La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/ Sun, 07 Sep 2025 13:43:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.2 Un antico angolo del mio paese che non esiste più https://www.castelbolognese.org/miscellanea/un-antico-angolo-del-mio-paese-che-non-esiste-piu/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/un-antico-angolo-del-mio-paese-che-non-esiste-piu/#respond Sun, 07 Sep 2025 13:43:14 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12708 (introduzione) Vi riproponiamo un testo di Amabilia Cambiucci, uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato su La Torre del maggio 1988. In esso rivive il palazzo Sangiorgi, poi d’Bassò, che sorgeva di fronte all’attuale caserma dei carabinieri e che fu demolito nel dicembre del 1968. Purtroppo negli anni ’60 furono abbattuti …

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(introduzione) Vi riproponiamo un testo di Amabilia Cambiucci, uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato su La Torre del maggio 1988. In esso rivive il palazzo Sangiorgi, poi d’Bassò, che sorgeva di fronte all’attuale caserma dei carabinieri e che fu demolito nel dicembre del 1968. Purtroppo negli anni ’60 furono abbattuti diversi vecchi edifici, di certo fatiscenti ma forse non irrecuperabili, per sostituirli con nuovi tutt’altro che apprezzabili dal punto di vista architettonico. Illustrano il testo due fotografie che scattò Elio Bambi il 14 ottobre 1968 poco tempo prima della demolizione: dobbiamo ringraziarlo per avere fotografato questo ed altri angoli del paese ora scomparsi. Il bel testo della maestra Cambiucci viene ulteriormente valorizzato. Notevoli anche le altre descrizioni: la ferrovia per Riolo, la Via Cupa e la sosta del venditore ambulante Bòcia (Sante Garofani senior). (Andrea Soglia)

di Amabilia Cambiucci

Nel settembre del 1921, dopo la morte di mio padre, io e la mamma, ormai completamente sole, lasciammo per sempre la nostra amata Serra per trasferirci a Castelbolognese capoluogo in una nuova sede scolastica da me richiesta. Fu un distacco doloroso. Non lasciavo lassù persone che mi fossero particolarmente care, poiché anche la nonna era morta, ma per me si chiudeva per sempre il mondo meraviglioso della mia infanzia e della prima giovinezza.
Da quella bella scuola, ridente sull’aprico colle, era stato un continuo fluire d’amore, di bontà, di sogni, creando intorno a me un mondo di grande gioia. Là la natura mi era apparsa in tutta la sua bellezza ed avevo imparato ad amarla. Mi procuravano un piacere tutto interiore gli sconfinati orizzonti, i tramonti infuocati, le albe rugiadose, le sognanti notti di luna; ma ancora più doloroso per me era lasciare tanta buona gente pura, semplice, laboriosa, che mi voleva bene. Molto avevo imparato da loro: forse più di quello che io avevo insegnato. Non più feste dell’aia, al chiaro di luna, non più profumo di vendemmie, non più canti di fanciulle col sole negli occhi. Abbandonavo un mondo antico di cui avrei conservato sempre un nostalgico ricordo.
A Castelbolognese ci sistemammo in un antico palazzo che sorgeva un po’ isolato, sulla Via Emilia, appena si entrava in paese. Un tempo era appartenuto alla famiglia Sangiorgi facoltosa, nota e stimata. A Francesco Sangiorgi che tenne l’incarico di Sindaco nei primi anni di questo secolo è oggi dedicata una via. Alcuni particolari architettonici e la vastità dell’edificio facevano pensare infatti a un passato di maggior gloria, ma quando andammo ad abitarvi noi la proprietà era passata a un agricoltore Luigi Bassi (Luig d’Bassò) che vi si era stabilito con la propria famiglia, trascurando di fare restauri. Così quell’antica costruzione dava l’immagine di un grande vecchio con ancora qualche presunzione di nobiltà che non serviva però a nascondere l’inevitabile decadenza. Il posto ci piacque perché sorgeva quasi in aperta campagna. Inoltre faceva parte della proprietà un poderetto che si stendeva a mezzogiorno del palazzo padronale. La piccola aia popolata di polli era separata dal nostro cortile appena da un basso muretto e da un cancello. Così ci accorgemmo con gioia che ancora giungevano fino a noi voci di altri tempi, di altri luoghi difficili da dimenticare. Vi sono dei momenti di sofferenza nella vita in cui si ricercano affannosamente anche le cose più semplici se queste possono diradare le ombre e dare un po’ di luce. Così avvenne di alcuni tigli che fiancheggiavano a mezzogiorno il nostro appartamento. Anche quella fu una scoperta che ci fece piacere perché i rami più alti quasi ci entravano in casa per la finestra aperta e ci davano l’illusione della campagna che non potevamo dimenticare.
Di vetusto si ammirava ancora sulla facciata del palazzo un balconcino riparato da una ringhiera di ferro. Artisticamente non aveva pregi particolari, ma a me piaceva moltissimo. Si affacciava sulla Via Emilia e si godeva quel poco di traffico che vi si svolgeva a quei tempi. Faceva parte del nostro appartamento e vi portai i gerani, ricordo della Serra. Dovetti però toglierli quasi subito perché la povere proveniente dalla via, non asfaltata, ne impediva lo sviluppo.
Non trovammo nella nuova abitazione comodità maggiori di quelle che avevamo in campagna ad eccezione della luce elettrica di cui sentimmo veramente il grande beneficio. L’acqua occorreva attingerla da un pozzo a carrucola e portare i secchi su per due rampe di scale. Quando finalmente si giungeva in casa molta era andata perduta lungo il tragitto. Spesso era un diffondersi ovunque di cattivi odori provenienti specialmente dai gabinetti senza acqua. A volte due famiglie ne avevano uno solo in comune; ma nessuno reclamava, nessuno si stupiva. Non si ponevano i problemi di igiene di oggi e se qualcuno ne sorgeva non c’era nessuno che si curasse di risolverlo. Era una società ancora apatica, incolore che poi trovò la forza di risorgere creando un’era nuova di cui oggi le nuove generazioni godono i benefici.
Come tutti i fabbricati antichi anche il nostro aveva una grande cantina sotterranea, dai muri scuri, massicci, trasudanti umidità. Vi si accedeva per mezzo di una stretta scaletta dai gradini consunti e in certi punti sconnessi e pericolanti. Pareva di entrare nel lugubre carcere di un castello medioevale. Vi spirava un’aria di altre epoche quando nel furore della battaglia, asserragliarvisi voleva dire difesa sicura dal nemico incalzante.
I solai alti, sotto il tetto, costituivano il regno delle rondini. Che grande chiacchierio a primavera in cerca dei vecchi nidi! Dalle piccole finestre si godeva un panorama vastissimo. Chiudeva l’orizzonte la catena azzurra dell’Appennino, poi un degradare di verdi e soleggiate colline e infine l’immenso piano che pareva non avere confini. Lassù si tenevano la legna, il carbone e quelle belle “rotelle” di vinaccia pressata che era un combustibile ottimo per la stufa. Diffondeva un odore caratteristico, più tollerabile di quello del carbone e la sua brace durava a lungo. Si adoperava specialmente per scaldare i letti durante l’inverno col “prete”, un trabiccolo di legno che serviva a tener sollevate le coperte e sotto la “suora” cioè un piccolo braciere dove andava lentamente consumandosi il combustibile. Il perché di quei due vocaboli così poco appropriati non saprei dirlo … chissà che origini avevano!? … Noi sentimmo la mancanza del grande focolare dei Gottarelli, nostri vicini di casa alla Serra, dove ogni sera andavamo a veglia. Era un mondo semplice, pieno di pura intimità, di amicizia sincera. Al tepore di quella fiamma guizzante si consolidavano antichi affetti familiari, si ravvivavano lontani ricordi.
Il palazzo d’Bassò non affiancava direttamente la Via Emilia, ma lo separava da quella un fossato abbastanza profondo, nel nostro dialetto si chiamava la veia cova “la via cupa” tradotto in italiano; quindi davanti al portone principale dell’edificio c’era un ponticello protetto da un rustico parapetto di pietra sul quale ci si poteva anche sedere. Nella “via cupa” finivano molti rifiuti gettati dalle finestre e altri ne giungevano dalla via. Quando le piogge erano abbondanti si formava un torrentello limaccioso dove galleggiava una flotta di barattoli vuoti. In primavera il fondo si copriva d’erba dove si annidavano parecchi insetti e altri animalucci. Le zanzare avevano là il loro quartier generale. L’antica “via cupa” (più cupa di così!) non era solo un nostro retaggio. Da noi forse giungeva dalla Via Casolana, destinata probabilmente a raccogliere le acque piovane dei primi declivi. Dopo averci deliziato dei suoi malefici influssi proseguiva, costeggiando altre abitazioni: quindi altri ponticelli. Giungeva così aperta fino alla locanda Zanelli. A quel punto scompariva sotto il vecchio portico e in direzione della chiesuola, sempre così nascosta, attraversava la Via Emilia. Ma il suo viaggio non era compiuto, continuava ancora aperta, profonda, erbosa. Costeggiava per un tratto un podere che allora si chiamava “La Foss” e infine, dopo aver ceduto un passaggio al viale della stazione, si dirigeva verso il Canale.
Quei ponticelli erano caratteristici! Durante le lunghe serate estive si trasformavano in luoghi d’incontro, di ritrovo. Le famiglie uscivano alla spicciolata, si sedevano sui parapetti e le conversazioni erano sempre nutrite e interessanti. Si passavano in rassegna tutti gli avvenimenti del paese, aggiungendo di proprio le critiche e i commenti non sempre benevoli. Il momento più saliente era l’arrivo di “Boccia” col suo carretto della verdura. Ne nasceva un dialogare vivace, allegro, a volte un po’ discusso. Anche quello era un punto d’incontro e a volte anche di distensione.
La vicinanza di una strada tanto importante non preoccupava molto. I bambini vi giocavano con le palline, le mamme li sorvegliavano dalle finestre. La vita trascorreva così monotona, opaca, senza scosse in attesa di tempi migliori.
A quel tempo esisteva la ferrovia “Val Senio” che collegava Castelbolognese a Riolo dei Bagni. Quel tronco ferroviario era stato costruito nel 1914. Insistentemente richiesto dai riolesi che desideravano in tal modo accrescere l’importanza del loro stabilimento termale e facilitare l’afflusso dei forestieri provenienti quasi tutti dal basso ferrarese. Ma la sua attività ebbe breve durata: cessò nel 1933 perché risultò che rappresentava un passivo per la società che lo gestiva e fu sostituito da una corriera. Fra le stazioni di partenza e di arrivo faceva tre fermate: Via Emilia, Campiano, Cuffiano. La stazioncina di Via Emilia sorgeva proprio di fronte a noi. Era un trenino molto ridotto: pareva un fanciullo a cui fosse mancata la possibilità di crescere. Arrivava a velocità modesta, si fermava per qualche istante e proseguiva la sua corsa dopo aver lanciato un fischio che ridestava l’eco della vallata.
Scompariva poi fra il verde dei campi, col suo presuntuoso pennacchio di fumo. Il suo passaggio metteva una nota allegra in quel piccolo angolo dove abitavamo: era un richiamo alla vita.
Che cosa rimane ora di quel lontano passato? Solo il ricordo. Gli avvenimenti bellici, il poderoso cammino compiuto dal progresso hanno creato un mondo nuovo, più bello, ma forse meno saggio. Oggi dove c’era il vecchio palazzo d’Bassò circondato dai campi sorge una selva di nuovi edifici. Tutto è avvenuto in gran fretta. Si aveva appena il tempo di fissare un’immagine che subito ne subentrava un’altra nuova. L’attività umana non dava tregua e mirava alla perfezione.
Noi anziani amiamo ricordare il passato perché costituisce parte della nostra esistenza: la più bella e ci dà un senso d’orgoglio la sincera convinzione di aver contribuito a questo colossale risveglio con la nostra operosità silenziosa ma tenace.

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Alberto Cervelli, una vita fra macchine da cucire, radioamatori, camper e volontariato https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/alberto-cervelli-una-vita-fra-macchine-da-cucire-radioamatori-camper-e-volontariato/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/alberto-cervelli-una-vita-fra-macchine-da-cucire-radioamatori-camper-e-volontariato/#respond Tue, 26 Aug 2025 18:50:42 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12672 di Andrea Soglia Il 25 agosto 2025 è mancato Alberto Cervelli. Io lo conoscevo di vista da sempre e negli ultimi anni, complice anche l’amicizia su Facebook, avevo parlato con lui diverse volte in piazza e anche su Messenger, dove mi aveva raccontato diverse cose della sua vita castellana e …

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di Andrea Soglia

Il 25 agosto 2025 è mancato Alberto Cervelli. Io lo conoscevo di vista da sempre e negli ultimi anni, complice anche l’amicizia su Facebook, avevo parlato con lui diverse volte in piazza e anche su Messenger, dove mi aveva raccontato diverse cose della sua vita castellana e delle sue varie appartenenze ad associazioni di volontariato e non. Sono andato a rileggere quello che mi aveva scritto, mi è sembrato molto significativo e mi sembra doveroso metterlo assieme: mi sono reso conto che forse voleva che raccontassi la sua storia.
Alberto era nato a Forlì nel 1938, città dove aveva sposato, nel 1961, Valentina Laghi. Risiedeva a Castel Bolognese dal 1964, quando trovò lavoro nel Calzaturificio Universum in veste di meccanico addetto alle macchine da cucire. Era in grado di aggiustare le macchine da cucire sin da ragazzino, tant’è che, come raccontò al sito Forlitoday, nel 1957 entrò alle dipendenze del Calzaturificio Trento, più noto come la Fabbrica dei Fratelli Battistini: “Sapevo riparare le macchine da cucire, e sapevo che in fabbrica c’era bisogno di un meccanico per le macchine, perché faceva tutto il capo officina. Così con un piccolo stratagemma sono riuscito a farmi conoscere dal capo officina, che si chiamava Arturo”.
Quando venne ad abitare a Castel Bolognese, trovò casa a Biancanigo e Don Rino Cattani lo fece Priore assieme a Serafino Montanari e in questa veste partecipò per due anni al carro di Pentecoste di quella parrocchia: erano i primissimi anni della Sagra che tutti noi oggi conosciamo e amiamo.
Alberto è stato un radioamatore con tanto di patentino. Aveva conosciuto vari cultori castellani del C.B., fra cui Walter Bagnaresi (Ghersi) e Carlo Cortecchia, suo collega all’Universum dove faceva l’elettricista. Altri aneddoti li lasciamo alle sue parole: “Il mio nominativo era Mercurio. In quel periodo c’erano molti “cultori” del C. B. poi io detti l’esame, nel 1990, per il patentino di Radioamatore, acquistai una radio professionale, un’antenna di 14 metri direttiva che Giannino Ravaglia, famoso radioamatore e riparatore di radio e tv, mi montò sul tetto e iniziai a fare collegamenti a lunga distanza (Canada, dopo mezzanotte per non disturbare le tv, visto la potenza (300 watt) che avevo a disposizione). Poi andai a finire nella Protezione civile di Ravenna come operatore radio col tesserino della Prefettura. Poi un fulmine, durante un temporale, mi bruciò il motore dell’antenna e due radio e smisi di trasmettere in lunga distanza. Io porto ancora i segni della scuola da radioamatore. Una sera mi fecero uno scherzo alzando al massimo la portante che appena accesi il cicalino (mi ero assentato per andare in bagno) del tasto morse, il suono mi rovinò l’udito dell’orecchio destro. Ero bravo nell’alfabeto morse, trasmettevo e ricevevo 80 lettere al minuto e rimase sorpreso anche il professore all’esame”.
Quando a Castel Bolognese era attivissima la lotta antigrandine condotta da Giovanni Collina (Vuina) che dal suo podere sparava i razzi antigrandine, Alberto si mise a collaborare con lui e quando c’era un temporale gli andava incontro per vedere se grandinava, in modo di allertare per tempo i lanci dei razzi.
Alberto è rimasto all’Universum fino al 1973 per andare a lavorare a Bologna fino alla pensione nel 1994. Neanche il tempo di rendersene conto che partì subito una nuova avventura: quella di autista alla Misericordia. Gli inizi li aveva raccontati lui stesso a tutti i suoi amici su Facebook: “Una mattina di inizio Novembre del 1994, incontrai un amico, Carlo Zaniboni, che mi chiese cosa facessi in giro per Castello a quell’ora (erano le 9,00). Gli risposi che ero andato in banca e fra una chiacchiera e l’altra gli dissi che ero andato in pensione. “Allora vieni con noi alla Misericordia, abbiamo bisogno di autisti” mi disse Carlo. Sono andato in sede e mi sono iscritto ed ho iniziato il giorno dopo col primo servizio.” E il volontariato come autista è durato fino al 2010 quando, con molto rammarico, lasciò l’incarico a causa della salute declinante.
Nel 1988 Cervelli diventò anche camperista e nel 1994, assieme a Marchi e Ragazzini, fondò gli “Amici camperisti castellani”, associazione che guidò fino al 2011.
E proprio durante uno dei suoi tanti giri in camper, una decina di anni fa, si recò a Balsorano, un piccolo comune in provincia de L’Aquila, per un bellissimo gesto che mi aveva raccontato in piazza e di cui aveva parlato anche su Facebook, pubblicando una foto che lo ritraeva da bambino con un grande vaso sullo sfondo. “Quell’anfora che si vede alle mie spalle – scriveva Alberto commentando la fotografia – era stata regalata a mia madre l’anno prima della mia nascita; l’abbiamo tenuta noi fino a qualche anno fa; poi l’abbiamo portata alla scuola di ceramica di Faenza e qui abbiamo saputo che era stata fatta da uno studente di Balsorano che aveva frequentato quella scuola nel lontano 1932. Abbiamo fatto delle ricerche e abbiamo appurato che lo studente aveva fatto il soldato ed era deceduto in Kenia; era anche stato decorato con la medaglia al valore. Abbiamo quindi deciso che questa anfora doveva ritornare al paese nativo di questo eroe e così è stato. In una bella cerimonia, alla presenza delle autorità di Balsorano e dei parenti, questa anfora l’abbiamo consegnata ed ora è presente in una bacheca del Comune“.
Del bel gesto fu data notizia sui giornali abruzzesi, con una fotografia che ritraeva Alberto, la sua adorata moglie Valentina (la cui scomparsa l’aveva notevolmente rattristato) e l’allora sindaca Francesca Siciliani. L’artista si chiamava Torquato Baldassarre, era nato nel 1908 ed è sepolto a Nairobi, accanto alla salma del Duca d’Aosta.
Negli ultimi anni Cervelli si era dedicato anche al traforo del legno, facendo tanti bei lavoretti di cui faceva omaggio agli amici e partecipando, per diverse edizioni, alla mostra castellana dei presepi. E non mancavano i restauri di antiche macchine da cucire, il suo primo amore che non aveva mai dimenticato anche dopo il pensionamento.
Nel fare le condoglianze alla figlia Chiara, alleghiamo al ricordo di Alberto alcune immagini che aveva pubblicato sul suo profilo Facebook, aperto a tutti.

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1974: Ugo Tognazzi alle Cupole “calvo come Yul Brynner alle prese con il liscio” con Gino barbiere e il Memo https://www.castelbolognese.org/miscellanea/1974-ugo-tognazzi-alle-cupole-calvo-come-yul-brynner-alle-prese-con-il-liscio-con-gino-barbiere-e-il-memo/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/1974-ugo-tognazzi-alle-cupole-calvo-come-yul-brynner-alle-prese-con-il-liscio-con-gino-barbiere-e-il-memo/#respond Thu, 14 Aug 2025 15:43:20 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12651 di Andrea Soglia Il 15 agosto del 2025 ricorre il 50° anniversario dell’uscita del film “Amici miei”, nel quale uno dei principali protagonisti è il grande Ugo Tognazzi. Il film fu girato nel 1974, proprio nello stesso anno in cui veniva ultimato, per uscire nelle sale cinematografiche il 13 aprile …

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di Andrea Soglia

Il 15 agosto del 2025 ricorre il 50° anniversario dell’uscita del film “Amici miei”, nel quale uno dei principali protagonisti è il grande Ugo Tognazzi. Il film fu girato nel 1974, proprio nello stesso anno in cui veniva ultimato, per uscire nelle sale cinematografiche il 13 aprile 1974, il film “Permettete signora che ami vostra figlia?” con protagonista sempre Tognazzi. Diretto da Gian Luigi Polidoro, il film contiene diverse scene girate nel Teatro Goldoni di Bagnacavallo, mentre parte delle scene in esterni furono girate a Faenza e nelle Valli di Comacchio.
Tognazzi interpreta il capocomico di una scalcagnata compagnia teatrale che passa di fiasco in fiasco, finché il protagonista decide di mettere in scena un dramma da lui scritto basato sulla storia d’amore fra Benito Mussolini e Clara Petacci. Col passare del tempo, il capocomico si identifica talmente tanto nel personaggio del dittatore da interpretarlo anche nella vita privata.
A differenza di “Amici miei”, “Permettete signora…” non ebbe una grande accoglienza. Nel film, dovendo interpretare Mussolini, Tognazzi recitava completamente calvo.
E così si presentò in varie sere di inizio febbraio 1974 alle “Cupole” di Castel Bolognese, dove, fra una richiesta di autografi e l’altra e tanti flash di fotografi, Tognazzi rilasciò qualche dichiarazione al Carlino, pubblicata il 13 febbraio successivo, in un articolo intitolato “Calvo come Yul Brinner alle prese con il liscio”. Trattenendosi a bordo pista, dichiarò di essersi cimentato in qualche “liscio” nelle sere precedenti, apprezzando lo spirito del locale: “E’ bello venire qui, soprattutto è piacevole e comodo. Questi locali, di cui non ho trovato esempi in altri luoghi, danno la possibilità a tante persone di riunirsi, di sentirsi veramente in compagnia, di divertirsi. Qui si perde il senso del night club tradizionale che trovo assurdo frequentare perché ci si sente isolati, chiusi da un’atmosfera anonima”. Non mancò un riferimento alla cucina regionale: “Essere qui in Romagna per uno come me a cui piace stare a tavola, la considero una specie di verifica, o meglio di conferma”.
La presenza di Tognazzi alle Cupole non sfuggì ai ballerini castellani, fra cui Gino Pini ed Enzo Gentilini (Memo) che approfittarono per farsi scattare alcune fotografie con lui ed altri attori, fra cui Felice Andreasi. Gino Pini le ha salvate dall’alluvione e ce le ha gentilmente fatte copiare. Gino ci ha detto che Tognazzi doveva fare poca fatica a recitare, gli veniva spontaneo perché era così anche nella vita di tutti i giorni. Gino, come si nota dalle foto, fece omaggio (graditissimo) di una bottiglia di sangiovese al grande attore, in quel tempo giunto al suo massimo splendore.

Siti web consultati: https://it.wikipedia.org/wiki/Permettete_signora_che_ami_vostra_figlia%3F

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Un giro nelle Cortacce a cavallo della Guerra https://www.castelbolognese.org/miscellanea/un-giro-nelle-cortacce-a-cavallo-della-guerra/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/un-giro-nelle-cortacce-a-cavallo-della-guerra/#comments Wed, 16 Jul 2025 21:14:17 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12587 di Andrea Soglia Già vi avevamo parlato delle “Cortacce” in occasione della cena di vicinato tenutasi il 30 settembre 2023. Ad essa sono seguiti un pranzo con porchetta (il 27 ottobre 2024) e un’altra cena (il 14 giugno 2025). E allora ritorniamo sul tema, proponendovi un giro nelle Cortacce a …

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di Andrea Soglia

Già vi avevamo parlato delle “Cortacce” in occasione della cena di vicinato tenutasi il 30 settembre 2023. Ad essa sono seguiti un pranzo con porchetta (il 27 ottobre 2024) e un’altra cena (il 14 giugno 2025).
E allora ritorniamo sul tema, proponendovi un giro nelle Cortacce a cavallo della Seconda guerra mondiale, grazie alla poderosa memoria di Gino Pini (Gino barbiere) che nelle Cortacce è nato e cresciuto. Forse non sarà completo, ma in questo tour “virtuale” rivivranno tanti “tipi” castellani che in parte ho conosciuto anche io.
Per chiarezza premettiamo che, a partire dal 1876 e fino all’inizio degli anni ’50, le attuali via Guidi e via Amonio avevano la comune denominazione di via Amonio soltanto. E, probabilmente fino a tutti gli anni ’20, non esistevano aperture nelle mura, e il primo tratto dell’attuale via Guidi, a partire dalla via Costa, correva all’interno delle mura, parallelamente ad esse e all’orto delle Domenicane, prima di immettersi nel tracciato attuale di via Amonio.
Omettendo l’attuale tratto che costeggia le mura, e che all’epoca non aveva ingressi di abitazioni, risaliamo la via Guidi entrando dalle mura. Sulla sinistra il Torrione Ronchi, all’epoca regno di Iusafè Lavergna (Giuseppe Bagnaresi), ombrellaio e suonatore di chitarra, membro della Banda musicale di Castel Bolognese. Il suono della sua chitarra rallegrava feste e festini castellani. E nel torrione Lavergna allevava usignoli.
Vi era poi la casa dei Piancastelli (oggi abitazione Sieni ed altri), non molto cambiata nel tempo. Ad inizio ‘900 vi viveva Francesco Piancastelli, fratello del famoso pittore Giovanni, con la moglie Orsola e i suoi cinque figli. Fra essi vi erano Gianni, morto nel 1917 per una malattia contratta al fronte, Angelo, futuro medico condotto a Mordano, e Giuseppe. Quest’ultimo rimase ad abitare nella casa dell’allora via Amonio e divenne agente agricolo (fattore) delle Opere Pie seguendo in qualche modo le orme del padre, che era stato fattore del marchese Zacchia, cosa che spiega il suo soprannome (Peppino de Fator), con la moglie e i figli Francesco e Francesca. Rimase ucciso il 4 marzo 1945 a causa di una piccola scheggia di granata che l’avevo colpito al cuore mentre rientrava dall’Ospedale. I figli emigrarono dopo la guerra e Francesco, detto Checco, stimato perito agrario, si stabilì a Bologna. L’ho conosciuto anche io nella sua casa della Bolognina, assieme alla moglie Pia Lanzoni, pure lei castellana. Mi raccontarono che, una volta trapassati, sarebbero stati sepolti a Castello, nella tomba dei genitori di lei, e mi raccomandarono di fare loro una visita quando mi recavo al cimitero, cosa che non manco di fare di tanto in tanto.
Val la pena spendere due parole per Gianni Piancastelli, figlio del dottor Angelo, nato e vissuto a Mordano, stimato maestro e poeta dialettale. Una volta mi confidò che avrebbe lasciato Mordano solo per trasferirsi nella vecchia casa di famiglia delle Cortacce e nell’adiacente torrione, lui che era anche appassionato di uccelli e senz’altro aveva conosciuto Lavergna quando col padre veniva a Castello.
Nella casa Piancastelli viveva anche Attilio Ricci con la moglie Matilda Tagliaferri e la figlia Maria. Ricci era falegname, e svolgeva i lavori soprattutto nel domicilio dei clienti. Suo socio era Bruno Peruzzi, detto Fernando.
Seguiva poi la casina più bassa dove viveva Vincenzo Fabbri, E Curpitò, con la moglie Virginia Zaccherini (La Curpitona) e i loro tantissimi figli, fra cui Domenica, Domenico (E Gagì), Settima e Ottava. Domenica sposerà Fernando Peruzzi e i due coniugi, con il figlio Gabriele detto Gabrio, emigrarono in Belgio. Ricordo benissimo anch’io la Virginia, mancata negli anni ’90 ultranovantenne, e le visite che riceveva dalla figlia Domenica: una macchina con targa straniera (una Volvo a tre marce, come rammenta Gino) nelle Cortacce, 40 anni fa, era un evento!
Risalendo l’attuale vicolo si costeggiava l’edificio, adagiato sulle vecchie mura, che a inizio ‘900 era stato caserma dei carabinieri, poi sostituito dall’orribile palazzone per costruire il quale non si esitò, nottetempo, ad abbattere senza troppi complimenti (e carte in regola) un tratto delle vecchie mura comprensivo di bastioncino semicircolare.
Nell’ex caserma, con cortile interno e stalla, vivevano diverse famiglie. Innanzitutto Pavièt (Sante Dall’Oppio, dipendente della Ditta Scardovi di giorno e falegname di sera) con la moglie Albina e la figlia Nadia, e poi Gino Pini col padre Evaristo (dapprima calzolaio e poi commerciante di formaggi), la madre Leontina e i fratelli Paolina e Luciano (Marcello e Giovanna nasceranno dopo la guerra). Inoltre abitavano nell’ex caserma Carolina Mazzanti, Caròla de Latt, titolare per l’appunto di una latteria, il marito Mario Scardovi (ortolano) e poi Sandrino d’la butega (Scardovi) con la moglie Ada e la figlia Vanna. Sandrino gestiva un alimentari nella parte dell’edificio che si affacciava sulla via Emilia. Mario ortolano coltivava il suo orto nella lingua di terra fra le mura e viale Umberto, a cui poteva accedere anche da una porta che si apriva nelle mura, dirimpetto all’ingresso all’ex caserma sulla via Guidi e anche da un cancelletto nei pressi della via Emilia e del negozio di Sandrino.
Percorrendo l’attuale via Guidi, ritornando verso le mura, si costeggiava la proprietà di Angelo Biancini, Angiulita d’Bartulmì, omonimo dello scultore e gestore del Buffet della Stazione, la cui abitazione si affacciava sulla via Emilia. Sul retro, nella zona ora occupata dalla casa Tini-Mambelli di recente costruzione, Angiulita aveva un camerone e l’uscita di servizio dove lo immaginiamo con i suoi mezzi di trasporto, lui che è stato il primo castellano ad avere una bicicletta, poi una motocicletta ed infine un’automobile (una “leggendaria” Diatto). Vi erano poi l’attuale casa Sarchielli, alla quale un tempo si accedeva dalla via Guidi, dimora di Pinòla e delle sue sorelle Alfreda e Giuliana, poi di Caldarè (Antonio Cimatti), padre di Olindo, Giuliana, Teresina e Paolo, anche lui futuro barbiere e, per un certo periodo, socio di Gino Pini. Successivamente vi si trasferirà lo stesso Gino Pini con la famiglia. Seguiva poi la casa di Mario Dalpozzo, Mario de Srai, marito di Anna Balbi (Ninetta) e padre di Pina, dove all’epoca vivevano i genitori Giovanni e Malvina e il figlio Giovanni (detto l’Aplichè) con i loro inquilini Giovanni Turrini (Gianì) e la moglie Iolanda. Adagiata sulle mura, poi, la casa del sottoscritto, all’epoca abitazione di Armando Casadio Dalpozzo, detto Armando d’Zanaren ma anche Caplò, per via del cappello con la grande tesa che indossava abitualmente. Muratore, portava vistosi baffi alla Guglielmo, suonava il basso ed era pur’egli componente della Banda. Nella sua casa fabbricava pallini di piombo per le cartucce, sfruttando la torretta, oggi scomparsa, che svettava sulla casa. Dal di lì, tramite una botola nel pavimento del primo piano, le gocce di piombo fuso precipitavano al piano terra, raffreddandosi nella caduta e prendendo una forma circa sferica. Dopo Armando nella “mia” casa visse per qualche tempo Pietro Liverani, Pirì d’Casalecc o Pirì la guardia, babbo di Cicci “E suvietic”. I miei nonni l’acquistarono nel 1963.
In una di queste case di fronte a quella dei Piancastelli era cresciuta, qualche decennio prima, anche Lucia Pasini (Lucia d’Pundor), futura madre dell’attrice Luisa Ferida che, a quanto si dice, aveva ereditato da lei la grande bellezza.
Ci trasferiamo ora nella via Amonio che conosciamo attualmente. E qui elenchiamo i personaggi che vivevano sul lato sinistro della strada, cercando il più possibile di seguire l’ordine esatto. Dopo l’attuale casa Sgalaberni, dove abitavano i coniugi Pasquale Zannoni e Amelia Gianandrea (genitori di Romana Zannoni Sgalaberni), in corrispondenza del retro dell’attuale forno vivevano i fratelli Tac e Pagàn. Seguiva poi la casa di Alessandro Geminiani “E Gob” con la moglie Annunziata con i figli Giancarlo e Maria. Giancarlo morirà diciottenne nel giugno 1945 dopo le gravi ferite riportate mentre sminava il podere della famiglia Lega (i Milèna) nella parrocchia della Pace. Più in là viveva anche la “Bataina” (futura moglie di Adrasto Mazzara) con i genitori. Veniva poi la casa di Tugnazì d’Baroni (Antonio Mignani), falegname, con la moglie Maria e i figli, fra cui Ettore e Luisa. Secondo Gino Pini, Baroni era un po’ l’emblema delle Cortacce. Leggendaria la sua lentezza su certi lavori: uno scanno da lavandaia, commissionatogli da due novelli sposi, fu consegnato solo quando oramai essi erano in pensione! Più in là vi era il portone dove Bagiola (Scardovi) entrava ed usciva con il suo carro funebre trainato dai cavalli prima, e motorizzato poi. Infine Luigiò Donigaglia con i figli Pietro, Leonardo, Evaristo, Enrico (Richèt, futuro tassista e gestore di pompe funebri) e Maria detta Mina. Nella stessa casa abitava anche un’altra figura caratteristica delle Cortacce: l’Angelina Perecotte, al secolo Angela Faranfa, moglie di Paolo Galeati e madre di Laurana e Ferdinando. La Perecotte, originaria di Cantalice (Rieti) aveva sposato Galeati nella lontana Bengasi, pochi mesi dopo la fine della Grande Guerra. Venditrice ambulante, sostava in particolar modo sotto i portici, passato l’ingresso della chiesa di San Francesco, sotto un riparo di stuoie. La “Perecotte” vendeva frutta secca, pere e mele cotte e, alla stagione, le caldarroste tenute calde nella “gòfa”: un sacco di iuta pieno di paglia. L’origine del suo soprannome è del tutto evidente, le pere cotte erano la sua principale specialità e nel tragitto dalla casa alla zona della piazza gridava spesso “Pere cotte!”. Impossibile non sentirla, anche perché caricava la sua mercanzia su di una carriola che aveva una ruota ferrata e quindi faceva un gran fracasso sull’acciottolato della via Amonio.
Sul lato destro, a partire dal fondo, sul breve tratto che va verso le mura, abitava “Barandël” (carrettiere). Poi, dopo un lungo tratto senza ingressi, si trovava la casa di Armandì de Mel (Costa), padre di Ivo e Silvana (futura moglie di Franco Scardovi). Seguivano Angelo Visani (Casitèna) con la moglie Lucia Creonti e i figli Ermete (detto Dede) ed Elena. Ricordo bene Lucia e Casitèna, anarchico, classe 1893, morto nel 1990. Casitèna si trasferirà poi nella casa Piancastelli, oggi Sieni. Pina Dalpozzo ricorda che, un bel giorno, Casitèna gettò dalla finestra dei soldi. Alcune persone si stavano preoccupando di raccogliere il denaro e restituirlo a Lucia, ma lei, affacciata alla finestra, disse che se suo marito aveva fatto quel gesto c’era senz’altro un buon motivo e lei non voleva che le restituissero nulla.
Gli aneddoti sulla contrada si sprecano. Più in là nel tempo, negli anni ’60, Francesco Castellari, imbianchino (soprannominato Ducotone, dal nome di una marca di vernici) aveva il suo magazzino e su un muro aveva fatto decine di prove di colore, riducendolo ad un Arlecchino antesignano della street art.
Nelle Cortacce aveva vissuto anche il concorrente di Bagiola, Francesco Mattioli, detto Ceschi o anche e Re de Purtugal, vetturino, deceduto per ferite nel 1945, con i suoi sette figli, fra cui la notissima Ebe, Mario (detto Cagnèra), Dino e Settimo. Al tempo di guerra si era già trasferito con la sua attività in via Pallantieri.
Gino Pini ricorda anche i tanti espedienti dei bambini delle Cortacce per tirare su qualche spicciolo, soprattutto da spendere a Pentecoste al Luna Park. Ad esempio la raccolta di tubi di piombo da vendere ad Armando d’Zanarèn, oppure la raccolta di mattoni dalle macerie, da portare al Negus che li pagava 1 lira (se puliti) o 50 centesimi (se ancora da ripulire dalla calce). Infine, in occasione della Pentecoste, la via Amonio si trasformava in un grande deposito di biciclette dei forestieri che venivano alla festa. Gino ne ricorda fino a 1200 in contemporanea: i ragazzi avevano preparato le contromarche da dare ai proprietari per il ritiro del velocipede al termine del loro giro alla festa. Naturalmente i genitori non vedevano di buon occhio che i ragazzi spendessero denaro ai baracconi, e i rimproveri arrivavano puntuali anche perché, dopo una scorpacciata di liquirizia, Gino e gli amici tornavano a casa con la bocca sporca di nero e venivano facilmente smascherati!
Quando poi, d’inverno, veniva una copiosa nevicata, i ragazzini ammucchiavano la neve in fondo alla strada, nei pressi della casa di Armando d’Zanaren, creando una sorta di rampa (nel punto più alto misurava alcuni metri) da dove lanciarsi, in discesa, con una sedia ricurva che fungeva da slitta e, approfittando della leggera pendenza della strada, arrivavano facilmente in fondo alla contrada scivolando sulla coltre bianca.
Insomma, altri tempi.
E se vogliamo, le Cortacce, che avevano anche due fontane e senz’altro anche degli altri orti oltre a quello di Mario Scardovi, erano davvero quasi un piccolo mondo a parte nel vecchio Castello. Secondo Rino Villa, che pure per un periodo vi ha vissuto, il nome viene anche dal fatto che erano come una corte, un’organizzazione economica chiusa, dove si compiva l’intero ciclo di produzione e scambio al suo interno senza bisogno di uscire da essa.
Di certo, per gran parte del paese, rimaneva un quartiere malfamato, tant’è che si diceva che gli abitanti delle Cortacce fossero già a letto quando suonava l’Ave Maria e si alzassero quando suonava l’ora di notte, per sottintendere che con il favore del buio andassero in giro per rubacchiare qualcosa. Sicuramente gli abitanti delle Cortacce erano in gran parte molto poveri, per cui, come dice Gino, quello che qualcuno faceva eventualmente nottetempo era soprattutto dovuto alle ristrettezze economiche.
Gli abitanti, però, cattolici praticanti e non, erano tutti devotissimi alla B. V. della Concezione, patrona del paese, e quando una processione transitava dalle vie Amonio e Guidi, da entrambi i lati della strada compariva una lunga teoria di drappi e coperte di tutti i colori: sulle case erano state piantate delle “chiodelle” (che esistevano ancora fino a non molto tempo fa) alle quali venivano legate delle robuste corde che sostenevano le coperte. Sul selciato compariva poi un tappeto di petali di fiori, a formare tante lettere “M”. Secondo Gino uno spettacolo così colorato non si vedeva in nessuna altra contrada del paese.

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Ricordo del dottor Giam Battista Borzatta https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-del-dottor-giam-battista-borzatta/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-del-dottor-giam-battista-borzatta/#respond Thu, 10 Jul 2025 15:36:24 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12565 di Andrea Soglia ; con contributi di Lodovico Santandrea Un altro pezzo del vecchio Castello se ne va con Giam Battista (o anche Giovan Battista) Borzatta, scomparso ad Imola, sua città di adozione, l’8 luglio 2025. Ed è un pezzo altamente significativo perché il dottor Borzatta discendeva da due storiche …

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di Andrea Soglia ; con contributi di Lodovico Santandrea

Un altro pezzo del vecchio Castello se ne va con Giam Battista (o anche Giovan Battista) Borzatta, scomparso ad Imola, sua città di adozione, l’8 luglio 2025. Ed è un pezzo altamente significativo perché il dottor Borzatta discendeva da due storiche famiglie castellane, i Borzatta e i Bagnaresi (Bacoc) e perché nella sua memoria erano impressi tanti personaggi caratteristici castellani che lui aveva conosciuto e che con lui è come se scomparissero una seconda volta.
Il dottor Borzatta era nato nel 1939 da Mario Borzatta, dentista, ed Enrichetta Bagnaresi, figlia del notissimo Giovanni Bagnaresi, già segretario comunale e dottissimo cultore delle memorie castellane e, soprattutto, del folklore romagnolo. Il suo nome composto era un omaggio al nonno Giovanni e allo zio Battista Bagnaresi, morto ancor giovane di tifo a metà degli anni ’20.
Enrichetta scomparve pochissimi anni dopo la nascita del figlio e quindi il giovane Battista crebbe nell’ambiente caratteristico dell’Osteria della Marchina (sita in via Gottarelli e attiva fino agli anni ’60) dove il padre Mario si recava giornalmente a mangiare portando il figlio con sé. Il dottor Borzatta ricordava con nostalgia quegli anni e tutti i personaggi castellani che frequentavano l’Osteria, a partire ovviamente dall’ostessa, la Marchina, la quale, persona tutto sommato pacifica, diventava una furia se qualcuno degli avventori, quando doveva segnare i punti delle partite a carte sulla lavagna, osava chiederle “e zezz”, che lei voleva fosse chiamato “e bianc”, perché “e zezz” per lei alludeva a qualcosa di volgare. Battista raccontava spesso dei fratelli Bagnaresi (i Cetoni) e mi aveva detto di aver conservato a lungo un disegno di Fredino Cetoni che illustrava la torre di Castello trainata in volo da alcuni cavalli: speravo che un giorno lo ritrovasse per poterlo visionare e riprodurre, ma così non è stato.
Lodovico Santandrea, suo storico amico, ricorda che “dopo il liceo classico a Imola si era iscritto alla Facoltà di Medicina ma la voglia di studiare all’epoca non era molta, così aveva dato pochi esami, e quindi per ragioni economiche aveva iniziato a lavorare come informatore scientifico alla Pfizer da cui era stato assegnato alla zona di Padova. Si era sposato con Donatella Daghia e con lei si era trasferito a Padova ma da vecchio castellano appena poteva ritornava a Castello e mi confidava che aveva in ballo una novità senza però dirmi di cosa si trattasse. Poi un giorno, orgogliosissimo, disse che si era laureato in Medicina e che avrebbe iniziato la professione di medico dentista. Aprì l’attività a Imola e ristrutturò e rimodernò l’antico ambulatorio odontotecnico castellano del padre”. Successivamente l’attività, nella quale è stato affiancato dal figlio Pierfrancesco, si era estesa anche a Modigliana.
Tante le sue passioni e le sue appartenenze ad associazioni di vario genere, che sicuramente conosciamo solo in parte.
In gioventù, come ricorda Lodovico, ai bei tempi della goliardia, Battista era stato cavaliere della Balla del Feudo Romagnolo, cosa che gli fece guadagnare il soprannome di “E cavalir”, che si affiancava ad un altro soprannome “E virus” che gli aveva affibbiato Armando Lolli (e Patatè).
Altra passione le automobili, sportive e d’epoca. Era socio del Club Romagnolo Auto e Moto d’Epoca (CRAME) per il quale ha curato per molti anni il classico incontro estivo a Modigliana, in stretta collaborazione con la locale Pro Loco.
Battista, come altri castellani, era un grande amante dei cani boxer, senz’altro indirizzato in questa passione dal veterinario castellano Tomaso Bosi, esperto rinomato a livello internazionale di quella razza canina.
Era anche appassionatissimo di cucina, e faceva parte dell’Accademia Italiana della Cucina. Nell’ultima riunione conviviale del 2022 la delegazione di Castel Del Rio e Firenzuola dell’Accademia Italiana della Cucina gli aveva consegnato l’attestato di delegato onorario, riconoscimento tributatogli per “la sua dedizione all’Accademia e come meritato riconoscimento per l’impegno profuso verso la valorizzazione della cucina italiana nel territorio”.
Ma la sua passione più grande era per il vecchio Castello, dove era cresciuto nella sua casa dentro alle mura, nell’angolo fra le vie Camerini e Biancini. Immancabili le sue puntate a Castello, specialmente di domenica, per ritrovare i vecchi amici di un tempo al bar Commercio. Lodovico Santandrea ricorda che il suo più grande amico è stato Nicodemo Montanari e insieme a lui e a Leio Galli avevano formato un trio di giovani gaudenti. Forte anche l’amicizia con Lodovico, favorita anche dal fatto di essere vicini di casa: “la sera, quando tornavamo dai bar – ricorda Lodovico – ci fermavano all’inizio di Via Camerini davanti a casa mia a chiacchierare, poi io lo accompagnavo in fondo a Via Camerini davanti a casa sua a continuare a chiacchierare e l’andirivieni proseguiva per diverse volte”. “Io in porta e lui in attacco formavano a calcio balilla una coppia quasi imbattibile” rammenta ancora Lodovico.
Il dottor Borzatta sorrideva sotto i baffi nel sentire parlare, ultimamente, di street art, lui che oltre 40 anni fa sulla facciata della casa aveva fatto realizzare (non senza poco penare per ottenere i permessi) un trompe-l’oeil che raffigurava un gatto affacciato alla finestra. Sembra quasi reale quel micio alla finestra, dipinto con abilità da Rosetta Tronconi. E Borzatta mi aveva raccontato che quel gatto era realmente esistito: si chiamava Spiciù ed era appartenuto a Bona Sandrini, una cara amica imolese di Battista, la quale di tanto in tanto veniva a Castello a “rivedere” il suo adorato micio, una volta che era scomparso.
Prima di concludere questo ricordo è giusto parlare anche del culto che Borzatta aveva per il nonno Giovanni Bagnaresi, figura davvero importante per la Romagna tutta. Una ventina di anni fa aveva donato molti diari del nonno alla Biblioteca comunale, affinché confluissero nel Fondo Bagnaresi, già istituito negli anni ’60 da suo zio Giacomo. Aveva sempre collaborato alle varie iniziative per ricordare il nonno, in special modo alle pubblicazioni e agli studi di Giuseppe Bellosi, principale studioso della figura e degli scritti di Giovanni “Bacocco” Bagnaresi.
Non so se Battista abbia mai saputo che le carte di suo nonno, incautamente conservate nel piano interrato della biblioteca, erano state travolte dall’alluvione del maggio 2023. Io non ho avuto il coraggio di dirglielo. Speriamo che sia possibile recuperarle e restaurarle, sarebbe il miglior modo per omaggiare non solo la memoria di Giovanni Bagnaresi, ma anche quella di Giam Battista Borzatta.

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Quel fantastico giovedì al prato delle Filippine https://www.castelbolognese.org/miscellanea/quel-fantastico-giovedi-al-prato-delle-filippine/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/quel-fantastico-giovedi-al-prato-delle-filippine/#respond Sun, 06 Jul 2025 14:44:40 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12557 di Edmondo Fabbri testo tratto da: Imolese 50 anni, a cura di Ferruccio Montevecchi, Imola, Eco Sonor, 1969 (introduzione) L’8 luglio 2025 ricorre il trentesimo anniversario della morte di Edmondo Fabbri, Mundì, la cui vita calcistica (e non solo quella) fu rovinata da una sola disgraziata partita, la fantomatica “Corea”. …

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di Edmondo Fabbri
testo tratto da: Imolese 50 anni, a cura di Ferruccio Montevecchi, Imola, Eco Sonor, 1969

(introduzione) L’8 luglio 2025 ricorre il trentesimo anniversario della morte di Edmondo Fabbri, Mundì, la cui vita calcistica (e non solo quella) fu rovinata da una sola disgraziata partita, la fantomatica “Corea”. I giornalisti lo maltrattarono senza pietà e anche a quasi 30 anni di distanza, al suo funerale, nella chiesa di San Petronio, in una calda giornata, non partecipò quasi nessuno del mondo del calcio dell’epoca e di quella precedente. Oggi il ricordo della Corea è oramai attenuato, come ricordano i figli, “per tutti i cambiamenti avvenuti nel mondo, non solo del calcio, e per le delusioni della Nazionale negli ultimi anni”. Ma per Fabbri fu una croce che si portò sempre addosso.
Ricordiamo Mondino con un bellissimo testo scritto da lui stesso nel 1969, nel quale racconta la sua storia di grande calciatore (militò in serie A) e di grande allenatore (indimenticabili i successi del suo Mantova, ribattezzato il “piccolo Brasile”). Romanticamente era tutto partito dal prato della Filippina (anche se Mondino lo chiama delle Filippine), sul quale sbocciarono tanti talenti castellani, quando un giorno del 1937 i talent scout dell’Imolese ingaggiarono Fabbri dando inizio ad una grande avventura. (Andrea Soglia)

Quella meravigliosa primavera del 1937. La ricordo come se fosse oggi. Le gioie si dimenticano presto, le amarezze rimangono. Ma quel giorno mi è rimasto nel cuore e nella mente: un fantastico giovedì, come nel libro di Steinbeck. Il prato delle Filippine di Castelbolognese, il cielo azzurro sopra un mare di verde e io piccolo là ad aspettare la fata Morgana. Venne vestita coi panni dei dirigenti dell’Imolese. Fra i tanti ne ricordo un paio che oggi hanno i capelli bianchi: Pagani e Macallino. “Volete venire con noi nell’Imolese?” ci dissero. A quattro o cinque la terra tremò sotto i piedi, lo ricordo come fosse adesso. Io poi non credevo, avevo sedici anni e mi alzavo alle due di ogni mattino per aiutare papà a impastare e ad infornare il pane. Una grande fatica. Ma i muscoli erano forti e snelli, la mente sveglia, la voglia di correre e saltare tanta. Però la mia statura (mi chiamarono poi “topolino”) non era adatta per un giocatore di calcio, e gli amici mi consigliavano il ciclismo. Li presi in parola, ma intanto il mio desiderio era la palla rotonda. Anche perché due dei miei quattro fratelli, Camillo e Amedeo, dimostravano di saperci fare e io quasi li invidiavo.
I dirigenti dell’Imolese dissero a me, a Robbia e a Mazzacurati se avevamo piacere di essere dei loro. La risposta è facile intuirla. Niente stipendio, ma il rimborso-spese. Così i sette chilometri da Castelbolognese a Imola tornava il conto farli in bicicletta anziché in treno. Un piccolo guadagno per poche pedalate. Ma un giorno, quando “volavo” dietro un camion, incorsi in uno spettacolare capitombolo in località della Selva. Credevo di essermi rotto tutto, di non farcela più a camminare. Invece mi rimisi rapidamente in sesto. I dirigenti dell’Imolese non mi tennero in naftalina. Avevo l’età per giocare coi ragazzi, ma loro preferirono farmi esordire subito in prima squadra. Quando ci penso mi viene il groppo in gola. Fu una stagione bellissima fra continui applausi. Ero diventato un idolo della città. Non dimenticherò. L’incentivo era stato grande e tale da maturare altre ambizioni. Il Bologna mi richiese, tramite il dottor Santandrea, e io morivo dalla voglia di vestire il rossoblu della serie maggiore. Ero allettato anche dalla promessa di un buon stipendio: duecento lire al mese.
I dirigenti dell’Imolese dissero di no ed io rimasi fermo per due mesi. Poi Vico Minguzzi mi parlò come un buon padre e disse che anche lui era disposto a darmi duecento lire al mese. Mi fece vedere anche la somma, tutta in colombini da cinque lire che rilucevano. Per me era un tesoro. Inoltre, da quel galantuomo che era, aggiunse anche che, se volevo, alla fine della stagione ero libero. Io però non ne approfittai. Oltre tutto mi impegnai nel campionato. Ricordo una partita indimenticabile contro il Dopolavoro Ferroviario di Rimìni. Vincemmo per 8 a 0 e sette reti le misi a segno io.
II campionato della stagione appresso (’38-’39) fu appannaggio nostro. E la spuntammo anche contro il Castelbolognese, dove mio fratello Amedeo cercò di rendermi durissima la partita, mentre gli altri miei due fratelli Raimondo ed Everardo facevano il tifo per me. Ormai però era giunto il momento dell’addio, niente Bologna, stavolta, ma il Forlì per sostituire mio fratello Camillo passato al Bari. Quindicimila lire la cifra d’acquisto e per me lo stipendio raddoppiato, quattrocento lire più i premi di partita. Il contributo calcistico che davo alla famiglia mi permetteva di alzarmi non più alle due, bensì alle sei. Però ero costretto ancora a fare il fornaio. Non che mi dispiacesse dare un ulteriore aiuto a mio padre e ai miei fratelli, però col calcio avevo capito che potevo risolvere la mia posizione.
Correva la stagione 1940-41 quando il signor Fiorentini, su segnalazione di un amico, mi chiamò all’Atalanta: centomila la cifra di acquisto, ridotta poi ad ottantamila perché nel corso di una partita a Imola (Arti Mestieri contro Studenti) mi ero infortunato. Ricordo alcuni amici di quel match: Buldrini, Rivola, Marchetti, Dall’Osso, Patuelli, Martini, Bonora. Il mio primo stipendio da professionista nella squadra orobica veniva concordato in millecinquecento mensili. Un’altra stagione con l’Atalanta poi ancora in nerazzurro ma con l’Inter, quella di Masseroni, cifra d’acquisto 225 mila lire. Indi un campionato di guerra col Faenza in attesa che il mondo potesse risorgere. Il ritorno all’Inter nel ’45-’46, il passaggio alla Sampdoria nel ’46-’47, tre stagioni all’Atalanta ancora dal ’47 al ’50 compreso. La parabola discendente: al Brescia nel ’50-’51, indi ancora più giù, al Parma per quattro anni fino al ’55 con la consolazione di salire con la squadra dalla C alla B.
Il calcio attivo era finito, forse duecento partite in serie A e anche più e pure una presenza nella nazionale giovanile contro l’Ungheria nella Pasqua del ’42. Tre a zero per noi. Due gol di Cappello e uno mio. La formazione me la ricordo ancora: Franzosi; Ballarin, Piacentini; Parola, Todeschini, Toppan; Fabbri, Ispiro, Cappello, Baldini e Puccinelli.
Scarpe al chiodo, ma non l’addio al calcio. Avevo appreso giocando, potevo insegnare: un desiderio grande come l’altro. Ancora l’amico Fiorentini mi segnalava al Mantova, allora presieduto dall’avvocato Bellini. Una famiglia patriarcale con una adeguata politica. Giocatori con un massimale di cinquemila lire al mese e tanta, tanta passione in corpo. Un campionato d’assaggio quello del ’55-’56 e il terzo posto, secondi e promossi in serie d’eccellenza in quello successivo; passaggio in serie C nel ’57-58, in B nel ’59-’60, in A nel ’60-’61. Quattro giocatori, Negri, Bonghi, Giagnoni e Recagni mi avevano seguito dalla quarta serie alla A. Bei giorni anche quelli, quanti applausi. Poi, storia abbastanza recente, la Nazionale che mi aprì le porte nel ’62: circa trenta partite alla guida degli azzurri fra A e B. L’infausta giornata di Middlesbrough con la Corea. Il crollo di un mondo e anche di un mito, a sentire certuni. Un anno fermo, due anni al Torino, ed eccomi al Bologna come allenatore. E dire che trent’anni fa mi avevano richiesto come giocatore. Chissà quali altre strade avrei preso se il povero Minguzzi non mi avesse convinto…
Certo gli sono grato per avermi detto tante cose belle e giuste. E sono grato al mondo del calcio minore per avermi fatto comprendere quanto valgano i sacrifici, l’onestà e la dirittura morale. Amo ancora quel mondo fatto di piccole cose e anche di poesia.
Molto è cambiato da quegli anni quando scendevo a rotta di collo da Castelbolognese a Imola in bicicletta per guadagnare cinque lire sulla trasferta. Ora è nata l’aristocrazia calcistica anche in provincia, ma l’Imolese rimane per me una bandiera alla quale sono e sarò sempre affezionato. Sempre mi ricorderò quel fantastico giovedì del prato delle Filippine.

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Dall’Ospedale al C.A.U., 1960-2025 https://www.castelbolognese.org/miscellanea/dallospedale-al-c-a-u-1960-2025/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/dallospedale-al-c-a-u-1960-2025/#respond Wed, 25 Jun 2025 16:00:39 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12550 di Paolo Grandi Il 26 giugno 2025 sarà un giorno importante per l’assistenza sanitaria a Castel Bolognese. Aprirà infatti nei locali a piano terreno dell’Ospedale il C.A.U., Centro di Assistenza ed Urgenza, struttura nata per sollevare il Pronto Soccorso dai casi di minore gravità e che servirà l’intera Vallata del …

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di Paolo Grandi

Il 26 giugno 2025 sarà un giorno importante per l’assistenza sanitaria a Castel Bolognese. Aprirà infatti nei locali a piano terreno dell’Ospedale il C.A.U., Centro di Assistenza ed Urgenza, struttura nata per sollevare il Pronto Soccorso dai casi di minore gravità e che servirà l’intera Vallata del Senio fino a Palazzuolo. E speriamo che, con il dibattito in corso sull’utilità di questi Centri, non succeda come per il fantomatico Ospedale di Casola Valsenio inaugurato almeno due volte e puntualmente chiuso il giorno dopo…
E proprio in questi giorni riordinando l’archivio parrocchiale mi è passato per le mani un album di foto, probabilmente appartenuto a don Alessandro Pompignoli, contenente un servizio fotografico sul nostro Ospedale eseguito dai fotografi fratelli Scipi di Faenza e stampato su formato cm 18 x 24.
Difficile stabilire perché sia stato eseguito, ma probabilmente si tratta di un servizio fotografico ordinato dall’Ente Ospedaliero e realizzato poco prima dell’inizio dell’operatività dell’Ospedale, inaugurato il 6 dicembre 1959 ed in funzione dal successivo 1 gennaio 1960, ovvero pochi mesi dopo, facendo riferimento una foto ai festeggiamenti promossi dal 12 al 15 maggio 1960 in occasione del centenario della morte di San Vincenzo de’ Paoli, al cui Ordine facevano capo le Suore della Carità presenti nell’Ospedale.
Le fotografie mostrano un Ospedale allora all’avanguardia, moderno e ricco di attrezzature: ricordo che tre erano i reparti di degenza: Medicina e Chirurgia posti al piano superiore uno alla destra e l’altro alla sinistra del blocco ambulatori pronto soccorso e soggiorno, all’interno dell’edificio dell’Antolini, mentre nel salone posto nelle addizioni del Camerini verso valle vi era la Maternità (poi chiusa prima del 1970) ed in quella a monte il blocco operatorio.
Il nostro glorioso e bell’Ospedale, che sopravvisse anche ai bombardamenti senza fermarsi, dovette ahimè chiudere per scelte che certamente non piacquero alla popolazione della Vallata. La concentrazione di tutti i servizi sanitari a Faenza non ha certo dato un servizio migliore; ed ora con i C.A.U. si cerca di tornare più vicino ai cittadini. A Russi per esempio è stato anche riaperto da pochi giorni l’Ospedale. Chissà. Certamente l’aver ceduto tutto il piano delle degenze alla ASP per ingrandire la struttura “Camerini” se da un lato rende un maggior servizio agli anziani, dall’altro non fa certamente sperare in una riapertura del Nosocomio castellano. Ma si sa, spesso la politica su questi temi è imprevedibile…

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I Camerini di Villa San Martino https://www.castelbolognese.org/miscellanea/i-camerini-di-villa-san-martino/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/i-camerini-di-villa-san-martino/#respond Fri, 13 Jun 2025 15:51:26 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12519 di Paolo Grandi I registri dei battezzati di questa parrocchia e gli stati delle anime ci mostrano una folla di Camerini che inizia negli ultimi anni del XVII secolo e termina nel XX secolo, precisamente nel 1932. Difficile trovare agganci con la grande famiglia castellana, salvo, forse, in due casi …

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di Paolo Grandi

I registri dei battezzati di questa parrocchia e gli stati delle anime ci mostrano una folla di Camerini che inizia negli ultimi anni del XVII secolo e termina nel XX secolo, precisamente nel 1932. Difficile trovare agganci con la grande famiglia castellana, salvo, forse, in due casi che saranno illustrati più oltre. La parrocchia di Villa San Martino, già detta di San Martino in Villa Canal Ripato, pur essendo nel territorio del comune di Lugo, appartiene, assieme a Sant’Agata sul Santerno, alla Diocesi di Faenza, ma incuneandosi tra le parrocchie del capoluogo, spesso si trovano battesimi di bambini appartenenti, assieme alle loro famiglie, ad altre Parrocchie lughesi, specie San Francesco di Paola; ciò rende più difficile la ricerca che, pertanto, dovrà in futuro estendersi anche alle parrocchie urbane di Lugo.
Sono molti i sepolcreti appartenenti a famiglie Camerini nel cimitero di Villa San Martino, ma per lo più in stato di abbandono, segno che le relative famiglie sono estinte oppure si sono trasferite altrove in luoghi lontani; certo è che, come per i nati, anche per i defunti la maggior parte dei sepolcreti Camerini data fino alla prima metà del secolo scorso. Al momento, riferisce il Parroco, nessun Camerini è residente a Villa San Martino.
Numerosi sono i ceppi individuati qui: addirittura sedici, ma di alcuni compaiono solo pochi componenti e, pertanto, non sono interessanti per questa ricerca. Seguiremo pertanto solo quattro famiglie che, dal XVIII secolo al XX hanno prosperato in Villa San Martino.

IL RAMO DI CRISTOFORO

Questo Cristoforo Camerini appare sposato con Domenica Ricci ed il loro primo figlio nacque a Villa San Martino nel 1712. Di loro non si sa null’altro ma è lecito ipotizzare che Cristoforo fosse nato tra il 1672 e il 1692. Nell’albero genealogico generale tuttavia non appare alcun Cristoforo nato in quegli anni; si tratta quindi di un altro ceppo “Camerini” che tuttavia potrebbe essersi staccato in epoca antecedente l’inizio delle registrazioni dei battesimi. Domenica e Cristoforo ebbero sette figli: Giacomo, nato e morto nel 1712, Giacomo (1715), Francesco Antonio (1718), Giovanna Maria (1719), Lucia (1720), Antonio (1722) e Margherita (1723).
Il secondogenito Giacomo sposò Maria Emaldi e la coppia generò dieci figli: Francesca (1770), Giovanni (1771), Domenico (1773), Vito (nato e morto nel 1774), Marco (nato e morto nel 1778), Antonia (nata e morta nel 1781), Marco (1783), Lucia (1786), Antonia (1789) e Rosa (1795). Le femmine Francesca e Rosa risultano sposate rispettivamente con tal Faccani e con Cesare Bassi; il secondogenito Giovanni invece sposò Eugenia Fiocchi, mentre l’ultimo maschio, Marco sposò in prime nozze Lauretana Lattuga ed in seconde nozze Rosa Capucci (1794-1852). Nel 1797 Giacomo Camerini, già ultra ottantenne viveva con la moglie ed una famiglia patriarcale nella Casa Manzoni. Non ne viene indicato il mestiere o l’arte. Con lui vivono i figli: Giovanni assieme alla moglie Eugenia, Domenico, Marco, Lucia, Antonia e Rosa oltre a Francesca che è registrata vedova Faccani con la figlia Domenica di 2 anni. Qualche anno dopo, nel 1804, Giacomo era vedovo e con lui vivevano i figli Domenico sposato con Pasqua, Lucia e Rosa.
La discendenza di Giovanni ed Eugenia Fiocchi, vede generati dodici figli: Francesca (1796) che sposò Domenico Guerra, Giuseppe (nato e morto nel 1797), Francesco (1798), Caterina (1800), Martino (1802), Giuseppe (nato e morto nel 1802), Maria Anna (1804), la quale sposerà tal Simioli e nel 1856 è registrata come filatrice e povera, Giuseppe (nato e morto nel 1806), Carola (1808), Giuseppe (1810), Lucia (1812) che sposerà Carlo Tozzi e Domenica (1815). Giovanni nel 1804 abitava in un’altra casa ed è registrato come “trafficante”; assieme a moglie e figli convivevano la sorella Antonia ed il fratello Marco che qualche anno dopo, nel 1808, risultava già sposato con Lauretana Lattuga; la casa ove abitavano era di proprietà Minguzzi. Nel 1816 i fratelli Marco e Giovanni si separarono mentre nel 1839, già avanti in età, Giovanni Camerini e la moglie Eugenia abitavano con la figlia Francesca ed il genero Domenico e risultavano registrati come contadini; l’anno successivo invece rientrò in casa la figlia Lucia vedova Tozzi con i figli Filomena Tozzi di 5 anni e Carmelo Tozzi di 2 anni, risultando casanti del Sig. Strocchi.
Giuseppe fu l’unico ad avere discendenza in Villa San Martino. Dal primo matrimonio con Laura Rossi nacquero Giovanni (1836) e Maria (1837) e dal secondo matrimonio con Brigida Carpeggiani egli ebbe altri quattro figli: Stefano (nato e morto nel 1840), Maddalena (1842), Stefano (1845) e Giovanna (1847-1919); Maddalena e Giovanna non furono battezzate a Villa San Martino. Giovanna sposò Guglielmo Errani (1839-1923). Qui si ferma il ramo di Giuseppe che non pare avere ulteriori discendenti. Nel 1840 Giuseppe era un piccolo affittuario di terre di proprietà di Giovanni Camerini; nel 1842 è annotato quale piccolo trafficante ma residente in casa di sua proprietà ed addirittura annovera in famiglia anche un garzone, tal Michele Casadio; la ricchezza della famiglia era stata accresciuta qualche anno dopo perché viene registrato come proprietario del fondo annesso alla casa. Nel 1880 è detto beccaio ed ormai i figli sono tutti usciti dalla famiglia, restando in quella casa solo lui con la moglie.
Discendendo il ramo di Marco figlio di Giacomo si trovano sette figli generati con Lauretana Lattuga: Lucrezia (nata e morta nel 1803), Domenico (nato e morto nel 1807), Giuseppe (1809), Giovanni (1811), Domenico (1817), Maria (1820) e Francesca (1825). Dal secondo matrimonio con Rosa Capucci nacquero Lauretana (1835) ed Angela (1837); nel 1852 Marco Camerini restò vedovo di Rosa Capucci, nata nel 1794. Nel 1816 Marco si era trasferito a Casa Manzoni con la famiglia, mentre Giovanni e la sua famiglia abitavano in casa Toschi. Marco poi nel 1831 risulta abitare in una casa di sua proprietà, anche se otto anni più tardi è qualificato come trafficante, povero; tale è annotato anche nel 1840 sebbene allora abitasse in casa del fratelli Pirazzoli. Nel 1856, già vecchio, Marco fu registrato come inabile ma abitante in una casa di proprietà con annesso terreno. Assieme a lui vivevano le figlie Lauretana ed Angela, entrambe filatrici. Nel 1862 Marco aveva 81 anni e viveva con la figlia Angela, non maritata.
Il terzogenito, ma primo dei figli a sopravvivere, Giuseppe, ebbe dal matrimonio con Lucia Dosi ben tredici figli: Paolo (1833), Lauretana (nata e morta nel 1834), Filomena (1835), Angelo (1836), Angela (1839), Lauretana (1841), Domenica (1844), Clementina (1845), Beatrice (1847), Domenico (1849), Caterina (1851), Arcangelo detto Stefano (1852) e Marco (1855). Non vi sono notizie sulle discendenze maschili, mentre si hanno notizie sui matrimoni di Clementina che maritò Domenico Costa, di Beatrice che convolò a nozze con Luigi Mazzini, un bracciante povero di condizione e di Caterina che si unì con Giacomo Tozzi. La famiglia di Giuseppe Camerini, povero, nel 1852 era casante del podere di proprietà del sig. Battista Ricci Signorini di Massa Lombarda; qualche anno dopo, nel 1856, abitava nella casa di Giuseppe Berti di Solarono ma era ancora registrato come affittuario, povero; la moglie e le figlie conviventi Filomena e Clementina, questa di appena 11 anni, esercitavano il mestiere di filatrici. Nel tempo non cambiò la sorte della famiglia che nel 1862 è detta miserabilissima.
Dall’unione di Domenico, sestogenito di Marco e Lauretana Lattuga, con Maria Ricci Maccarini nacquero sei figli: Emidio detto Alfredo (1843), Demetrio (1847-1920), Giuseppe (1848-1921), Desiderio (1850-1906), Antonio (1854) e Claudia (1855). Nel 1852 Domenico fu registrato come casante e povero ed abitava nella casa di Serafino Betti, mentre nel 1855 risultava essere il guardiano dei prati del Conte Emaldi di Lugo. Nel 1862 Domenico, divenuto vedovo, viveva assieme ai figli e nulla viene detto sul mestiere esercitato. Nel 1870 Domenico era morto ed i fratelli Alfredo, muratore, Demetrio, Giuseppe, Desiderio e Claudia vivevano assieme nella casa dei fratelli Fabbri. Il secondogenito Demetrio detto Paij, dapprima garzone poi anch’esso muratore ed infine capo muratore, sposò in prime nozze Maria Ricci Maccarini (1848-1891), dalla quale pare non abbia avuto figli, poi Rosa Barisani e dalla loro unione nacque Mario (1896); la famiglia abitava sulla via Provinciale in casa di proprietà. Il terzogenito Giuseppe, bracciante poi capo sensale e detto E Prussian, sposò Lucia Bonetti (1860-1920) ed ebbe nove figli: Antonio (1879), Maria (1883-1964), Augusta (1885) operaia, Francesca (1888), Giovanna (1894) operaia, Giulia (1895-1917) operaia, Antonia, (1894), Roberto (1896) muratore ed Eleonora (1899); di Augusta si conosce il matrimonio con Domenico Donati. Nel 1909 abitavano in via dei Grilli nella casa della signora Zappi.
Da Desiderio, quartogenito di Domenico, garzone, sposatosi con Elisa Sangiorgi (1853-1935) operaia, nacquero otto figli: Maria (1876) che sposò Demetrio Ricci Bitti, Alfredo (1878-1964), Elvira (1885-1929), Giuseppe (nato e morto nel 1887), Domenico (1887-1900), Giuseppe (1894-1971), Luigi (1894) e Anna (1900-1925). Alfredo, detto Marcòn fu abile muratore, sposò Giovanna Bergomi dalla quale ebbe due figli: Adalgisa (1911) e Gustavo (1913); nel 1909 Alfredo abitava con la madre vedova ed alcuni fratelli in via Cantoncello nella casa dei Cavassi di Cotignola. Da Luigi invece discendono Natale (1924), Anna (1926) e Silvano (1932).

IL RAMO DI MICHELE

Anche questo ramo non si collega con quello di Castel Bolognese, non essendoci presente alcun Michele o Natale nato in quegli anni. Michele detto Natale (1774) sposò Maria Poletti che gli diede sei figli: Luigi (1804), Angela (1805), Giovanna (1808), Luigia (1812), Angelo (nato e morto 1816) e Angelo (1819). La famiglia nel 1816 risultava residente nella casa di Francesca vedova Camerini (forse di Paolo). L’ultimogenito Angelo sposò Angela Bentivogli e dalla loro unione nacquero undici figli: Primo (1841), Antonio (nato e morto 1842), Antonio (1843), Luigi (nato e morto 1844), Luigi (1845), Giovanni (1847), Pasqua (1849), Giuseppe (1850), Elisa (1857), Augusto (1861-1940) e Raffaele (1862). Angelo Camerini era un ciabattino, abitava con la famiglia nella casa di Francesco Petroncini di Lugo ma nel 1852 risultava detenuto, non ne è conosciuto il motivo. Nel 1880 esercitava ancora il mestiere di calzolaio ma è detto povero; dodici anni dopo, ormai vecchio, abita col figlio Luigi detto Bagliét, celibe e pure lui calzolaio che nel 1909 risultò solo; la sua abitazione era in via Provinciale.
Primo, il primogenito, sposò Pompilia Ricci Bitti che gli diede Telemaco nel 1868; nel 1870 esercitava il mestiere di calzolaio e viveva nella casa dei suoceri. Il terzogenito Antonio sposò Maria Benghi dalla quale ebbe Ernestina (1870) e Redamisto (1871); nel 1870 è registrato come bracciante e povero. Elisa sposò Domenico Negrini. Il penultimogenito Augusto sposò Felicita Plazzi (1863-1918) dalla quale ebbe quattro figli: Ettore (1882-1971), Celso (1887-1971), Antonio (1889-1919) e Maria (1892-1918). Augusto detto Bagliètt nel 1900 esercitava il mestiere di calzolaio e sembra essere abbastanza agiato, avendo casa e fondo di proprietà; nel 1909 era un muratore, mentre la moglie Felicita faceva la sarta ed i figli conviventi erano: Ettore, cameriere, Celso canapino, Antonio “impotente” molto probabilmente inabile al lavoro e Maria operaia; abitavano in via di Lugo nella casa di Ricci Bitti; nel 1921 Augusto era solo, vedovo ma esercitava ancora il mestiere di muratore ed abitava in Via Sammartina. Ettore, muratore, sposò Amalia Taglioni (1886-1966) e nel 1921 la coppia viveva in via Lunga. Celso, operaio, sposò Francesca Guerra (1890-1963) ed essi generarono cinque figli: Agide (1914-1944), Salvatore (1917-1963), Mario (1925-1998), Felicita (1927) e Maria (1930); nel 1921 abitavano in via Sammartina. Infine Antonio sposò Malvina Zini da cui nacque Lucia (1918).

IL RAMO DI PAOLO

Di Paolo, sposato con Francesca Merighi, si ha la prima notizia quando viene portato al fonte battesimale il loro primo figlio Giacomo (nato e morto nel 1750); Paolo quindi potrebbe essere nato tra il 1730 ed il 1720; difficile pensare che possa essere quel Pietro Paolo della famiglia di Castel Bolognese che risulta peraltro nato nel 1714. Al primogenito Giacomo seguirono Giovanna (1731) e Giacomo Antonio (1733). Quest’ultimo sposò Antonia Golinelli e dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Paolo (nato e morto 1760), Paolo (1762), Francesca (nata e morta nel 1764) e Francesca (1767). Dall’unione di Paolo con Antonia Minzoni furono generati dodici figli. Antonio (nato e morto nel 1788), Giovanna (1789), Giulia (1791), Giacomo (1794), Antonio (1796), Teresa (1797), Giovanni Battista (1798), Pasqua (1800) Raffaele (1803), Marianna (1806) –che nel 1840 è descritta come “casante e povera”-, Carolina (1808) che andò sposa a Battista Varoli ed infine Nicolina (1810). Nel 1799 Paolo, assieme alla seconda moglie ed ai figli di secondo letto Giovanna, Giulia e Giacomo abitava nella casa di don Francesco Mingani; nel 1804 fu registrato come “trafficante”, povero. Nel 1808 la famiglia risulta abitare in Casa Giacomoni e otto anni più tardi in una casa di proprietà dell’Ospedale di Imola.

La discendenza di Giacomo di Paolo

Il quartogenito Giacomo sposò Pasqua Ancarani che gli diede tre figli: Rosa (1823), Giovanni (1828) e Paolo (1838); la famiglia nel 1839 risultava abitare in una casa dell’Ospedale di Imola (forse la medesima ove abitavano i genitori) e Giacomo fu segnato “trafficante”. Il secondogenito Giovanni, bracciante e povero di condizione, sposò Francesca Conti ed ebbero quattro figli: Maria (1852), Santa (1854) detta La Cavura, che sarebbe andata sposa a Domenico Dosi, Giovanna (1839) e Guglielmo (1869-1948). Quest’ultimo sposò Giuseppina Urano (1872-1954) e dalla loro unione nacquero cinque figli: Giovanni (1897), Francesca (1900) che andò in sposa ad Alfredo Ricci, Maria Antonia (1903), Giuseppe (nato e morto nel 1905) e Lindo (1909). Nel 1892 Guglielmo, detto L’Umètt non era ancora sposato e viveva con la madre Francesca, vedova; lo troviamo trent’anni dopo, nel 1909 esercitare il mestiere di canapino, sposato e vivere con la famiglia in una casa di proprietà di Silvestro Ricci Bitti in via Sammartina; nel 1921 era operaio ed i figli Giovanni muratore e Francesca casalinga; tutti abitavano in via Provinciale di Bagnara.

La discendenza di Giovanni Battista di Paolo

Il settimo figlio di Paolo, Giovanni Battista, sposò Anna Minzi e la coppia ebbe dieci figli: Giovanna (1823), Ferdinando (1825), Beatrice (1826) che sposerà Giuseppe Errani ed eserciterà il mestiere di tessitrice, Antonio (1829), Paola (nata e morta 1831), Paolo (1833), Maria, (1835), Carolina (nata e morta 1838), Carolina (1839-1891) ed Enrico (1843). Nel 1831 era annotato quale esercente l’attività di macellaio e nel 1840 risultava abitare in una casa di proprietà; nel 1852 fu registrato come pizzicagnolo. Nel 1856 Paolo e la moglie Anna erano entrambi pizzicagnoli, come il figlio Ferdinando, che conviveva in famiglia con la moglie Domenica, filatrice, e la primogenita Enrica; le figlie femmine di Giovanni Battista, Maria e Carolina erano entrambe tessitrici. Quest’ultima sarebbe andata sposa ad Alessandro Toschi, famiglia sicuramente in vista dal momento che ha tuttora la tomba di famiglia nel cimitero di Villa San Martino ed annovera ancora discendenti.

La discendenza di Ferdinando di Battista Giovanni di Paolo

Ferdinando Camerini sposò in prime nozze Domenica Tozzi con la quale ebbe la figlia Enrica (1854). La Tozzi morì in tempo imprecisato e Ferdinando convolò a nuove nozze con Celestina Ricci dalla quale ebbe undici figli: Angela (1862) che andò sposa a Francesco Fabbri, Giuseppe (1863), Ernestina (1865), Gianbattista (1867), Ugo (1868-1871), Egidio (1872), Anna (1874), Achille (1876), Giulio (1877), Adele (1880) ed Alfredo (1882). Di costoro si conosce solamente la discendenza di Giuseppe, il secondogenito, il quale sposò Angela Plazzi ed ebbe tre figli: Alfredo (1893), Ferdinando (1896), e Luigia (1896). Ferdinando continuò il mestiere di pizzicagnolo ereditato dal padre e nel 1880 viveva con loro la vecchia madre Anna Minzi; tuttavia nel 1900 fu registrato come oste. Quasi trent’anno dopo, nel 1909, Angela Plazzi, vedova e detta La Bunaghéna era una bottegaia e con lei vivevano i figli Alfredo, telegrafista, Ferdinando e Luigia in una casa di proprietà di Anacleto Fabbri sulla via Provinciale di Bagnara.

La discendenza di Antonio di Battista Giovanni di Paolo

Antonio Camerini (1829-1890) sposò Clementina Ricci Bitti (1829-1886) nel 1850 ed il loro unico figlio, Rinaldo (1851-1905), commerciante di bestiame con casa e terreno di proprietà, sposò Clementina Fabbri (1854-1929). Costoro ebbero quattro figli: Margherita (1874-1945), Gian Battista (1876-1923) medico, Francesca (1878-1950) ed Antonio (1880-1963). Quest’ultimo sposò Giuseppina Forti (1890-1976) e la coppia ebbe quattro figli: Giulia (1911), Clementina (1912-2003) professoressa, Albertina (1916) ed Alberto (1917-1987) avvocato, che a sua volta sposò Maria May, non lasciando più tracce di sé a Villa San Martino. Antonio fu registrato nel 1862 quale piccolo proprietario e, considerata la tomba di famiglia eretta nel cimitero di Villa San Martino, la famiglia ha goduto di un certo benessere. Nel 1885 fu detto “trafficante” con casa propria e poco terreno; con lui convivevano il figlio Rinaldo, già sposato, ed i figli della coppia di quest’ultimo. Nel 1909 tutti abitavano in una casa di proprietà con terreno annesso in via Provinciale di Bagnara, Margherita, casalinga, assieme alla madre vedova Clementina possidente, ed ai fratelli Francesca donna di casa e Antonio, fattore; nella stessa dimora vivevano ancora tutti nel 1921, ma Antonio era ora sposato e lì viveva con la propria famiglia.

La discendenza di Raffaele di Paolo: da Villa San Martino a Castel Bolognese e Bagnara.

Raffaele Camerini, nono figlio di Paolo, lasciò Villa San Martino per stabilirsi definitivamente a Castel Bolognese. Qui sposò in San Petronio il 19 novembre 1825 Rosa Berti, figlia di Pellegrino. Nei precedenti scritti sulla famiglia, per errore Raffaele è stato indicato come figlio di Paolo fratello del Duca che, invece, come scoperto da poco tempo, sposò a Voltana Lauretana Guerrini ed ebbe solo il figlio Luigi, nato a San Biagio d’Argenta e successivamente erede del Duca.
Questa discendenza continua fino ad oggi. È la quaresima del 1838 quando l’Arciprete di San Petronio, passando per la benedizione pasquale in Via degli Angeli (oggi Via Bragaldi), nella casa appresso il Convento delle Terziarie di Sant’Agostino e di loro proprietà, registra la famiglia di Raffaele Camerini, detto Rafflì: Camerini Raffaele anni 33, Berti Rosa moglie anni 34, Giovanni figlio anni 11, Antonia anni 8, Paola anni 5, Maria anni 3. Mancano all’appello Pellegrino , il quale sarebbe nato il 21 ottobre 1828 e morto pochi anni dopo, Paolo che nascerà il 22 aprile 1838 (cioè dopo Pasqua e, dunque, dopo la visita per le benedizioni pasquali), Maria Antonia (23 giugno 1840), Giulia (26 agosto 1842) e Cristoforo (8 ottobre 1845). Da altre visite si apprende che Raffaele esercitava l’attività di bracciante. Egli trasferì la propria abitazione nel 1846, quando si trasferì nella casa Panazza, sempre in Via degli Angeli, che si trovava prima delle Monache Salesiane (che erano le continuatrici delle Terziarie Agostiniane) Il primogenito Giovanni uscì di casa nel 1853, sposandosi con Domenica Petroncini; esercitò la professione di fornaio, dopo aver prima fatto il falegname assieme al fratellino Paolo, ed abitò sempre in via degli Angeli nella casa del Beneficio Sangiorgi. Anche Paolo, che sposò Giuseppina Borghesi nel 1863, divenne fornaio; anzi entrambi i fratelli esercitarono l’attività a Bagnara, almeno così annota il Sacerdote per la benedizione pasquale del 1862. Proprio in quell’anno, la famiglia di Giovanni Camerini, che nel 1860 si era spostata in via San Petronio nella casa di Angela Scardovi, non abitava più a Castel Bolognese; si era infatti trasferita a Bagnara, ove un ramo della famiglia Camerini continua fino ad oggi. Giovanni ebbe quattro figli, di cui una, Francesca, morta in tenera età; in Bagnara nacquero altre due figlie. Il primogenito Domenico, che continuò a Bagnara l’attività paterna, sposò Adele Pagani dalla quale avrà ben tredici figli tra il 1878 ed il 1899. Arturo (3 febbraio 1878), primogenito di Domenico, sposò Paola Sangiorgi il 19 ottobre 1907. Dal matrimonio nacquero tre figli; egli morì in guerra nel 1916. Il settimo figlio di Domenico, Augusto (14 settembre 1888), anch’egli fornaio, sposò Francesca Medri a Bagnara l’8 novembre 1913 e dal matrimonio nacquero sette figli, l’ultimo dei quali, Arturo, (3 agosto 1937) ha continuato l’attività avita fino a pochi anni fa. Con i suoi figli Massimo e Stefano ed i figli di costoro continua il ramo “bagnarese” della famiglia. Il secondo figlio maschio di Giovanni e Domenica Petroncini, Mario (7 dicembre 1859), residente a Bagnara, sposò Enrica Golinelli ed il figlio di costoro, Giovanni (nato a Bagnara il 7 novembre 1893) detto E Barbirén aveva la bottega di barbiere sotto il portico della via Emilia a levante poco oltre le Domenicane. Dalla moglie Celestina Scardovi ebbe quattro figlie: Enrica, Francesca, Ester e Maria, due delle quali furono maestre elementari nelle nostre scuole.
Torniamo a Paolo di Raffaele che, dopo aver fatto il fornaio è annotato nel 1865 quale facchino; abitava in via degli Angeli nella casa già abitata dal padre, che in quell’anno si era trasferito in via Rocca (via Fornasari). Dal matrimonio con Giuseppina Borghesi nacquero cinque figli; il secondogenito Stefano, impiegato delle ferrovie, (18 dicembre 1866) avrebbe sposato Luisa Lama, ma già nel 1905, a soli 36 anni era registrato quale vedovo; dall’infelice matrimonio nacquero sette figli, ma solo tre in quell’anno erano vivi: Angela (1891), Rosa (1888), Libero (1897); i rimanenti quattro figli, tutti di nome Paolo erano morti appena nati. Libero è il padre di Stefano, Nino ‘dla butega che aveva il negozio di generi alimentari, da ultimo, in via Garavini. E con la figlia di Stefano siamo di nuovo arrivati ai nostri giorni.

IL RAMO DI DOMENICO

Negli stati delle anime del 1808 è iscritto Domenico Camerini (1763) sposato con Maria Bonetti (1767) ed il figlio Giuseppe (1780) tutti abitanti nella Casa Fabbri. Otto anni più tardi Giuseppe lavorava come garzone a casa di Giulia Scarabelli vedova Ricci Bitti; nel 1840 Giuseppe risultava sposato con Scalaberni Maria (1796) presenti i figli Giovanni (1823) e Luigi (1826); venne registrato come piccolo contadino dapprima nel podere di Pietro Bellosi, poi in quello di Francesco Bagnaresi. Nessun’altra notizia emerge di questo ramo a Villa San Martino.

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Ricordo di Mary, Maria Tagliaferri (1929-2022) https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-mary-maria-tagliaferri-1929-2022/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-mary-maria-tagliaferri-1929-2022/#comments Wed, 28 May 2025 21:50:15 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12460 di Donatella Casadio Nell’apprendere della scomparsa della storica “profumiera” di Castello Lina Castellari, trovo sia arrivato il momento di inviare a questa pagina un ricordo della sua “rivale” Mary. Ho avuto la fortuna di conoscerle entrambe e si assomigliavano molto; la loro rivalità di bottega durata decenni non ha mai …

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di Donatella Casadio

Nell’apprendere della scomparsa della storica “profumiera” di Castello Lina Castellari, trovo sia arrivato il momento di inviare a questa pagina un ricordo della sua “rivale” Mary.
Ho avuto la fortuna di conoscerle entrambe e si assomigliavano molto; la loro rivalità di bottega durata decenni non ha mai impedito loro di riconoscersi simili e avere un legame di collaborazione e amicizia, soprattutto negli anni della pensione.
Maria Tagliaferri, Mary, come la conoscevano i castellani, Meri per suo marito Battista Ricchi e suo figlio Antonio, se n’è andata tre anni fa, il 29 Maggio 2022, durante la festa di Pentecoste.
Un giorno di festa, e non poteva essere diverso per una persona che fino alla fine dei suoi giorni ha saputo illuminare la stanza con il suo sorriso e i suoi occhi azzurri.
L’insegnamento più grande di Zia Mary è stato il suo atteggiamento nei confronti della vita: sempre sorridente e positiva, non si lamentava mai e affrontava ogni giornata con un sorriso radioso.
Trovava sempre il modo di reagire ai problemi e alle avversità con una creatività sorprendente perché – diceva – “noi che abbiamo vissuto la guerra abbiamo imparato che se una cosa non si può fare in un modo si fa in un altro”.
Quando in giro per Castello prima con la sua bici, poi con il deambulatore decorati con i fiori incontrava qualche amica coetanea che si lamentava degli acciacchi rispondeva “an sì brisa cuntenta che a j’avé mess un etar Nadèl”?
Alla compagnia dei coetanei ha sempre preferito i giovani con i quali ha condiviso lo stesso spirito fino a pochi mesi prima di morire.
A testimonianza racconto un piccolo aneddoto di me bambina di 8 anni, quando l’aiutavo a fare i pacchetti di Natale in Profumeria.
Si presentò un rappresentante di carte e nastri per i pacchetti, proponendole di stampare la carta regalo personalizzata con la scritta “PROFUMERIA MERI”.
Io, già Miss Precisini allora, obiettai che non si scriveva “MERI” ma – come in inglese “MARY”.
Alle insistenze del rappresentante a favore della sua tesi, zia lo mise a tacere dicendo “se mia nipote dice che si scrive così, scriviamo così”: una iniezione di fiducia in me bambina molto più preziosa dei diplomi che diamo oggi ai nostri figli per eventi a volte anche poco significativi.
Tutti noi nipoti, non solo me e mia sorella ma anche i nostri figli abbiamo avuto la fortuna di percorrere un bel tratto di cammino insieme e serberemo sempre nel cuore il suo modo di vivere e il suo sorriso.
Siamo certi che sia lo stesso per tutti quelli che l’hanno conosciuta.
Mi resta il rammarico di non aver raccolto dalla sua viva voce la sua testimonianza di figlia maggiore e maggiore fra i ragazzini della famiglia Tagliaferri, nel difficile periodo bellico e post-bellico, a Monte Battaglia, dove era nata.
Nonno Attilio fu fucilato assieme ad altri in un campo a San Rufillo nel 1944, aveva 43 anni.
Zia Mary si trovò a diventare grande in fretta, come succede ai bambini durante la guerra, e a fare da guida non solo a sua sorella Elena – “Lina”, mia mamma – ma anche a un bel numero di cugini e cugine.

Di seguito il racconto pubblicato sulla 1 edizione della pubblicazione della Compagnia dei Racconti

INTERVISTA A MARIA TAGLIAFERRI

Sono nata nel 1929 e ho vissuto a Casola Valsenio sino all’età di 25 anni.
Ho incontrato mio marito assieme a sua cugina, una mia amica quando ancora abitavo a Casola Valsenio. In quel periodo lui studiava a Reggio Emilia: ci scrivevamo molte lettere, mi spediva molte cartoline. Quando lui finì gli studi, trovò subito lavoro per il partito a Castel bolognese. Anche al suo ritorno ci incontravamo spesso: tutte le settimane veniva a trovarmi a casa, un’abitazione che si raggiungeva solo a piedi e da Casola era una bella camminata (Ca’ De Bosc, Parrocchia di San Rufillo, proprio sotto Monte Battaglia). In due, due, quattro ci sposammo e vennì ad abitare a Castello, sopra al palazzo Ginnasi, al soffitto.
Iniziai a lavorare alla raccolta della frutta: io di lavorare non avevo mica paura: prendevo su anche cassette pesanti e mi offrii per poterle scaricare anche la notte nel pieno della stagione.
Quando mia sorella finì i tre anni di apprendistato dalla Roma Parrucchiera, mi espresse la sua volontà ad aprire un negozio tutto suo di parrucchiera in via Costa dove oggi c’è la Sanitaria. Iniziai ad aiutarla nel lavaggio delle teste. Lavoravamo tantissimo, anche la domenica sino le 14:00. Eravamo molto contente: avevamo i nostri soldini. Fino a quando non si sposò lei visse con me e mio marito nella soffitta sopra palazzo Ginnasi.
Abbiamo lavorato venti anni assieme.
Negli anni successivi si liberò uno spazio più grande, sempre in via Costa con annesso un piccolo appartamento che mi sarebbe piaciuto comprare per toglierci dall’affitto. Cambiammo negozio e comprammo la licenza in Comune dal povero Odo (Oddo Diversi), sia per la parrucchiera che per la profumeria. Allora la profumeria non era conosciuta e fu un problema rilasciarmi la licenza: i profumi li usavano le donne più emancipate, quelle che lavoravano fuori da Castel Bolognese come impiegate. La profumeria col passare degli anni andò molto bene e quindi mi venne la voglia di ingrandire il negozio. Allora sotto al portico c’era Testa Secca che vendeva un locale grande, ma ancora tutto da ristrutturare. Ricordo che mio marito non era d’accordo di comprare l’appartamento: fosse stato per lui saremmo stati ancora in affitto, ma io ero davvero risoluta e gli dissi che se non mi avesse dato i soldi avrei avanzato la richiesta per un mutuo. Andai in banca al Credito Romagnolo che allora era dove oggi c’è Cimatti. Mi accordai con Vittorio del Credito e in soli sei anni sono rientrata dal mutuo pagando anche la ristrutturazione. Negli anni ’70 il lavoro crebbe e mi si presentò l’opportunità per aprire un negozio di parrucchiera anche a Riolo Terme. Con mia sorella decidemmo di aprire un pomeriggio la settimana e la domenica durante la stagione estiva. Le persone di Riolo le ho trovate più accoglienti di quelle di Castello.
Successivamente ho anche frequentato una scuola a Bologna per estetica del viso e ho svolto anche un po’ di attività da estetista: ma allora chi è che si faceva il pedicure! Praticavo soprattutto i trattamenti per il viso.
Dopo questa avventura imprenditoriale venni riconosciuta anche dai castellani.
Oggi ho ormai 90 anni, pesano un po’ ma sono contenta perché mi alzo ancora da sola e svolgo le mie piccole attività quotidiane senza grossi aiuti da parte di nessuno!

Galleria fotografica (Archivio Donatella Casadio e Antonio Ricchi)

Gadget distribuiti dall’attività di Mary

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Ricordo di Tonino Tronconi (1933-2025) https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-tonino-tronconi-1933-2025/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-tonino-tronconi-1933-2025/#respond Mon, 19 May 2025 22:10:12 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12437 di Andrea Soglia con contributi di Lodovico Santandrea Alle soglie dei 92 anni è mancato Antonio “Tonino” Tronconi, un altro pezzo del vecchio Castello. Era nato nel 1933 in una famiglia poverissima, tirata avanti dai genitori che, fra mille privazioni, riuscirono a far studiare la loro figlia maggiore, Rosetta. Quando …

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di Andrea Soglia con contributi di Lodovico Santandrea

Alle soglie dei 92 anni è mancato Antonio “Tonino” Tronconi, un altro pezzo del vecchio Castello. Era nato nel 1933 in una famiglia poverissima, tirata avanti dai genitori che, fra mille privazioni, riuscirono a far studiare la loro figlia maggiore, Rosetta. Quando Tonino nacque il padre era già ultraquarantenne (età considerevole per l’epoca) e Rosetta aveva 8 anni. Rosetta aveva conseguito il diploma di maestra ed era l’orgoglio e la speranza di suo padre, oramai anziano, che aveva riposto in lei anche il futuro economico del piccolo Tonino. Ma il sogno era destinato a svanire: non solo venne la guerra ma anche la malattia di Rosetta, che morì a 19 anni di tisi nel febbraio del 1945, spirando nelle cantine dell’Ospedale.
Tonino ricordava che in un certo qual modo si era come spento anche il padre, e ben presto Tonino entrò nel mondo del lavoro adattandosi a fare i lavori più umili, soprattutto di fatica, visto che era anche dotato di una notevole forza fisica.
Lodovico Santandrea, suo storico amico, ci ha raccontato tante cose che cerchiamo di mettere assieme. Tonino “aveva coraggio da vendere e se c’era un “fughetto” non si tirava indietro: famosa la bastonatura che lui, Mamini e Romano Scardovi dettero nel campo dei salesiani a Faenza ad un lottatore professionista, un bascianazz di due metri che pesava più di un quintale. Il suo eloquio era fluente e aveva sempre la parola pronta tanto che un giorno andò in farmacia chiedendo dei tranquillanti ed al farmacista che gli consigliò un calmante per la gola disse che il tranquillante gli serviva per il nervoso per non poter parlare”.
Il sottoscritto ricorda quanto amasse raccontare i fatti dei personaggi castellani. Era uno spasso sentirlo narrare le “imprese” di Mingò d’la Turca. Gli avevo chiesto qualche aneddoto anche l’ultima volta che l’avevo visto sulla panchina vicino alla sua casa. Le gambe erano oramai malferme ma la voglia di raccontare era ancora intatta. Scherzava anche sul suo deambulatore, vantandosi di avere la Ferrari dei deambulatori. Fino a poco tempo prima si sforzava di arrivare in piazza e di raggiungere il bar Commercio, per rivedere gli storici amici e scambiare qualche battuta. D’altronde, come ricorda Lodovico, era un “lettore accanito e sapeva destreggiarsi su qualunque argomento”. E poi famosi erano i suoi scherzi e le sue battute corrosive, che non risparmiavano nessuno, anche personaggi importanti del paese, “in quanto la sua coscienza era immacolata”. Gli piaceva anche vestire molto elegante, specie di domenica, e gradiva i commenti positivi sul suo abbigliamento.
Si dilettava a scrivere racconti e poesie in italiano e in dialetto. La sua zirudella/filastrocca più famosa, era nata fra i tavolini del bar Commercio, dopo la disfatta dell’Italia (allenata dal castellano Edmondo Fabbri) con la Corea del Nord, dove il protagonista era un topolino (chiara allusione al soprannome che Fabbri aveva da calciatore) e dove la carica di Commissario Unico, abbreviata in C.U. diveniva in dialetto “ciù” (persona non molto sveglia).

“In un dolce paese che dirvi non so un dì un topolino ciù diventò e subito Fani felice da pazzo cominciò nel Commercio a rompere il cazzo. Abbiamo uno squadrone gridava Mattioli, diceva Ricagni, adagio figlioli, restiamo coi piedi posati per terra, la prova del nove è là, in Inghilterra. E mentre la squadra vinceva senza stenti in patria e all’estero i primi cimenti, il buon Falegname vendeva i biglietti che dare doveva agli amici più stretti. E per l’Inghilterra l’Italia salpò, ma dalla Corea battuta tornò, il bel sogno di gloria tosto svanì, il ciù fu cacciato e Fani impazzì”.

In questa pagina vi proponiamo una toccante zirudella “La class de’ maistrò”, segnalataci da Lodovico, in cui Tonino ricordava i tempi della scuola elementare, allievo del maestro Giuseppe Jacchini, soprannominato appunto “E maistrò”. Nel ricordare i compagni, tanti anni dopo immaginava in sogno che si ripetesse l’appello del maestro, ma troppi erano gli assenti che, oramai, erano andati nel mondo dei più. I castellani più grandi riconosceranno tanti dei personaggi citati.
Alcuni suoi racconti in italiano, I cachi, Il cappotto, La gallina erano stati pubblicati sul volume La compagnia dei racconti 2019-2020, e Tonino orgogliosamente mi aveva segnalato la cosa.
Sono passati alla storia anche altri episodi. Ad esempio nel 1954, la neonata Rai si diede molto da fare perché tutti la conoscessero ed una sua squadra, sul finire del mese di agosto venne a Castello per incrementare la diffusione di questo nuovo mezzo di comunicazione. Oltre a divulgare la sua attività, la Rai fece montare un palcoscenico improvvisato sul quale si esibì un ristretto numero di attori. Come raccontava Rino Villa, Tonino Tronconi partecipò con una canzone, cantata allora con la voce roca tanto di moda nei cantanti di oggi, che suscitò tanto divertimento e tanti applausi, da meritarsi alla fine il premio messo in palio da un rivenditore di elettrodomestici, per chi avesse avuto più successo: un ferro da stiro.
Lodovico invece ricorda che, durante un torneo di Biancanigo, Tonino era l’allenatore della squadra del Bar Commercio (dove Lodovico giocava in porta) e all’inizio della partita spiegava la tattica: “Dobbiamo fare un gol in più dei tiri che arrivano in porta a Lodovico”. Nonostante la tattica “lapalissiana”, il Bar Commercio vinse il torneo.
Tonino fu attivo nel movimento cattolico castellano. Era cugino di Nicodemo Montanari, e con lui, futuro sindaco del paese, iniziò un lungo percorso politico prima nella DC per poi spostarsi sempre più a sinistra. Tonino è stato consigliere comunale dal 1960 al 1974 ed assessore dal 1960 al 1964 mettendo sempre avanti il bene del paese. E ne ha sempre continuato a seguire, con passione, tutte le vicende politiche.
Tonino aveva sposato Silvana Gambi che gli ha dato due figli, Gabriele e Rosetta, alla quale Tonino aveva posto il nome per ricordare la sorella tanto sfortunata. E la figlia Rosetta lo rendeva particolarmente orgoglioso con la sua attività artistica, e non mancava mai alle sue mostre, anche in quelle più recenti che visitava a fatica ma con determinazione. Fino all’ultimo si aggiornava anche sull’attività lavorativa del figlio Gabriele, del quale era altrettanto orgoglioso.
La scomparsa della moglie Silvana l’aveva profondamente rattristato. Lo colpivano i tanti casi di femminicidio, e commentava amaro con me: “prendono l’ergastolo per aver ucciso la moglie, quando io mi farei dare l’ergastolo per farla tornare in vita”. E il 19 maggio 2025 ha raggiunto la sua Silvana nel mondo dei più.

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