile attraversare il Po giunsero in bicicletta dalla pianura veneta i nostri parenti anche con viveri e beni di prima necessità; tra costoro c’era anche papà. A Castion di Loria avevano indetto una lotteria per raccogliere aiuti per noi! Alcuni, specie i parenti di madre Teresa Moro, rimasero qui anche qualche mese per aiutarci materialmente nella ricostruzione.”
“In questi anni dentro il Monastero ho lavorato e svolto numerosi incarichi. Ho lavorato come magliaia anche perché ricordavo come operare con quelle macchine che tanto erano simili a quella con la quale si era dedicata al lavoro mia sorella, ho lavorato di cucito e, come altre consorelle, ho avuto il privilegio di appuntare una stella dorata sul nuovo manto della Patrona di Castel Bolognese. Ho svolto l’incarico di maestra della Novizie per tanti anni; ho accompagnato col suono dell’organo il canto delle Monache e dei fedeli per altrettanti anni, sono stata Priora per nove anni.”
È giunta così anche l’ultima domanda, un po’ forse scontata ma doverosa: “Ma in questi ottant’anni mai un ripensamento sul bilancio della sua vita?” e la risposta, granitica, è stata “No, mai”. Auguriamo nella preghiera a suor Serafina ancora lunghi anni in salute, conservando quello spirito vivace e quella serenità che continuano a contraddistinguerla, certi che il traguardo che lei ha raggiunto è stato superato da poche monache sia dell’ordine domenicano che di altri ordini.

The post Ricordo di suor Serafina Brazzalotto (1925-2024) appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-suor-serafina-brazzalotto-1925-2024/feed/ 0
Ritorno in collegio… dopo oltre 50 anni https://www.castelbolognese.org/miscellanea/ritorno-in-collegio-dopo-oltre-50-anni/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/ritorno-in-collegio-dopo-oltre-50-anni/#comments Sat, 06 Apr 2024 14:01:26 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11574 di Andrea Soglia La mattina del 6 aprile 2024, grazie alla collaborazione dell’Istituto Comprensivo Carlo Bassi, del sindaco Luca Della Godenza e del presidente di ASP Romagna Faentina Massimo Caroli, una delegazione delle ultime “orfanelle” ha realizzato un piccolo grande desiderio: quello di visitare l’edificio che un tempo ospitava l’Orfanotrofio …

The post Ritorno in collegio… dopo oltre 50 anni appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Andrea Soglia

La mattina del 6 aprile 2024, grazie alla collaborazione dell’Istituto Comprensivo Carlo Bassi, del sindaco Luca Della Godenza e del presidente di ASP Romagna Faentina Massimo Caroli, una delegazione delle ultime “orfanelle” ha realizzato un piccolo grande desiderio: quello di visitare l’edificio che un tempo ospitava l’Orfanotrofio Ginnasi e che oggi ospita l’omonimo plesso scolastico.
Era un evento a lungo atteso, al punto che Gabriella non ha dormito la notte precedente e si è alzata prima dell’alba. Gentilmente invitati erano presenti Giuliana (che in quell’edificio aveva frequentato l’asilo infantile gestito dalle stesse suore del collegio) e Andrea, che scrive queste righe, che nel “Ginnasi” aveva frequentato le scuole elementari e dove, da quell’epoca, non era mai più entrato.
Già prima dell’ingresso dal lato posteriore dell’edificio, le orfanelle ricordavano cosa si vedeva dall’esterno. “Là c’era il pozzo”, “Quell’albero c’era già ai nostri tempi” e simili. Le orfanelle residenti fuori Castello sono rimaste anche molto sorprese dal quartiere spuntato dietro alla scuola, dove un tempo c’era il terreno agricolo delle Opere Pie.
Poi l’entrata nell’edificio, grazie alla preziosa collaborazione di una operatrice scolastica presente appositamente per l’occasione, dato che al Ginnasi c’è il “tempo pieno” e al sabato non si va a scuola, cosa che ha facilitato la lunga visita delle “orfanelle”.
Il tour è iniziato dal piano terra, e si è concentrato sulle ali laterali dove una volta c’erano la chiesa (lato Imola) e il refettorio (lato Faenza). Gli ambienti, naturalmente, sono stati rimaneggiati, e quindi alcune stanze rimpicciolite rispetto ad un tempo. Immutato il pavimento in graniglia… che le ragazze hanno riconosciuto. “Quanta segatura ci facevano usare per tenerlo sempre pulito e lucido!” hanno esclamato in tante. Nell’ex refettorio Beatrice ci ha indicato la finestra da cui scagliava fuori la terribile cicoria che veniva propinata a tavola “Rimaneva appesa all’albero per diverso tempo!” e poi, in un’altra stanza, anche il punto in cui le suore nascondevano i cibi prelibati che le orfanelle intercettavano non appena c’era via libera.
E’ seguita la visita al piano superiore, che ospitava la zona notte del collegio e il teatro. Le orfanelle hanno riconosciuto il corrimano di un tempo (naturalmente potenziato per la sicurezza dei bimbi), e l’immagine della Madonna col Bambino a metà delle scale. “In questa camera dormivo io!” ha detto Ileana, poi siamo finiti nel camerone, lato Imola, che ospitava il dormitorio più grande. E Gabriella ha ricordato la sera in cui furono sorprese dalla Superiora mentre ascoltavano il Festival di Sanremo con una radiolina entrata di soppiatto nel collegio, e scattò una punizione memorabile.
Immancabile una visita al piano interrato, quello maggiormente mutato nel tempo. “Qui c’erano le docce!” ha detto subito Ileana.
Poi l’uscita dall’ingresso lato via Emilia e la fotografia ricordo sulla scala principale dove si scattavano abitualmente le foto anche all’epoca del Collegio. E’ seguito un giro nell’ampio parco della scuola, e una seduta sul prato, anche questa per ricordare i vecchi tempi.
Prima dei saluti ci sono stati i calorosi ringraziamenti al Sindaco, al Presidente delle Opere Pie e all’operatrice scolastica.
Per tutte è stata una giornata memorabile da raccontare a parenti e amici. E con questo testo vogliamo fissare in modo più tangibile il ricordo.
Molte “orfanelle” hanno trattenuto a stento la commozione per aver rivisto, dopo oltre 50 anni, i luoghi della loro giovinezza.
Luoghi ricchi di ricordi vividi e forti, non sempre piacevoli, al centro di un’esperienza indimenticabile di vita.

The post Ritorno in collegio… dopo oltre 50 anni appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/miscellanea/ritorno-in-collegio-dopo-oltre-50-anni/feed/ 2
Primi piani: Angelo Biancini https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/primi-piani-angelo-biancini/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/primi-piani-angelo-biancini/#respond Thu, 28 Mar 2024 21:24:01 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11527 (introduzione) Vi proponiamo, con il consenso del figlio Cesare, un ritratto davvero particolare di Angelo Biancini, scritto sul Carlino da una penna illustre, quella di Roberto Gervaso, che era amico di Biancini sin dai tempi delle frequentazioni con Orio Vergani. E’ un ritratto di Biancini uomo in cui tanti castellani …

The post Primi piani: Angelo Biancini appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
(introduzione) Vi proponiamo, con il consenso del figlio Cesare, un ritratto davvero particolare di Angelo Biancini, scritto sul Carlino da una penna illustre, quella di Roberto Gervaso, che era amico di Biancini sin dai tempi delle frequentazioni con Orio Vergani. E’ un ritratto di Biancini uomo in cui tanti castellani ritroveranno il Biancini che ricordano ancora oggi. Gervaso naturalmente esagera ironicamente le abitudini di Anzulé e certe situazioni, che sono però tutte realmente accadute: chi non ricorda, infatti, il Biancini autostoppista e il suo inseparabile sigaro?
Arricchisce il testo, del 1974, una fotografia scattata da Giorgio Giovannini (per la quale ringraziamo Domenico Giovannini) durante la Pentecoste dello stesso anno che ritrae Biancini, davanti al Bar Commercio, in mezzo ai castellani. D’altronde, come scriveva Gervaso, Biancini “conosce tutti e tutti conoscono lui. A tutti dà del tu e tutti lo danno a lui”. Bellissima, infine, ci sembra l’immagine di Anzulé, talmente appassionato del suo lavoro, che “scolpisce anche quando dorme”. (A.S.)

di Roberto Gervaso
tratto da Il Resto del Carlino, giovedì 7 novembre 1974

Tempo fa, Angelo Biancini, meglio noto come Anzulé, fu invitato a commemorare Michelangelo. La cerimonia era stata fissata per le quattro del pomeriggio a Caprese, dove il Buonarroti nacque. Alle quattro meno un quarto tutte le autorità, con in testa Fanfani, erano già sul posto. Mancava solo Anzulé. Cosa gli era successo? Qualcuno avanzò l’ipotesi che l’auto su cui viaggiava fosse rimasta in panne. Altri il timore che si fosse dimenticato dell’appuntamento. Niente di tutto questo.
Dalla sua casa di Castel Bolognese, in quel di Imola, Angelo, memore dell’impegno pomeridiano, era partito all’alba, naturalmente in autostop, suo unico mezzo di locomozione. Ad Anghiari s’era fermato per mangiare un panino e bere un bicchiere di vino. Ma il panino era diventato una doppia porzione di riso e fagioli, una bistecca alla fiorentina per quattro, un’insalata mista per sei, una fetta di castagnaccio per otto, il tutto innaffiato da un paio di fiaschi di Chianti e alcuni grappini. Alla fine del pantagruelico pasto Anzulé fu assalito da una tale ceccagna che decise di farci su una dormita. Il trattore gli mise a disposizione un bugigattolo, adibito a ripostiglio, dove spiccava una sgangheratissima branda.
A quella vista, gli occhietti furbi e fanciulleschi di Biancini s’illuminarono come se, invece d’un traballante e bisunto giaciglio, gli fosse apparsa la Madonna di Lourdes o Sophia Loren. Non fece in tempo a sdraiarsi che le palpebre gli s’abbassarono e la bocca gli si aprì, anzi gli si spalancò. Quando, dopo tre ore si svegliò, per quanti sforzi facesse, non riusciva a capire dov’era e, soprattutto, perché si trovava in quel buio e polveroso anfratto. Si stropicciò gli occhi, accese un sigaro e, per una decina di minuti, restò lì, come imbambolato. Non era la prima volta — e non sarà nemmeno l’ultima — che gli capitavano simili infortuni.
Ripresa, finalmente, conoscenza, saltò giù dalla branda, infilò la porta, scese a precipizio le scale e, smoccolando, abbordò il primo mezzo diretto a Caprese. Arrivò a destinazione alle cinque accolto da un silenzio gelido e da sguardi riprovatori. Agitando con una mano il sombrero, che porta in tutte le stagioni e a tutte le latitudini, e con l’altra l’inseparabile toscano, Anzulé guadagnò di corsa la tribuna e si piantò davanti al microfono. Poiché nel viaggio aveva perduto gli appunti, dovette parlare a braccio. Non ricorda quel che disse, perché lo disse sotto i fumi dell’alcool, che non aveva ancora completamente smaltito. Ricorda solo che ebbe un gran successo, un mucchio d’applausi e il perdono generale.
Come avrebbero potuto negarglielo? Di Biancini non si può non essere amici. A Castel Bolognese, dove è nato e vive, è ormai un’istituzione. Anzi, un nume tutelare, un santo patrono. Conosce tutti e tutti conoscono lui. A tutti dà del tu e tutti lo danno a lui. Quando passa per le strade o attraversa la piazza, salutando a destra e a manca, lanciando occhiate nient’affatto furtive alle donne, fissando appuntamenti in questo o quel caffè per una partita a scopa o a tressette, commentando ad alta voce il goal di Riva o la volata di Gimondi, come se Riva o Gimondi fosse lui, lo diresti più un discendente del Passatore che un emulo di Michelangelo.
Il suo trombone è lo scalpello e non manca mai il bersaglio. Cominciò a maneggiarlo da ragazzo, per consolarsi di non poter lavorare nei campi o spignattare in cucina. Avrebbe, infatti, voluto fare il contadino, come il bisnonno, o il cuoco, come il nonno, famoso alla corte sabauda per i suoi tortellini e il suo pollo alla cacciatora. Da allora non l’ha più deposto. Lo tiene in tasca, come un talismano, fra banconote, santini, toscani e mille altre cianfrusaglie.
E’ un lavoratore caparbio e incontentabile. Gli allievi dell’Istituto di Ceramica di Faenza, questa Sorbona romagnola, di cui è direttore artistico, lo temono quasi quanto lo amano. Esigentissimo con sé stesso, non lo è meno coi discepoli. Quando sbagliano, le sue urla trafiggono le mura dell’Istituto investendo la vicina piazza. Chi non ne conosce la causa, potrebbe pensare che qualcuno, colto da improvvisa follia, stia consumando un delitto o uno stupro. E, invece, è Anzulé, fuori di sé per un’argilla cotta male o un bronzo mal cesellato. Ma le sue ire, per fortuna, sbollono subito. Dopo un paio d’ululati, conditi d’irriferibili moccoli, Anzulé diventa più affettuoso e compagnone di prima. L’unica cosa che non torna come prima è la glicemia, la quale sale a picco al di là d’ogni limite di guardia.
Se la porta addosso da una ventina d’anni come da una ventina d’anni, a giudicare almeno dallo sfrittellamento e dalla ciancicatezza, porta addosso il completo “bianco”, confezionatogli, dice lui, dal migliore sarto di Castel Bolognese, che, se s’intona col sombrero di paglia, fa a pugni con uno sbrindellatissimo maglioncino marrone e un paio di sandali frateschi, dal colore indefinibile. Quand’è stanco — e la sera, dopo dodici ore di bulino — è stanchissimo, si dimentica perfino di spogliarsi. Si corica vestito, con le mani ancora impastate d’argilla e il sigaro acceso, che la moglie gli spegne, appena s’addormenta.
La mattina s’alza alle quattro e mezzo e alle cinque è già fuori coi cani, un barboncino e un lupo, che personalmente accudisce e sfama. Vanno insieme a prendere il “Carlino”, poi si dirigono verso il parco o lo scalo ferroviario, a seconda della stagione. Letto il giornale, riporta i cani a casa e comincia l’antelucano pellegrinaggio ai vari bar del paese. Sosta in tutti, meno uno, gestito da una donna con la quale ha litigato. E in tutti beve un caffè, un grappino o un sangiovese. Con quali conseguenze per il diabete ve lo lascio immaginare. Se gli capita, fa anche una partitina a scopa ma, a quell’ora, è difficile che gli capiti.
Alle cinque e mezzo, con in bocca il terzo sigaro della giornata, si piazza ai bordi della via Emilia, in attesa che qualche automobilista gli dia uno strappo sino a Faenza. Una volta ci andava in bicicletta, ma da quando un camion di Foggia, carico di mozzarelle, per poco non lo travolse, preferisce l’autostop. Sale sulla prima macchina e in dieci minuti è a Faenza. Altri dieci li passa nel bar di fronte all’Istituto d’arte dove, fra un altro caffè e un altro grappino, fuma un altro sigaro: il quinto, perché il quarto l’ha fumato nel tragitto fra Castel Bolognese e Faenza.
Alle sei in punto varca la soglia della scuola e alle sei e cinque è già al lavoro. Si toglie la giacca, infila lo spolverino e, con piglio michelangiolesco, comincia a dar di scalpello. Per raddoppiare la foga, quasi che i grappini ingurgitati non gliene avessero infusa abbastanza, si mette a cantare a squarciagola l’”Aida” o il “Trovatore”, svegliando non solo i custodi della scuola, ma tutti i vicini. La glicemia nuovamente gli sale, ma lui non ci bada: vorrà dire che, invece d’una doppia porzione di tortellini, ne mangerà una e mezzo, invece di due fiaschi di trebbiano, s’accontenterà di uno. Alle nove comincia le lezioni. Alle nove e cinque leva le prime urla. A mezzogiorno riprende la via di casa, sempre in autostop, e dopo essersi sorbito un ennesimo grappino e fumato un ennesimo sigaro.
Alle tre è di nuovo all’Istituto, dove resta fino alle sette. Il tempo per sfornare un altro capolavoro, lanciare altre urla, fumarsi un’altra dozzina di sigari e, fra un urlo e un toscano, bersi un altro gotto di sangiovese o di trebbiano. Quando, finalmente, dopo una cena, che lui definisce frugale perché di pasta e fagioli ne mangia solo un piatto e di vino ne beve solo un fiasco, si corica, la glicemia ha allegramente doppiato il livello di guardia. Un altro, al suo posto, sarebbe già in pieno coma diabetico. Biancini no. Lui è fra le braccia di Morfeo, e russa così fragorosamente che la moglie, i vicini e persino il pappagallo e i cani non riescono ad addormentarsi.
I suoi sogni sono invariabilmente ambientati in una vecchia trattoria, in questo o quel bar, nelle aule dell’Accademia. Sì, perchè Anzulé scolpisce anche quando dorme. La sua passione per il bronzo, l’argilla, il bulino non l’abbandona mai. Ce l’ha nel sangue e ce l’ha così prepotente che nemmeno la glicemia riesce a domarla, o anche solo a smorzarla. Lui il diabete lo combatte — e lo vince — senza medicine. Un buon colpo di scalpello, e quelli di Biancini sono infallibili, gli fa meglio di cento dosi d’insulina.
Quanti ne dia, ogni giorno — e ogni notte — non so. Quel che so è che le sue opere — ceramiche e bronzi — hanno fatto, e fanno, il giro del mondo; che non c’è collezionista, degno di questo nome, che non ne possieda almeno una; che la galleria d’arte moderna del Vaticano ne trabocca; che il Papa gli ha affidato, e gli affida, commissioni su commissioni (il monumento a San Tommaso d’ Aquino l’ha fatto lui).
Se Anzulé fosse nato al tempo del Vasari, un posto di proscenio nelle Vite non gliel’avrebbe tolto nessuno. Ma, forse, è meglio che sia nato in questo secolo. Come avremmo altrimenti potuto fare la sua conoscenza, godere i suoi capolavori e udire, passeggiando per Faenza, le sue urla e i suoi “do” di petto?

The post Primi piani: Angelo Biancini appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/primi-piani-angelo-biancini/feed/ 0
La cavalcata di Sant’Antonio https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-cavalcata-di-santantonio/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-cavalcata-di-santantonio/#respond Mon, 25 Mar 2024 17:45:19 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11524 di Giovanni Bagnaresi tratto da: Valdilamone, n. 4, 1929 Fino a non molti anni or sono, la prima domenica di febbraio, aveva luogo in Castelbolognese una caratteristica festa in onore di Sant’Antonio, fatta a cura e spesa dei mercanti, congregati appunto sotto il titolo del Santo Abate, la quale si …

The post La cavalcata di Sant’Antonio appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Giovanni Bagnaresi
tratto da: Valdilamone, n. 4, 1929

Fino a non molti anni or sono, la prima domenica di febbraio, aveva luogo in Castelbolognese una caratteristica festa in onore di Sant’Antonio, fatta a cura e spesa dei mercanti, congregati appunto sotto il titolo del Santo Abate, la quale si chiamava “la cavalarêia d’sant’Antonî”, ossia la cavalcala di Sant’Antonio.
Già all’alba del martedì precedente, si annunziava la festa con un un rumoroso sparo di mortaretti, cui rispondevano dall’alto, suonando a distesa, le campane dell’Arcipretale e della Torre.
La domenica poi, chiunque possedeva un cavallo vi saliva sopra, usando al posto della sella un’ampia coperta, legata con una cinghia al dorso dell’animale. Si radunavano così più di cento cavalli, tutti sfarzosamente bardati, con la testa ornata di pennacchi, di fettucce, di coccarde dai più svariati colori.
Ad ognuno dei cavalieri il Priore regalava una brazadêla (ciambelletta) da due baiocchi, e vino da bere a volontà; si formava quindi il cavalleresco corteo con a capo il Priore fra due compagni, che si avviava verso la Porta del Canale.
Precedevano due trombettieri, che di tratto in tratto davano fiato alle trombe; venivano poi due giovinetti in sembianza di angeli, con le debite ali agli omeri, e vestiti in maglia color carne, con le calze di seta e i guanti dello stesso colore, i capelli lunghi e inanellati cadenti sopra un manto azzurro, un elmo piumato in testa, e una torcia in mano.
Fra l’ammirazione del numerose pubblico passavano i graziosi angioletti cavalcando bianchi cavalli, ed avevano alle staffe due conducenti, che li proteggevano da ogni pericolo di terrena caduta.
Prendeva parte al corteo anche l’asinello dei frati Cappuccini, coperto da un grande tappeto rosso.
Dalla Porta del Canale, la cavalcata piegava alla Porta del Borgo, dove ognuno riceveva ancora in dono una bracciatella; e attraversata la Piazza Maggiore, andava a fermarsi nel sagrato davanti la Chiesa di S. Petronio.
L’Arciprete don Paolo Camerini, che resse il vicariato dal 1778 al 1810 e che compilò una specie di diario, dal quale ho preso in parte queste notizie, aggiunge:
” …ed io, come Arciprete, con cotta e stola, dopo ricevuta l’oblazione delle torce, benedicevo tutta questa gente e cavalli, che passavano dinnanzi a me dopo che avevano avuto il pane benedetto.
Passati tutti facevano altri giri andando alla casa dei compagni, che dovevano anche loro dare da bevere.
Finiti i giri accompagnavano il Priore alla propria casa, il quale poi veniva in Chiesa con i compagni e gli angeli ad assistere al panegirico.
I giovani poi, in molti, si mettevano a correre coi cavalli da una Porta all’altra ed anche sino in Borgo e andavano così delle mezze ore. Avevano questi giovani molto più popolo spettatore, che concorreva dai paesi vicini allo spettacolo, che non il panegirista…”.
Era questa di S. Antonio una delle feste più care alla popolazione non solo di Castelbolognese, ma anche delle campagne e paesi vicini, da cui accorreva sempre grande folla, e molti coi loro cavalli si univano a prendere parte alla cavalcata.
Il paese si preparava ad accogliere degnamente i numerosi forestieri: le osterie avevano le frasche nuove d’insegna su la porta e all’angolo della via: le salsamentarie mostravano la ricchezza dei salami tra foglie di lauro; i fornai erano affaccendati a cuocere pane e quei bracciatelli biscottati a croce, che sono tanto gustosi a mangiarsi con due fette di roba di maiale e un buon bicchiere di vino.
Per tutta la giornata si correva, si gridava, si cantava, e soprattutto si andava alla casa del Priore, dove si beveva e beveva ottimo vino, pagandolo con entusiastiche grida di evviva al Priore, al vicepriore, e anche a S. Antonio abate.
E verso sera, quando le teste erano riscaldate, non era raro il caso, di vedere l’apparire dentro ad un pubblico esercizio un cavallo con il rispettivo cavaliere…
La tradizionale festa si spense con l’anno 1865, chi dice a motivo di una mascherata che si introdusse per ischerno nella cavalcata, chi allega ragioni economiche e commerciali per le mutate condizioni dei tempi, chi altro.
Sic transit!

The post La cavalcata di Sant’Antonio appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-cavalcata-di-santantonio/feed/ 0
E prè dla Filipèna https://www.castelbolognese.org/miscellanea/e-pre-dla-filipena/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/e-pre-dla-filipena/#respond Tue, 19 Mar 2024 19:23:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11503 (introduzione) “Togliamo” dal cassetto anche l’ultimo scritto, datato 2014, che Lodovico Santandrea (Aldvigh d’i Marièna) ci aveva inviato per la pubblicazione sul sito. Protagonista del racconto è un luogo a tutti noi caro, il prato della Filippina, che prende nome dall’omonimo podere che un tempo esisteva in zona, fuori dalle …

The post E prè dla Filipèna appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
(introduzione) “Togliamo” dal cassetto anche l’ultimo scritto, datato 2014, che Lodovico Santandrea (Aldvigh d’i Marièna) ci aveva inviato per la pubblicazione sul sito. Protagonista del racconto è un luogo a tutti noi caro, il prato della Filippina, che prende nome dall’omonimo podere che un tempo esisteva in zona, fuori dalle mura di viale Roma. Il prato che, negli anni ’10, vide nascere il glorioso Castel Bolognese Football Club e le gesta del “mitico” Tullio Bolognini, poi perito nella Grande Guerra. E in quel prato anche la generazione di Lodovico ha trascorso lietissimi pomeriggi a giocare a pallone, con porte e regole molto improvvisate e partite affollatissime. I guai succedevano quando il pallone finiva fuori campo, dentro le proprietà che si affacciavano sulla fossa, e se c’era il Tachinazz in agguato palla e giocatore addetto al recupero erano sequestrati!
Le ragazze, ovviamente, stavano alla larga, tranne una: Cleofe, omonima dell’indimenticabile commerciante, che giocava in gonnella facendo dei passi cortissimi. E che dire di Taio? Giocava scalzo, ed era un fenomeno… ma, Sansone al contrario, appena gli misero le scarpe da calcio perse tutta la sua abilità.
Poi vennero altri divertimenti, specialmente per le generazioni successive, e il prato progressivamente si svuotò, ma sarebbe bello se oggi ritornasse ancora una volta a vedere i ragazzini giocare a pallone.
La chiosa è nostalgica… nella fantasia, volta al passato, riecheggia ancora il “mo pasa donca!” quando Lodovico e Paolo passano vicino al prato mentre il pensiero, volto al futuro, va all’ultimo viaggio…
Grazie, Lodovico, per averci fatto rivivere le atmosfere del Castello d’un tempo! (A.S.)

Chl’elza la mà quel ed nò ch’un ha mai dè du chilz in t’e palò in t’e prè dla Filipèna.
L’era e camp spurtiv d’tot i basterd d’Castèl e a zughé us cminzeva poch dop a mezdé quand che quii ch’i andeva a lavuré i turneva a cà, i magneva cun e pidariòl e pù i era pront par la partida.
I dù purtìr is divideva a bim bum bam e i dlizeva un zugadòr pr’ò, pù i cunteva sett pess e i faseva i pél dla porta, a sgonda dla stasò e dl’ureri, cun capòt, scierp, brètt, cartèll dla scola. Sicom parò un gn’era la traversa l’era e purtìr che ciameva “alto”: mé quand ch’a zugheva tott i tir piò elt d’mezz meter ch’a n’i ciapeva a rugieva “alto”.
Man a mà cl’ariveva d’iter zugadùr i munteva so un grand cun un grand e un pzné cun un pzné e la tatica l’era: tè t’chilz in là e tè in là e quand che e prè l’era pi d’zugadùr us n’avdeva quendg o vent tott atoren a e palò.
Inciò parò l’ha mai avù e curagi d’fè l’arbitro e acsé l’é stè piò fazil avdé un rigor contra la Juve d’Moggi che in t’e prè dla Filipèna.
Quand che e palò l’andeva fura vers a la fosa, se fineva in t’e zardé de Maistrò l’era periculos andèl a tò parchè se ut ciapeva e Tachinazz e sequestrava zugadòr e pala, e alora quand c’ui era d’andé a recuperò e palò in dù, tri i sguiceva stram a la siv eh’un i foss inciò e e piò svelt, via che cavaleva la rè e, s’l’era furtuné, e turneva cun la pala.
Se invezi e palò l’andeva in tl’ort dla mi cà, pr’andèl a recuperè us pisteva insalé, bsell, pundor, pistinega e acsé se in zir ui era mi zei Pirì, che cminzeva a mutlé, inciò l’aveva e curag d’andé d’là, mo se invezi ui era mi pè t’avdév che scusèva la testa, e feva un suris e pù e turneva in curtìl.
Alé pù us impareva nenca dal nuvité, come ch’e dopmezdé che e Campaner, arvulzendes a Franco Biffi, ui cmandé: “Bollo, sai cos’è un bocchino?”. Mé sobit a m’incuriusé e a m’avsiné par sintì la spiegaziò parché avdeva che Franco un aveva capì gnanca lò; quand parò la spiegaziò l’arivé: “E’ una pugnetta fatta con la bocca” mè a cuntinué a nò capì, parò a fò cuntent parché da la faza avdé che gnanch Bollo l’aveva capì.
D’i zugadùr ch’i è stè particuler a m’arcord Minarini che chilzeva semper vers a la cà dla Pananèna stènd a mà stanca e insté e inveren l’aveva un gilé zall ch’us cnuseva da luntà. Pù ui era Cleofe, l’onica dona cl’a s’azardèss a meter pì in t’e pré e quand cl’a zugheva l’aveva una stanèla streta ci’a fasèva di pastì curt curt. Nicodemo invezi, cl’aveva semper i ucell, e zugheva schelz e e chilzeva sol ed ponta cun dal sasé che s’ut ciapeva ut’arbuteva, mo la pala l’an andeva mai dov cl’avreva lò. Mo quél cl’ha fat epoca l’è sté Taio: nenca lò e zugheva schelz, mo cun e palò tra i pi l’era un fenomèn parchè ui scarteva tott, tant che us pinseva che dvintèss un campiò, sol che quand i i mité al scherp da palò e dvinté un zugadòr come tott ch’iter.
Quèll ch’an ho mai capì l’è parché in t’e pré us zughèss tott i dé fura che la dmenga, quand che quii ch’i lavureva e quii ch’i andeva a scola i era tott a cà.
La dmenga dopmezdé invezi ui era i zugadùr dal pall ch’i zugheva dnenz a la cà di Piulé e me ai aveva zuré ch’an avrebb mai zughé al pall parché avdeva che prema d’tiré is spudeva in tal mà e s’i fumeva e zigher i aveva una saliva negra chl’era un schiv.
La nostra generaziò l’è steda l’ultma a zughé in t’e pré dla Filipèna, parché dop a i è cminzé a mudernizes e i divertiment i è carsù, par furtona parché us è prinzipié a sté mei.
Adèss quand che cun Pevel andègna a fé quela che mè a ciameva la spasigieda d’i pinsiunè, quand a pasegna da e pré s’asreva i occ um pareva d’avdel incora pì e d’sintì cl’arciam che in t’un dopmezdé us dgeva sintì mèll volt: mo pasa donca!
E l’è par quest che quando che srà e mument a voi pasé da lé par l’ultma volta pr’avdé incora una volta e mi curtìl e la mi cà e pù, chisà, che quand a so dacant a e pré un um veia voia d’salté zò par dè incora du chilz in t’e palò.

Aldvigh d’i Marièna
Ventzecv d’Abril d’e quatorg

The post E prè dla Filipèna appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/miscellanea/e-pre-dla-filipena/feed/ 0
10 marzo 1944: 80 anni fa il primo bombardamento di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/10-marzo-1944-80-anni-fa-il-primo-bombardamento-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/10-marzo-1944-80-anni-fa-il-primo-bombardamento-di-castel-bolognese/#respond Wed, 13 Mar 2024 19:27:21 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11498 di Paolo Grandi Fino all’autunno del 1943 la guerra, che pur infuriava da più di tre anni, rimase lontano da Castel Bolognese. Quell’8 settembre nel quale gli altoparlanti e la radio annunciarono l’armistizio diede alla popolazione la speranza in una prossima fine del conflitto; ma il peggio per l’Italia tutta …

The post 10 marzo 1944: 80 anni fa il primo bombardamento di Castel Bolognese appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Paolo Grandi

Fino all’autunno del 1943 la guerra, che pur infuriava da più di tre anni, rimase lontano da Castel Bolognese. Quell’8 settembre nel quale gli altoparlanti e la radio annunciarono l’armistizio diede alla popolazione la speranza in una prossima fine del conflitto; ma il peggio per l’Italia tutta doveva ancora arrivare e quella gioia durò quanto un fuoco di paglia.
Anche a Castel Bolognese negli anni della guerra uomini e donne avevano donato le “fedi” di matrimonio per l’oro alla Patria poi gli oggetti di rame per uso domestico; infine nel maggio del 1943 toccò alle campane delle chiese che furono requisite per fonderne il bronzo a favore dell’industria bellica.
Proprio in quel settembre 1943 dal nord Italia scesero molti soldati tedeschi che si impossessarono delle città ed anche Castel Bolognese. Qui, racconta Maria Landi: arrivarono un’automobile ed una motocicletta con alcuni ufficiali i quali diedero le consegne e condizioni al Podestà, ai Carabinieri, al personale della ferrovia. Era la prima volta che gli elmetti germanici apparivano tra di noi e poco a poco occuparono ogni spazio ed ogni casa.
Fu imposto il coprifuoco, cosicché la Messa di Natale fu celebrata in un San Petronio semibuio alle diciassette del 24 dicembre, seppur animata dai soldati tedeschi che cantarono Stille Nacht, fra le reminiscenze del “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti. Ma il nuovo anno era carico di venti di guerra.
Il 14 febbraio 1944, poco dopo le ore 13, preceduto dal passaggio di un nugolo di aeroplani anglo-americani, si udì un formidabile scoppio che terrorizzò tutta la popolazione. Per sfuggire alla caccia tedesca essi liberarono nove bombe che caddero e scoppiarono in mezzo ai campi presso la località “La Selva” in comune di Imola, poco oltre la Torretta, senza apportare danni all’infuori di qualche vetro frantumato.
Ma il 10 marzo, come ricorda don Antonio Garavini nella cronaca parrocchiale (1), Castel Bolognese ebbe il suo battesimo del fuoco: la sera verso le 22.20 si udì uno scoppio che fece tremare tutti i vetri e dopo dieci minuti un altro più forte e più prossimo. Il primo era avvenuto nella vicina stazione ferroviaria di Faenza, il secondo nel nostro Borgo, quest’ultimo fortunatamente senza vittime. Un autocarro che stazionava nel Borgo coi fari accesi fu mitragliato da un aereo alleato; il bersaglio fallì perché il camion restò illeso ma i proiettili caddero sopra le ultime case del Viale dei Cappuccini abitate tutte da operai. Le schegge si conficcarono nei muri e si sparsero un po’ dovunque. L’unico danno un po’ sensibile, oltre una buona dose di spavento, fu la caduta di alcune pietre dentro la stanza del giovane barbiere Peppino Roda, degente a letto da parecchi mesi per il mal di cuore. Esse caddero proprio vicino al letto, senza minimamente toccarlo. Da quella notte le poche luci pubbliche schermate furono spente, e il buio più completo regnò in tutto la città.
Pochi giorni dopo, il 22 marzo e per la prima volta, verso le 14,30 suonò l’allarme anche a Castel Bolognese mediante la campana maggiore dell’Arcipretale, salvatasi dalla requisizione. Poco dopo, proveniente da est, passò in più ondate a quota altissima una fitta formazione di apparecchi anglo – americani in direzione ovest, valutata tra i 200 ed i 400 velivoli. Si accese sul cielo della città una lotta tra un apparecchio alleato ed un caccia tedesco che ebbe la peggio, fu abbattuto e precipitò in aperta campagna presso il monte della Giovannina vicino a Campiano. Il pilota si salvò col paracadute, andando a finire alla Serra. La popolazione, terrorizzata, in parte fuggì in aperta campagna, altra si rifugiò nei sotterranei. I negozi rimasero chiusi per più ore e rari passanti si videro per le strade. Poi, allontanatisi gli apparecchi, come se fossero a poca distanza, rintronarono i colpi delle bombe, scuotendo fragorosamente le vetrate e perfino il suolo. Sulle 17 vi fu il ritorno della formazione aerea che attraversò il cielo senza conseguenze, così la popolazione con un senso di sollievo ma sempre in preda a un certo panico tornò alle case e alle proprie occupazioni. Di lì a poco il campanone di San Petronio a distesa diede il segnale del cessato allarme.

(1) In realtà nella cronaca parrocchiale, probabilmente scritta qualche tempo dopo nel marasma che stava travolgendo il paese, don Garavini data il primo bombardamento all’11 marzo 1944. La vera data è il 10, come riporta Il Piccolo del 19 marzo che descrive la parte dell’episodio avvenuta a Faenza:
Faenza subisce la prima incursione aerea.
Circa le ore 22,15 di venerdì 10 corrente un aereo nemico [sic!] sorvolando la stazione ferroviaria lasciava cadere una bomba sul deposito macchine colpendo una locomotiva in pressione che scoppiava di schianto. Si sono avuti danni materiali, crollo di parte del fabbricato e del muro di cinta di fronte alla strada di San Silvestro e rottura di vetri e porte in stabili prospicienti e retrostanti la stazione stessa. Soprattutto si sono avuti a lamentare otto feriti e tre morti nelle persone dei ferrovieri Calderoni Domenico, Cecotti Armando e Maraci Enrico. Alle rimpiante vittime del dovere la cittadinanza, raccogliendo l’invito fattole con pubblico manifesto dal Commissario Prefettizio, ha tributato funerali imponentissimi”.
Domenico Calderoni è sepolto nel cimitero di Castel Bolognese. Nativo di Ravenna, risultava residente a Bologna ma, probabilmente, era domiciliato a Castel Bolognese
(nota a cura di Andrea Soglia)

The post 10 marzo 1944: 80 anni fa il primo bombardamento di Castel Bolognese appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/10-marzo-1944-80-anni-fa-il-primo-bombardamento-di-castel-bolognese/feed/ 0
Toponomastica musicale castellana https://www.castelbolognese.org/miscellanea/toponomastica-musicale-castellana/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/toponomastica-musicale-castellana/#respond Sun, 10 Mar 2024 14:14:27 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11478 (introduzione) Vi proponiamo questo testo di Oddo Diversi, molto probabilmente inedito, da lui letto nel settembre del 1975 in una iniziativa pubblica della quale, al momento, non abbiamo dettagli. Tempo fa ne ritrovammo una fotocopia, tratta dal dattiloscritto originale, nei meandri della biblioteca comunale. Ce ne eravamo dimenticati di averlo …

The post Toponomastica musicale castellana appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
(introduzione) Vi proponiamo questo testo di Oddo Diversi, molto probabilmente inedito, da lui letto nel settembre del 1975 in una iniziativa pubblica della quale, al momento, non abbiamo dettagli. Tempo fa ne ritrovammo una fotocopia, tratta dal dattiloscritto originale, nei meandri della biblioteca comunale. Ce ne eravamo dimenticati di averlo riprodotto, e nel dubbio che possa essere andato perso nel marasma del maggio 2023, lo pubblichiamo sul sito per maggiormente tutelarlo. Lo troviamo gustosissimo e lo abbiamo arricchito di fotografie storiche per meglio illustrare l’originale passeggiata, a tempo di valzer, nel vecchio Castello. Non abbiamo tagliato la parte finale, nella quale si auspicava la nascita della scuola di musica. Oggi, per fortuna, abbiamo attiva una buona scuola di musica e, seppur ancora lontani dai vecchi fasti, Castel Bolognese può vantare nuovi giovani musicisti con un promettente futuro (A.S.)

E’ nota la tradizione musicale di Castelbolognese. Nell’agosto del 1857 fa avvertita la necessità di un maestro per la direzione e l’insegnamento musicali e da allora, fino al 1940, il paese fu un vivaio di musicisti. Già a quell’epoca, LIVERANI DOMENICO (1805-1876) si affermava fra i migliori clarinettisti italiani. Fu insegnante al liceo musicale di Pesaro, compose studi per clarinetto, fu concertista.
Notizie della vecchia banda si possono rintracciare nel pur ridotto archivio comunale, attraverso le sedute del consiglio. Erano domande di contributi per il funzionamento della banda, per l’acquisto di istrumenti, per la copiatura di partiture. Una prima indagine la abbiamo compilata anche per rilevare particolari fra il musicista e la sua posizione sociale. Le ricerche ci hanno detto che a Castelbolognese la musica era una prerogativa delle classi operaie, artigiane e piccole borghesi e non di quelle nobili.
I nomi più illustri dei musicisti castellani sono usciti da famiglie artigiane e povere: I “Carspèn” (Borzatta), i “Tugnez” (Massari), i Budini, Bacchilega, Bolognini, Bagnaresi…
Ma noi vogliamo fare una ricognizione fra questi cultori della musica per trovare fra loro anche dei musicisti, cioè dei compositori, nati disgraziatamente in un periodo sfortunato che non dava la possibilità, come oggi. di fare i milioni senza conoscere (spesso) la grammatica musicale.
Il maestro Domenico De Giovanni, per le sue composizione per istrumenti a plettro ebbe lusinghiere affermazioni. Chi non ricorda “La Palermitana”? E quante furono le altre creazioni del De Giovanni? I ballabili non si contano, le marce, due messe per grande orchestra, due operette, ecc.
Le sue musiche venivano pubblicate ne “Il Concerto” giornale che si pubblicava a Bologna (1906) e nel giornale “Il mandolino” di Torino (1911). Nel nostro ricordo è rimasta “Una preghiera” di un sentimento religioso commovente e ritenuta dallo stesso autore una delle sue migliori composizioni.
E il De Giovanni fu seguito anche da altri castellani. Il più modesto “LA VERNIA” aveva il suo motivo che ripeteva nel tempi di valzer, mazurca, polca. Poi altri hanno lasciato dei loro componimenti: Borghesi (Gianola), violinista della famiglia di “PITUR”; “GIGIULON” violinista; BERTACCINI, violinista e chitarrista, con quel magnifico valzer “10 novembre”, che fin dalla breve introduzione manifesta un particolare sentimento e un motivo pregno di ispirazione; Chichì Borzatta, con valzer, polche e perfino tanghi; “GIGI’ d’Caibanèn (e Bèl Pulac) con ballabili e marce funebri.
I musicisti castellani odierni hanno dato a noi il motivo di rilevare una curiosa particolarità. Il primo a dare il via, a quella che si può chiamare TOPONOMASTICA MUSICALE CASTELLANA è GIGIOLA BACCHILEGA, violinista. Si presenta con un valzer da un motivo che seduce subito iniziando una melodia che sviluppa con suggestive terze, che intitola “E CUNVINTAZ”. Chi non ricorda questo originale e appartato angolo del vecchio castello, a ridosso della trecentesca rocca? E Gigiola con questo titolo ha iniziato la panoramica musicale castellana.
L’ispirazione l’ebbe ancora giovane, quando andava a conversare con le ragazze della contrada e fremeva dal desiderio di esprimere il suo ardente sentimento per la MARIA d’MACHI’, una mora alta, snella, con uno sguardo che incendiava l’animo del giovane violinista.
“E CUNVINTAZ” abbiamo detto, fu il primo dei ballabili della toponomastica, poi, venne tutto Castello, quello dei primi lustri del 1900.
Sono tutti valzer di “JUSAFEN d’GAITANEN d’CARSPEN” professore di tromba. Leggiamo alcuni titoli:
“E PRE DE BSDEL” Il prato dei nostri anni infantili, con la fossa, il canaletto dell’acqua che derivava dal canale, il torrione, le mura che costeggiavano la cuntrè di contrabandì (Via Borghesi), e l’ospedale con gl’imponenti fitoni posti a guardia del monumentale pronao dello architetto Antolini.
“AL MASS DE STABI” poste vicino al macello, lungo il canale, dove venivano ammucchiati i rifiuti urbani del paese raccolti dal vecchio spazzino “CAGLIA” e dal “MUCHI'” con la mula comunale. AL MASS DE STABI era il gabinetto preferito dai facchini e da molti operai che, a quei tempi, preferivano defecare con il culo al vento ed i maron pendenti.
“LA CIUS” sul fiume Senio, meta di nostre giovanili scorribande a di bagni estivi nella fresca acqua proveniente dalle sorgenti della Sambuga e dai cento ruscelli della vallata del Senio.
“E ZTMITIRI VECC” modesto, senza le sfarzose tombe nobiliari che offendono oggi chi muore in povertà, e sepolto nella madre terra. All’inizio della strada Ghinotta, il suo cancello arrugginito custodiva i castellani dipartiti. Da tempo è stato incorporato nell’orto del convento dei frati e, in quella terra grassa, nascono orgogliosi e verdi ortaggi.
“Al TRE STRE” sulla Via Emilia, a ponente. Portavano, quella a destra, a Bagnara; quelle a sinistra, una alla strada Rinfosco, l’altra alle ridenti e verdi colline della Serra, dove allora il solenne silenzio della natura era rotto solo dal muggire delle bianche vacche e dei possenti buoi, dalle campane della chiesa o dal canto dei galli e degli uccelli.
“‘DA ‘DRI’ DA S. PETROGNI” Via Morini, l’abside della parrocchiale, con il fico del cortile che superava il basso muro; la fontana con la pompa a mano, il ricordo di una vecchia osteria, ritrovo di focosi mazziniani ed anarchici.
“E CURTIL DI FRE” In piazza, chiuso dal palazzo Mengoni. Il nome gli proveniva dall’ex convento dei frati sciolto all’inizio dell’800 con la calata di Napoleone in Italia: un liberatore, come tanti, con una ventata di idee nuove e una rapacità che portò oltr’alpe i migliori capolavori dall’arte italiana.
“E PORTICH DE SUFRAGI” distrutto dalla guerra, con la chiesa posta all’ombra dell’antica torre, emblema nostalgico dei vecchi castellani.
“E VULTON D’BADON” che univa il portico a valle della Via Emilia al convento delle suore domenicane di clausura. Un sestetto di vespasiani era una comodità per gli abituali bevitori. Si riempivano da Zvanen e, appena saturi coma una spugna, uscivano ad orinare. E spesso, lo scarico otturato, conservava l’orina schiumosa come quella dai somari.
“E TURION DLA PUNCINA” ad angolo, sulla fossa a levante, con via Biancini e Via Borghesi. Abitazione della famiglia da “I PUNCI'”, Maria, Minghina e Tugnì. Tre tipiche figure passate nell’al di là.
“E CURTILAZ” Vi si entrava dal Borgo Carducci, da un voltone che si apriva vicino alla bottega d’Bas-cianì de Gob (costruttore di botti e di casse funebri) e l’osteria Zanelli. La stradina sboccava nel prato dalla Filippina.
“E PRE D’LA FILIPENA” Il primo campo di calcio. Palestra all’aperto di tutti i ragazzi castellani. Qui si svolsero le prime ormai storiche partite del sodalizio calcistico nostrano, che nacque quando i cugini Tullio ed Alfredo Bolognini portarono a Castello il primo pallone.
Nell’anteguerra vi si svolgeva il più importante mercato di bestiame della Romagna. Il mercato cadeva nella festività di Pentecoste; buoi bardati a festa, mucche e borelle magnifiche; cavalli e muli da tiro di razza e maiali da ingrasso superbi. Il terreno è un lascito della vecchia famiglia castellana Sangiorgi e il Comune non può assolutamente alienarlo o modificarne lo stato attuale.
“E TEATER VEC” sorgeva a valle dal Corso Garibaldi, dove ora vi sono gli immobili di Fabbri Mondino, l’ex allenatore della squadra nazionale di caldo e capro espiatorio della mafia sportiva supernazionale per la sconfitta coreana. In quello che era chiamato il vecchio teatro vi abitava il facchino della stazione PIRON d’MAREA, tipica ed originale figura e TRUNCHI’ altro stravagante e tipico castellano.
“E FOREN D’GNAZI” Era nel torrione del piazzale della pesa pubblica. I ruderi del torrione danno alla zona un tono particolare. GNAZI, noi della banda lo ricordiamo bene: basso, tondo come del resto era l’Argia sua moglie. Suonava il quartino in mi bemolle.
“L’USTAREA DLA MARCHINA” era in Via Gottarelli; titolare era la Sina. Abitualmente il duo Celso (Petroncini) violoncello e e Piguron (Bagnaresi) clarino, si esibivano con valzer e ballabili nostrani.
E se volessimo seguire ancora i titoli di IUSAFEN, non finiremmo mai perché ha tirato fuori perfino “LA BUTEGA DLA PUTANAZZA, LA PlAZETA D’RAVAlOL”, ecc., ecc., tutti valzer, forse perchè la vita non è che un breve giro di valzer.
Quest’anno, come gli anni scorsi, noi ci troviamo qui uniti per l’amore e la passione che noi nutriamo per la musica. Se ricordate, nella grammatica musicale era scritto: “la musica è l’arte che ingentilisce l’animo”. Oggi purtroppo allo scatenarsi di un rock e al fracasso di certe orchestre si direbbe che certa musica imbestialisce l’uomo.
Noi invece pensiamo che la musica possa anche essere una terapia per certi stati d’animo ed anche per certe malattie, come del reato sembra affermato da alcuni valenti studiosi, ragione per cui restiamo fedeli ed appassionati cultori della più sublime e spirituali delle arti.
Il nostro desiderio sarebbe quello di veder risorgere a Castelbolognese una scuola di musica ed un corpo musicale onde indirizzare i giovani verso una carriera che faccia godere il piacere che solo i Beethoven, i Mozart, Chopin, Paganini, Ravel, Wagner, Verdi, Puccini e tutti i grandi musicisti, sanno infondere nell’animo umano.
E con questo diciamo di ritrovarci l’anno prossimo, possibilmente in numero maggiore.

o. d.
settembre 1975

The post Toponomastica musicale castellana appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/miscellanea/toponomastica-musicale-castellana/feed/ 0
Le zitelle alla dote: una tradizione veliterna risalente ai tempi del card. Domenico Ginnasi https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/le-zitelle-alla-dote-una-tradizione-veliterna-risalente-ai-tempi-del-card-domenico-ginnasi/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/le-zitelle-alla-dote-una-tradizione-veliterna-risalente-ai-tempi-del-card-domenico-ginnasi/#respond Sun, 03 Mar 2024 15:25:51 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11463 di Paolo Grandi A Velletri, il cardinale Domenico Ginnasi, nella Cappella oggi dedicata al Sacro Cuore di Gesù in Cattedrale, nel 1638 fondò la Confraternita del Suffragio, che estraeva quattro doti l’anno il 12 Marzo, giorno della festa di San Gregorio mandando le ragazze in processione a Pentecoste, mentre la …

The post Le zitelle alla dote: una tradizione veliterna risalente ai tempi del card. Domenico Ginnasi appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Paolo Grandi

A Velletri, il cardinale Domenico Ginnasi, nella Cappella oggi dedicata al Sacro Cuore di Gesù in Cattedrale, nel 1638 fondò la Confraternita del Suffragio, che estraeva quattro doti l’anno il 12 Marzo, giorno della festa di San Gregorio mandando le ragazze in processione a Pentecoste, mentre la Confraternita della Pietà a Santa Maria in Trivio estraeva doti mandando in processione le ragazze alla Madonna in Via Lata, fuori le mura della città. Anche l’ Arciconfraternita di Maria SS.ma del Gonfalone estraeva un numero imprecisato di doti, questo fino a quando non dovette usare quei fondi per ricostruire la chiesa crollata per un terremoto, riprendendo poi ad estrarre doti almeno fino agli anni venti del novecento. Ma il più importante benefattore delle ragazze povere a Velletri, fu Salvatore Scandelloni, Canonico del Capitolo della Cattedrale, che lasciando legati nel suo testamento 7.500 istituì il più cospicuo sussidio dotale in città, un altro benefattore fu Nicola Antonio Gregni con i suoi 60 scudi lasciati in deposito al Sacro Monte di Pietà Ginnasi istituì due doti l’anno da estrarre a turno dalle parrocchie cittadine.
Naturalmente per avere questi benefici bisognava eccellere nel catechismo e partecipare alla processione del SS.mo Salvatore che fino al 1954 si svolgeva la sera del 14 Agosto fino a Santa Maria in Trivio e la mattina seguente si riportava l’antica icona in Cattedrale.
Le ragazze risultate vincitrici delle doti ricevevano in date stabilite la “polizza” che mettevano in una borsa di tela bianca che portavano in processione legata ad un fianco, il loro vestito, candido, era realizzato con la stoffa che veniva consegnata loro all’atto dell’assegnazione del beneficio. Tali distribuzioni sono andate avanti sino alla seconda guerra mondiale.
Nel 1989 alcuni cultori di storia veliterna pensarono di riscoprire questa importante pagina di storia cittadina, fondando il gruppo in costume “Le zitelle Velletrane” e così ricostruendo le vicende delle doti, dalla rievocazione storica della candidatura alla dote, fino alla partecipazione alla Processione della Madonna della Carità ogni 2 settembre. Dal 2006 il gruppo ha ricevuto in dono un prezioso medaglione con l’effige della Madonna delle Grazie, realizzato dallo scultore Giuseppe Cherubini nel bicentenario del patrocinio della Vergine sulla città. Il medaglione viene indossato nelle processioni dalla Priora, cioè quella ragazza che convolerà a nozze entro l’anno.
Le Zitelle alla dote, oggi non indossano più quella candida veste, ma dei preziosi costumi fedelmente replicati sulla scorta delle stampe e delle incisioni giunte fino a noi dal XIX secolo. Questi preziosi abiti sono stati realizzati con la consulenza iconografica e storica del Prof. Clemente Marigliani dalla costumista Marina Sciarelli e rappresentano il più grande patrimonio del gruppo che si definisce appunto di costume.
Il 24 Febbraio scorso si è svolto il primo degli appuntamenti legati alla rievocazione storica della Zitella alla Dote 2024, che non è solo una pura rievocazione storica: ad essa è legata una vera propria somma in denaro che ogni anno viene erogata. In quella serata sono state aperte le candidature e le ragazze hanno potuto porre il memoriale nel quale, esprimendo la loro volontà di candidarsi, hanno dichiarato di avere tutti i requisiti necessari: la fede cattolica, essere nubili e di avere un’età tra i 18 e i 30 anni. Il prossimo 15 marzo l’urna sarà sigillata e successivamente una Commissione all’uopo nominata secondo il regolamento approvato all’epoca della rievocazione provvederà all’esame delle candidature, a stabilire il numero delle doti da estrarre in base alle risultanze dei memoriali determinando anche la somma per ogni una di esse, riservandosi anche di non assegnarne qualora il numero delle candidate fosse esiguo o non si ravvisi la sussistenza dei requisiti richiesti. Dopodiché la Commissione formerà “i bollettini”, praticamente bigliettini col nome delle candidate, che introdurrà nella bussola per l’estrazione. Il 25 marzo la Commissione procederà all’estrazione pubblica della Zitella 2024. Alla Zitella estratta in una seconda occasione pubblica verrà affidato uno degli abiti storici di Velletri che dovrà indossare nella processione della Madonna delle Grazie (4 Maggio 2024) e nella processione della Madonna della Carità (7 Settembre 2024) e negli eventi a cui il gruppo può essere invitato durante l’anno. La Zitella potrà continuare ad indossare l’abito storico che resterà proprietà del gruppo di costume qualora desideri restare a far parte dello stesso. La Zitella, una volta assolti gli impegni richiesti dal regolamento riceverà poi la dote mediante una cerimonia pubblica in luogo ora e data ancora da stabilire.
È bello pensare che dietro a questa bella iniziativa vi sia un po’ di Castel Bolognese, grazie all’attività benefica del cardinale Domenico Ginnasi.
Infine, nella Cattedrale di Velletri, oltre alla Cappella del sacro Cuore, già descritta in altra parte, è pure conservato il busto di San Clemente papa ordinato sempre dal card. Ginnasi e realizzato da Giuliano Finelli (Carrara 1602 – Roma 1653) allievo del Bernini, nel quale possiamo riconoscere le fattezze dello stesso cardinale. Purtroppo con i bombardamenti della seconda guerra mondiale è andata distrutta la Cappella Ginnasi, sempre in Cattedrale, affrescata da Caterina.

Si ringrazia la Fondazione Museo Luigi Magni e Lucia Misirola per le fotografie

 

The post Le zitelle alla dote: una tradizione veliterna risalente ai tempi del card. Domenico Ginnasi appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/le-zitelle-alla-dote-una-tradizione-veliterna-risalente-ai-tempi-del-card-domenico-ginnasi/feed/ 0