La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/ Fri, 13 Jun 2025 15:55:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.1 I Camerini di Villa San Martino https://www.castelbolognese.org/miscellanea/i-camerini-di-villa-san-martino/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/i-camerini-di-villa-san-martino/#respond Fri, 13 Jun 2025 15:51:26 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12519 di Paolo Grandi I registri dei battezzati di questa parrocchia e gli stati delle anime ci mostrano una folla di Camerini che inizia negli ultimi anni del XVII secolo e termina nel XX secolo, precisamente nel 1932. Difficile trovare agganci con la grande famiglia castellana, salvo, forse, in due casi …

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di Paolo Grandi

I registri dei battezzati di questa parrocchia e gli stati delle anime ci mostrano una folla di Camerini che inizia negli ultimi anni del XVII secolo e termina nel XX secolo, precisamente nel 1932. Difficile trovare agganci con la grande famiglia castellana, salvo, forse, in due casi che saranno illustrati più oltre. La parrocchia di Villa San Martino, già detta di San Martino in Villa Canal Ripato, pur essendo nel territorio del comune di Lugo, appartiene, assieme a Sant’Agata sul Santerno, alla Diocesi di Faenza, ma incuneandosi tra le parrocchie del capoluogo, spesso si trovano battesimi di bambini appartenenti, assieme alle loro famiglie, ad altre Parrocchie lughesi, specie San Francesco di Paola; ciò rende più difficile la ricerca che, pertanto, dovrà in futuro estendersi anche alle parrocchie urbane di Lugo.
Sono molti i sepolcreti appartenenti a famiglie Camerini nel cimitero di Villa San Martino, ma per lo più in stato di abbandono, segno che le relative famiglie sono estinte oppure si sono trasferite altrove in luoghi lontani; certo è che, come per i nati, anche per i defunti la maggior parte dei sepolcreti Camerini data fino alla prima metà del secolo scorso. Al momento, riferisce il Parroco, nessun Camerini è residente a Villa San Martino.
Numerosi sono i ceppi individuati qui: addirittura sedici, ma di alcuni compaiono solo pochi componenti e, pertanto, non sono interessanti per questa ricerca. Seguiremo pertanto solo quattro famiglie che, dal XVIII secolo al XX hanno prosperato in Villa San Martino.

IL RAMO DI CRISTOFORO

Questo Cristoforo Camerini appare sposato con Domenica Ricci ed il loro primo figlio nacque a Villa San Martino nel 1712. Di loro non si sa null’altro ma è lecito ipotizzare che Cristoforo fosse nato tra il 1672 e il 1692. Nell’albero genealogico generale tuttavia non appare alcun Cristoforo nato in quegli anni; si tratta quindi di un altro ceppo “Camerini” che tuttavia potrebbe essersi staccato in epoca antecedente l’inizio delle registrazioni dei battesimi. Domenica e Cristoforo ebbero sette figli: Giacomo, nato e morto nel 1712, Giacomo (1715), Francesco Antonio (1718), Giovanna Maria (1719), Lucia (1720), Antonio (1722) e Margherita (1723).
Il secondogenito Giacomo sposò Maria Emaldi e la coppia generò dieci figli: Francesca (1770), Giovanni (1771), Domenico (1773), Vito (nato e morto nel 1774), Marco (nato e morto nel 1778), Antonia (nata e morta nel 1781), Marco (1783), Lucia (1786), Antonia (1789) e Rosa (1795). Le femmine Francesca e Rosa risultano sposate rispettivamente con tal Faccani e con Cesare Bassi; il secondogenito Giovanni invece sposò Eugenia Fiocchi, mentre l’ultimo maschio, Marco sposò in prime nozze Lauretana Lattuga ed in seconde nozze Rosa Capucci (1794-1852). Nel 1797 Giacomo Camerini, già ultra ottantenne viveva con la moglie ed una famiglia patriarcale nella Casa Manzoni. Non ne viene indicato il mestiere o l’arte. Con lui vivono i figli: Giovanni assieme alla moglie Eugenia, Domenico, Marco, Lucia, Antonia e Rosa oltre a Francesca che è registrata vedova Faccani con la figlia Domenica di 2 anni. Qualche anno dopo, nel 1804, Giacomo era vedovo e con lui vivevano i figli Domenico sposato con Pasqua, Lucia e Rosa.
La discendenza di Giovanni ed Eugenia Fiocchi, vede generati dodici figli: Francesca (1796) che sposò Domenico Guerra, Giuseppe (nato e morto nel 1797), Francesco (1798), Caterina (1800), Martino (1802), Giuseppe (nato e morto nel 1802), Maria Anna (1804), la quale sposerà tal Simioli e nel 1856 è registrata come filatrice e povera, Giuseppe (nato e morto nel 1806), Carola (1808), Giuseppe (1810), Lucia (1812) che sposerà Carlo Tozzi e Domenica (1815). Giovanni nel 1804 abitava in un’altra casa ed è registrato come “trafficante”; assieme a moglie e figli convivevano la sorella Antonia ed il fratello Marco che qualche anno dopo, nel 1808, risultava già sposato con Lauretana Lattuga; la casa ove abitavano era di proprietà Minguzzi. Nel 1816 i fratelli Marco e Giovanni si separarono mentre nel 1839, già avanti in età, Giovanni Camerini e la moglie Eugenia abitavano con la figlia Francesca ed il genero Domenico e risultavano registrati come contadini; l’anno successivo invece rientrò in casa la figlia Lucia vedova Tozzi con i figli Filomena Tozzi di 5 anni e Carmelo Tozzi di 2 anni, risultando casanti del Sig. Strocchi.
Giuseppe fu l’unico ad avere discendenza in Villa San Martino. Dal primo matrimonio con Laura Rossi nacquero Giovanni (1836) e Maria (1837) e dal secondo matrimonio con Brigida Carpeggiani egli ebbe altri quattro figli: Stefano (nato e morto nel 1840), Maddalena (1842), Stefano (1845) e Giovanna (1847-1919); Maddalena e Giovanna non furono battezzate a Villa San Martino. Giovanna sposò Guglielmo Errani (1839-1923). Qui si ferma il ramo di Giuseppe che non pare avere ulteriori discendenti. Nel 1840 Giuseppe era un piccolo affittuario di terre di proprietà di Giovanni Camerini; nel 1842 è annotato quale piccolo trafficante ma residente in casa di sua proprietà ed addirittura annovera in famiglia anche un garzone, tal Michele Casadio; la ricchezza della famiglia era stata accresciuta qualche anno dopo perché viene registrato come proprietario del fondo annesso alla casa. Nel 1880 è detto beccaio ed ormai i figli sono tutti usciti dalla famiglia, restando in quella casa solo lui con la moglie.
Discendendo il ramo di Marco figlio di Giacomo si trovano sette figli generati con Lauretana Lattuga: Lucrezia (nata e morta nel 1803), Domenico (nato e morto nel 1807), Giuseppe (1809), Giovanni (1811), Domenico (1817), Maria (1820) e Francesca (1825). Dal secondo matrimonio con Rosa Capucci nacquero Lauretana (1835) ed Angela (1837); nel 1852 Marco Camerini restò vedovo di Rosa Capucci, nata nel 1794. Nel 1816 Marco si era trasferito a Casa Manzoni con la famiglia, mentre Giovanni e la sua famiglia abitavano in casa Toschi. Marco poi nel 1831 risulta abitare in una casa di sua proprietà, anche se otto anni più tardi è qualificato come trafficante, povero; tale è annotato anche nel 1840 sebbene allora abitasse in casa del fratelli Pirazzoli. Nel 1856, già vecchio, Marco fu registrato come inabile ma abitante in una casa di proprietà con annesso terreno. Assieme a lui vivevano le figlie Lauretana ed Angela, entrambe filatrici. Nel 1862 Marco aveva 81 anni e viveva con la figlia Angela, non maritata.
Il terzogenito, ma primo dei figli a sopravvivere, Giuseppe, ebbe dal matrimonio con Lucia Dosi ben tredici figli: Paolo (1833), Lauretana (nata e morta nel 1834), Filomena (1835), Angelo (1836), Angela (1839), Lauretana (1841), Domenica (1844), Clementina (1845), Beatrice (1847), Domenico (1849), Caterina (1851), Arcangelo detto Stefano (1852) e Marco (1855). Non vi sono notizie sulle discendenze maschili, mentre si hanno notizie sui matrimoni di Clementina che maritò Domenico Costa, di Beatrice che convolò a nozze con Luigi Mazzini, un bracciante povero di condizione e di Caterina che si unì con Giacomo Tozzi. La famiglia di Giuseppe Camerini, povero, nel 1852 era casante del podere di proprietà del sig. Battista Ricci Signorini di Massa Lombarda; qualche anno dopo, nel 1856, abitava nella casa di Giuseppe Berti di Solarono ma era ancora registrato come affittuario, povero; la moglie e le figlie conviventi Filomena e Clementina, questa di appena 11 anni, esercitavano il mestiere di filatrici. Nel tempo non cambiò la sorte della famiglia che nel 1862 è detta miserabilissima.
Dall’unione di Domenico, sestogenito di Marco e Lauretana Lattuga, con Maria Ricci Maccarini nacquero sei figli: Emidio detto Alfredo (1843), Demetrio (1847-1920), Giuseppe (1848-1921), Desiderio (1850-1906), Antonio (1854) e Claudia (1855). Nel 1852 Domenico fu registrato come casante e povero ed abitava nella casa di Serafino Betti, mentre nel 1855 risultava essere il guardiano dei prati del Conte Emaldi di Lugo. Nel 1862 Domenico, divenuto vedovo, viveva assieme ai figli e nulla viene detto sul mestiere esercitato. Nel 1870 Domenico era morto ed i fratelli Alfredo, muratore, Demetrio, Giuseppe, Desiderio e Claudia vivevano assieme nella casa dei fratelli Fabbri. Il secondogenito Demetrio detto Paij, dapprima garzone poi anch’esso muratore ed infine capo muratore, sposò in prime nozze Maria Ricci Maccarini (1848-1891), dalla quale pare non abbia avuto figli, poi Rosa Barisani e dalla loro unione nacque Mario (1896); la famiglia abitava sulla via Provinciale in casa di proprietà. Il terzogenito Giuseppe, bracciante poi capo sensale e detto E Prussian, sposò Lucia Bonetti (1860-1920) ed ebbe nove figli: Antonio (1879), Maria (1883-1964), Augusta (1885) operaia, Francesca (1888), Giovanna (1894) operaia, Giulia (1895-1917) operaia, Antonia, (1894), Roberto (1896) muratore ed Eleonora (1899); di Augusta si conosce il matrimonio con Domenico Donati. Nel 1909 abitavano in via dei Grilli nella casa della signora Zappi.
Da Desiderio, quartogenito di Domenico, garzone, sposatosi con Elisa Sangiorgi (1853-1935) operaia, nacquero otto figli: Maria (1876) che sposò Demetrio Ricci Bitti, Alfredo (1878-1964), Elvira (1885-1929), Giuseppe (nato e morto nel 1887), Domenico (1887-1900), Giuseppe (1894-1971), Luigi (1894) e Anna (1900-1925). Alfredo, detto Marcòn fu abile muratore, sposò Giovanna Bergomi dalla quale ebbe due figli: Adalgisa (1911) e Gustavo (1913); nel 1909 Alfredo abitava con la madre vedova ed alcuni fratelli in via Cantoncello nella casa dei Cavassi di Cotignola. Da Luigi invece discendono Natale (1924), Anna (1926) e Silvano (1932).

IL RAMO DI MICHELE

Anche questo ramo non si collega con quello di Castel Bolognese, non essendoci presente alcun Michele o Natale nato in quegli anni. Michele detto Natale (1774) sposò Maria Poletti che gli diede sei figli: Luigi (1804), Angela (1805), Giovanna (1808), Luigia (1812), Angelo (nato e morto 1816) e Angelo (1819). La famiglia nel 1816 risultava residente nella casa di Francesca vedova Camerini (forse di Paolo). L’ultimogenito Angelo sposò Angela Bentivogli e dalla loro unione nacquero undici figli: Primo (1841), Antonio (nato e morto 1842), Antonio (1843), Luigi (nato e morto 1844), Luigi (1845), Giovanni (1847), Pasqua (1849), Giuseppe (1850), Elisa (1857), Augusto (1861-1940) e Raffaele (1862). Angelo Camerini era un ciabattino, abitava con la famiglia nella casa di Francesco Petroncini di Lugo ma nel 1852 risultava detenuto, non ne è conosciuto il motivo. Nel 1880 esercitava ancora il mestiere di calzolaio ma è detto povero; dodici anni dopo, ormai vecchio, abita col figlio Luigi detto Bagliét, celibe e pure lui calzolaio che nel 1909 risultò solo; la sua abitazione era in via Provinciale.
Primo, il primogenito, sposò Pompilia Ricci Bitti che gli diede Telemaco nel 1868; nel 1870 esercitava il mestiere di calzolaio e viveva nella casa dei suoceri. Il terzogenito Antonio sposò Maria Benghi dalla quale ebbe Ernestina (1870) e Redamisto (1871); nel 1870 è registrato come bracciante e povero. Elisa sposò Domenico Negrini. Il penultimogenito Augusto sposò Felicita Plazzi (1863-1918) dalla quale ebbe quattro figli: Ettore (1882-1971), Celso (1887-1971), Antonio (1889-1919) e Maria (1892-1918). Augusto detto Bagliètt nel 1900 esercitava il mestiere di calzolaio e sembra essere abbastanza agiato, avendo casa e fondo di proprietà; nel 1909 era un muratore, mentre la moglie Felicita faceva la sarta ed i figli conviventi erano: Ettore, cameriere, Celso canapino, Antonio “impotente” molto probabilmente inabile al lavoro e Maria operaia; abitavano in via di Lugo nella casa di Ricci Bitti; nel 1921 Augusto era solo, vedovo ma esercitava ancora il mestiere di muratore ed abitava in Via Sammartina. Ettore, muratore, sposò Amalia Taglioni (1886-1966) e nel 1921 la coppia viveva in via Lunga. Celso, operaio, sposò Francesca Guerra (1890-1963) ed essi generarono cinque figli: Agide (1914-1944), Salvatore (1917-1963), Mario (1925-1998), Felicita (1927) e Maria (1930); nel 1921 abitavano in via Sammartina. Infine Antonio sposò Malvina Zini da cui nacque Lucia (1918).

IL RAMO DI PAOLO

Di Paolo, sposato con Francesca Merighi, si ha la prima notizia quando viene portato al fonte battesimale il loro primo figlio Giacomo (nato e morto nel 1750); Paolo quindi potrebbe essere nato tra il 1730 ed il 1720; difficile pensare che possa essere quel Pietro Paolo della famiglia di Castel Bolognese che risulta peraltro nato nel 1714. Al primogenito Giacomo seguirono Giovanna (1731) e Giacomo Antonio (1733). Quest’ultimo sposò Antonia Golinelli e dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Paolo (nato e morto 1760), Paolo (1762), Francesca (nata e morta nel 1764) e Francesca (1767). Dall’unione di Paolo con Antonia Minzoni furono generati dodici figli. Antonio (nato e morto nel 1788), Giovanna (1789), Giulia (1791), Giacomo (1794), Antonio (1796), Teresa (1797), Giovanni Battista (1798), Pasqua (1800) Raffaele (1803), Marianna (1806) –che nel 1840 è descritta come “casante e povera”-, Carolina (1808) che andò sposa a Battista Varoli ed infine Nicolina (1810). Nel 1799 Paolo, assieme alla seconda moglie ed ai figli di secondo letto Giovanna, Giulia e Giacomo abitava nella casa di don Francesco Mingani; nel 1804 fu registrato come “trafficante”, povero. Nel 1808 la famiglia risulta abitare in Casa Giacomoni e otto anni più tardi in una casa di proprietà dell’Ospedale di Imola.

La discendenza di Giacomo di Paolo

Il quartogenito Giacomo sposò Pasqua Ancarani che gli diede tre figli: Rosa (1823), Giovanni (1828) e Paolo (1838); la famiglia nel 1839 risultava abitare in una casa dell’Ospedale di Imola (forse la medesima ove abitavano i genitori) e Giacomo fu segnato “trafficante”. Il secondogenito Giovanni, bracciante e povero di condizione, sposò Francesca Conti ed ebbero quattro figli: Maria (1852), Santa (1854) detta La Cavura, che sarebbe andata sposa a Domenico Dosi, Giovanna (1839) e Guglielmo (1869-1948). Quest’ultimo sposò Giuseppina Urano (1872-1954) e dalla loro unione nacquero cinque figli: Giovanni (1897), Francesca (1900) che andò in sposa ad Alfredo Ricci, Maria Antonia (1903), Giuseppe (nato e morto nel 1905) e Lindo (1909). Nel 1892 Guglielmo, detto L’Umètt non era ancora sposato e viveva con la madre Francesca, vedova; lo troviamo trent’anni dopo, nel 1909 esercitare il mestiere di canapino, sposato e vivere con la famiglia in una casa di proprietà di Silvestro Ricci Bitti in via Sammartina; nel 1921 era operaio ed i figli Giovanni muratore e Francesca casalinga; tutti abitavano in via Provinciale di Bagnara.

La discendenza di Giovanni Battista di Paolo

Il settimo figlio di Paolo, Giovanni Battista, sposò Anna Minzi e la coppia ebbe dieci figli: Giovanna (1823), Ferdinando (1825), Beatrice (1826) che sposerà Giuseppe Errani ed eserciterà il mestiere di tessitrice, Antonio (1829), Paola (nata e morta 1831), Paolo (1833), Maria, (1835), Carolina (nata e morta 1838), Carolina (1839-1891) ed Enrico (1843). Nel 1831 era annotato quale esercente l’attività di macellaio e nel 1840 risultava abitare in una casa di proprietà; nel 1852 fu registrato come pizzicagnolo. Nel 1856 Paolo e la moglie Anna erano entrambi pizzicagnoli, come il figlio Ferdinando, che conviveva in famiglia con la moglie Domenica, filatrice, e la primogenita Enrica; le figlie femmine di Giovanni Battista, Maria e Carolina erano entrambe tessitrici. Quest’ultima sarebbe andata sposa ad Alessandro Toschi, famiglia sicuramente in vista dal momento che ha tuttora la tomba di famiglia nel cimitero di Villa San Martino ed annovera ancora discendenti.

La discendenza di Ferdinando di Battista Giovanni di Paolo

Ferdinando Camerini sposò in prime nozze Domenica Tozzi con la quale ebbe la figlia Enrica (1854). La Tozzi morì in tempo imprecisato e Ferdinando convolò a nuove nozze con Celestina Ricci dalla quale ebbe undici figli: Angela (1862) che andò sposa a Francesco Fabbri, Giuseppe (1863), Ernestina (1865), Gianbattista (1867), Ugo (1868-1871), Egidio (1872), Anna (1874), Achille (1876), Giulio (1877), Adele (1880) ed Alfredo (1882). Di costoro si conosce solamente la discendenza di Giuseppe, il secondogenito, il quale sposò Angela Plazzi ed ebbe tre figli: Alfredo (1893), Ferdinando (1896), e Luigia (1896). Ferdinando continuò il mestiere di pizzicagnolo ereditato dal padre e nel 1880 viveva con loro la vecchia madre Anna Minzi; tuttavia nel 1900 fu registrato come oste. Quasi trent’anno dopo, nel 1909, Angela Plazzi, vedova e detta La Bunaghéna era una bottegaia e con lei vivevano i figli Alfredo, telegrafista, Ferdinando e Luigia in una casa di proprietà di Anacleto Fabbri sulla via Provinciale di Bagnara.

La discendenza di Antonio di Battista Giovanni di Paolo

Antonio Camerini (1829-1890) sposò Clementina Ricci Bitti (1829-1886) nel 1850 ed il loro unico figlio, Rinaldo (1851-1905), commerciante di bestiame con casa e terreno di proprietà, sposò Clementina Fabbri (1854-1929). Costoro ebbero quattro figli: Margherita (1874-1945), Gian Battista (1876-1923) medico, Francesca (1878-1950) ed Antonio (1880-1963). Quest’ultimo sposò Giuseppina Forti (1890-1976) e la coppia ebbe quattro figli: Giulia (1911), Clementina (1912-2003) professoressa, Albertina (1916) ed Alberto (1917-1987) avvocato, che a sua volta sposò Maria May, non lasciando più tracce di sé a Villa San Martino. Antonio fu registrato nel 1862 quale piccolo proprietario e, considerata la tomba di famiglia eretta nel cimitero di Villa San Martino, la famiglia ha goduto di un certo benessere. Nel 1885 fu detto “trafficante” con casa propria e poco terreno; con lui convivevano il figlio Rinaldo, già sposato, ed i figli della coppia di quest’ultimo. Nel 1909 tutti abitavano in una casa di proprietà con terreno annesso in via Provinciale di Bagnara, Margherita, casalinga, assieme alla madre vedova Clementina possidente, ed ai fratelli Francesca donna di casa e Antonio, fattore; nella stessa dimora vivevano ancora tutti nel 1921, ma Antonio era ora sposato e lì viveva con la propria famiglia.

La discendenza di Raffaele di Paolo: da Villa San Martino a Castel Bolognese e Bagnara.

Raffaele Camerini, nono figlio di Paolo, lasciò Villa San Martino per stabilirsi definitivamente a Castel Bolognese. Qui sposò in San Petronio il 19 novembre 1825 Rosa Berti, figlia di Pellegrino. Nei precedenti scritti sulla famiglia, per errore Raffaele è stato indicato come figlio di Paolo fratello del Duca che, invece, come scoperto da poco tempo, sposò a Voltana Lauretana Guerrini ed ebbe solo il figlio Luigi, nato a San Biagio d’Argenta e successivamente erede del Duca.
Questa discendenza continua fino ad oggi. È la quaresima del 1838 quando l’Arciprete di San Petronio, passando per la benedizione pasquale in Via degli Angeli (oggi Via Bragaldi), nella casa appresso il Convento delle Terziarie di Sant’Agostino e di loro proprietà, registra la famiglia di Raffaele Camerini, detto Rafflì: Camerini Raffaele anni 33, Berti Rosa moglie anni 34, Giovanni figlio anni 11, Antonia anni 8, Paola anni 5, Maria anni 3. Mancano all’appello Pellegrino , il quale sarebbe nato il 21 ottobre 1828 e morto pochi anni dopo, Paolo che nascerà il 22 aprile 1838 (cioè dopo Pasqua e, dunque, dopo la visita per le benedizioni pasquali), Maria Antonia (23 giugno 1840), Giulia (26 agosto 1842) e Cristoforo (8 ottobre 1845). Da altre visite si apprende che Raffaele esercitava l’attività di bracciante. Egli trasferì la propria abitazione nel 1846, quando si trasferì nella casa Panazza, sempre in Via degli Angeli, che si trovava prima delle Monache Salesiane (che erano le continuatrici delle Terziarie Agostiniane) Il primogenito Giovanni uscì di casa nel 1853, sposandosi con Domenica Petroncini; esercitò la professione di fornaio, dopo aver prima fatto il falegname assieme al fratellino Paolo, ed abitò sempre in via degli Angeli nella casa del Beneficio Sangiorgi. Anche Paolo, che sposò Giuseppina Borghesi nel 1863, divenne fornaio; anzi entrambi i fratelli esercitarono l’attività a Bagnara, almeno così annota il Sacerdote per la benedizione pasquale del 1862. Proprio in quell’anno, la famiglia di Giovanni Camerini, che nel 1860 si era spostata in via San Petronio nella casa di Angela Scardovi, non abitava più a Castel Bolognese; si era infatti trasferita a Bagnara, ove un ramo della famiglia Camerini continua fino ad oggi. Giovanni ebbe quattro figli, di cui una, Francesca, morta in tenera età; in Bagnara nacquero altre due figlie. Il primogenito Domenico, che continuò a Bagnara l’attività paterna, sposò Adele Pagani dalla quale avrà ben tredici figli tra il 1878 ed il 1899. Arturo (3 febbraio 1878), primogenito di Domenico, sposò Paola Sangiorgi il 19 ottobre 1907. Dal matrimonio nacquero tre figli; egli morì in guerra nel 1916. Il settimo figlio di Domenico, Augusto (14 settembre 1888), anch’egli fornaio, sposò Francesca Medri a Bagnara l’8 novembre 1913 e dal matrimonio nacquero sette figli, l’ultimo dei quali, Arturo, (3 agosto 1937) ha continuato l’attività avita fino a pochi anni fa. Con i suoi figli Massimo e Stefano ed i figli di costoro continua il ramo “bagnarese” della famiglia. Il secondo figlio maschio di Giovanni e Domenica Petroncini, Mario (7 dicembre 1859), residente a Bagnara, sposò Enrica Golinelli ed il figlio di costoro, Giovanni (nato a Bagnara il 7 novembre 1893) detto E Barbirén aveva la bottega di barbiere sotto il portico della via Emilia a levante poco oltre le Domenicane. Dalla moglie Celestina Scardovi ebbe quattro figlie: Enrica, Francesca, Ester e Maria, due delle quali furono maestre elementari nelle nostre scuole.
Torniamo a Paolo di Raffaele che, dopo aver fatto il fornaio è annotato nel 1865 quale facchino; abitava in via degli Angeli nella casa già abitata dal padre, che in quell’anno si era trasferito in via Rocca (via Fornasari). Dal matrimonio con Giuseppina Borghesi nacquero cinque figli; il secondogenito Stefano, impiegato delle ferrovie, (18 dicembre 1866) avrebbe sposato Luisa Lama, ma già nel 1905, a soli 36 anni era registrato quale vedovo; dall’infelice matrimonio nacquero sette figli, ma solo tre in quell’anno erano vivi: Angela (1891), Rosa (1888), Libero (1897); i rimanenti quattro figli, tutti di nome Paolo erano morti appena nati. Libero è il padre di Stefano, Nino ‘dla butega che aveva il negozio di generi alimentari, da ultimo, in via Garavini. E con la figlia di Stefano siamo di nuovo arrivati ai nostri giorni.

IL RAMO DI DOMENICO

Negli stati delle anime del 1808 è iscritto Domenico Camerini (1763) sposato con Maria Bonetti (1767) ed il figlio Giuseppe (1780) tutti abitanti nella Casa Fabbri. Otto anni più tardi Giuseppe lavorava come garzone a casa di Giulia Scarabelli vedova Ricci Bitti; nel 1840 Giuseppe risultava sposato con Scalaberni Maria (1796) presenti i figli Giovanni (1823) e Luigi (1826); venne registrato come piccolo contadino dapprima nel podere di Pietro Bellosi, poi in quello di Francesco Bagnaresi. Nessun’altra notizia emerge di questo ramo a Villa San Martino.

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Ricordo di Mary, Maria Tagliaferri (1929-2022) https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-mary-maria-tagliaferri-1929-2022/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-mary-maria-tagliaferri-1929-2022/#respond Wed, 28 May 2025 21:50:15 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12460 di Donatella Casadio Nell’apprendere della scomparsa della storica “profumiera” di Castello Lina Castellari, trovo sia arrivato il momento di inviare a questa pagina un ricordo della sua “rivale” Mary. Ho avuto la fortuna di conoscerle entrambe e si assomigliavano molto; la loro rivalità di bottega durata decenni non ha mai …

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di Donatella Casadio

Nell’apprendere della scomparsa della storica “profumiera” di Castello Lina Castellari, trovo sia arrivato il momento di inviare a questa pagina un ricordo della sua “rivale” Mary.
Ho avuto la fortuna di conoscerle entrambe e si assomigliavano molto; la loro rivalità di bottega durata decenni non ha mai impedito loro di riconoscersi simili e avere un legame di collaborazione e amicizia, soprattutto negli anni della pensione.
Maria Tagliaferri, Mary, come la conoscevano i castellani, Meri per suo marito Battista Ricchi e suo figlio Antonio, se n’è andata tre anni fa, il 29 Maggio 2022, durante la festa di Pentecoste.
Un giorno di festa, e non poteva essere diverso per una persona che fino alla fine dei suoi giorni ha saputo illuminare la stanza con il suo sorriso e i suoi occhi azzurri.
L’insegnamento più grande di Zia Mary è stato il suo atteggiamento nei confronti della vita: sempre sorridente e positiva, non si lamentava mai e affrontava ogni giornata con un sorriso radioso.
Trovava sempre il modo di reagire ai problemi e alle avversità con una creatività sorprendente perché – diceva – “noi che abbiamo vissuto la guerra abbiamo imparato che se una cosa non si può fare in un modo si fa in un altro”.
Quando in giro per Castello prima con la sua bici, poi con il deambulatore decorati con i fiori incontrava qualche amica coetanea che si lamentava degli acciacchi rispondeva “an sì brisa cuntenta che a j’avé mess un etar Nadèl”?
Alla compagnia dei coetanei ha sempre preferito i giovani con i quali ha condiviso lo stesso spirito fino a pochi mesi prima di morire.
A testimonianza racconto un piccolo aneddoto di me bambina di 8 anni, quando l’aiutavo a fare i pacchetti di Natale in Profumeria.
Si presentò un rappresentante di carte e nastri per i pacchetti, proponendole di stampare la carta regalo personalizzata con la scritta “PROFUMERIA MERI”.
Io, già Miss Precisini allora, obiettai che non si scriveva “MERI” ma – come in inglese “MARY”.
Alle insistenze del rappresentante a favore della sua tesi, zia lo mise a tacere dicendo “se mia nipote dice che si scrive così, scriviamo così”: una iniezione di fiducia in me bambina molto più preziosa dei diplomi che diamo oggi ai nostri figli per eventi a volte anche poco significativi.
Tutti noi nipoti, non solo me e mia sorella ma anche i nostri figli abbiamo avuto la fortuna di percorrere un bel tratto di cammino insieme e serberemo sempre nel cuore il suo modo di vivere e il suo sorriso.
Siamo certi che sia lo stesso per tutti quelli che l’hanno conosciuta.
Mi resta il rammarico di non aver raccolto dalla sua viva voce la sua testimonianza di figlia maggiore e maggiore fra i ragazzini della famiglia Tagliaferri, nel difficile periodo bellico e post-bellico, a Monte Battaglia, dove era nata.
Nonno Attilio fu fucilato assieme ad altri in un campo a San Rufillo nel 1944, aveva 43 anni.
Zia Mary si trovò a diventare grande in fretta, come succede ai bambini durante la guerra, e a fare da guida non solo a sua sorella Elena – “Lina”, mia mamma – ma anche a un bel numero di cugini e cugine.

Di seguito il racconto pubblicato sulla 1 edizione della pubblicazione della Compagnia dei Racconti

INTERVISTA A MARIA TAGLIAFERRI

Sono nata nel 1929 e ho vissuto a Casola Valsenio sino all’età di 25 anni.
Ho incontrato mio marito assieme a sua cugina, una mia amica quando ancora abitavo a Casola Valsenio. In quel periodo lui studiava a Reggio Emilia: ci scrivevamo molte lettere, mi spediva molte cartoline. Quando lui finì gli studi, trovò subito lavoro per il partito a Castel bolognese. Anche al suo ritorno ci incontravamo spesso: tutte le settimane veniva a trovarmi a casa, un’abitazione che si raggiungeva solo a piedi e da Casola era una bella camminata (Ca’ De Bosc, Parrocchia di San Rufillo, proprio sotto Monte Battaglia). In due, due, quattro ci sposammo e vennì ad abitare a Castello, sopra al palazzo Ginnasi, al soffitto.
Iniziai a lavorare alla raccolta della frutta: io di lavorare non avevo mica paura: prendevo su anche cassette pesanti e mi offrii per poterle scaricare anche la notte nel pieno della stagione.
Quando mia sorella finì i tre anni di apprendistato dalla Roma Parrucchiera, mi espresse la sua volontà ad aprire un negozio tutto suo di parrucchiera in via Costa dove oggi c’è la Sanitaria. Iniziai ad aiutarla nel lavaggio delle teste. Lavoravamo tantissimo, anche la domenica sino le 14:00. Eravamo molto contente: avevamo i nostri soldini. Fino a quando non si sposò lei visse con me e mio marito nella soffitta sopra palazzo Ginnasi.
Abbiamo lavorato venti anni assieme.
Negli anni successivi si liberò uno spazio più grande, sempre in via Costa con annesso un piccolo appartamento che mi sarebbe piaciuto comprare per toglierci dall’affitto. Cambiammo negozio e comprammo la licenza in Comune dal povero Odo (Oddo Diversi), sia per la parrucchiera che per la profumeria. Allora la profumeria non era conosciuta e fu un problema rilasciarmi la licenza: i profumi li usavano le donne più emancipate, quelle che lavoravano fuori da Castel Bolognese come impiegate. La profumeria col passare degli anni andò molto bene e quindi mi venne la voglia di ingrandire il negozio. Allora sotto al portico c’era Testa Secca che vendeva un locale grande, ma ancora tutto da ristrutturare. Ricordo che mio marito non era d’accordo di comprare l’appartamento: fosse stato per lui saremmo stati ancora in affitto, ma io ero davvero risoluta e gli dissi che se non mi avesse dato i soldi avrei avanzato la richiesta per un mutuo. Andai in banca al Credito Romagnolo che allora era dove oggi c’è Cimatti. Mi accordai con Vittorio del Credito e in soli sei anni sono rientrata dal mutuo pagando anche la ristrutturazione. Negli anni ’70 il lavoro crebbe e mi si presentò l’opportunità per aprire un negozio di parrucchiera anche a Riolo Terme. Con mia sorella decidemmo di aprire un pomeriggio la settimana e la domenica durante la stagione estiva. Le persone di Riolo le ho trovate più accoglienti di quelle di Castello.
Successivamente ho anche frequentato una scuola a Bologna per estetica del viso e ho svolto anche un po’ di attività da estetista: ma allora chi è che si faceva il pedicure! Praticavo soprattutto i trattamenti per il viso.
Dopo questa avventura imprenditoriale venni riconosciuta anche dai castellani.
Oggi ho ormai 90 anni, pesano un po’ ma sono contenta perché mi alzo ancora da sola e svolgo le mie piccole attività quotidiane senza grossi aiuti da parte di nessuno!

Galleria fotografica (Archivio Donatella Casadio e Antonio Ricchi)

Gadget distribuiti dall’attività di Mary

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Ricordo di Tonino Tronconi (1933-2025) https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-tonino-tronconi-1933-2025/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-tonino-tronconi-1933-2025/#respond Mon, 19 May 2025 22:10:12 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12437 di Andrea Soglia con contributi di Lodovico Santandrea Alle soglie dei 92 anni è mancato Antonio “Tonino” Tronconi, un altro pezzo del vecchio Castello. Era nato nel 1933 in una famiglia poverissima, tirata avanti dai genitori che, fra mille privazioni, riuscirono a far studiare la loro figlia maggiore, Rosetta. Quando …

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di Andrea Soglia con contributi di Lodovico Santandrea

Alle soglie dei 92 anni è mancato Antonio “Tonino” Tronconi, un altro pezzo del vecchio Castello. Era nato nel 1933 in una famiglia poverissima, tirata avanti dai genitori che, fra mille privazioni, riuscirono a far studiare la loro figlia maggiore, Rosetta. Quando Tonino nacque il padre era già ultraquarantenne (età considerevole per l’epoca) e Rosetta aveva 8 anni. Rosetta aveva conseguito il diploma di maestra ed era l’orgoglio e la speranza di suo padre, oramai anziano, che aveva riposto in lei anche il futuro economico del piccolo Tonino. Ma il sogno era destinato a svanire: non solo venne la guerra ma anche la malattia di Rosetta, che morì a 19 anni di tisi nel febbraio del 1945, spirando nelle cantine dell’Ospedale.
Tonino ricordava che in un certo qual modo si era come spento anche il padre, e ben presto Tonino entrò nel mondo del lavoro adattandosi a fare i lavori più umili, soprattutto di fatica, visto che era anche dotato di una notevole forza fisica.
Lodovico Santandrea, suo storico amico, ci ha raccontato tante cose che cerchiamo di mettere assieme. Tonino “aveva coraggio da vendere e se c’era un “fughetto” non si tirava indietro: famosa la bastonatura che lui, Mamini e Romano Scardovi dettero nel campo dei salesiani a Faenza ad un lottatore professionista, un bascianazz di due metri che pesava più di un quintale. Il suo eloquio era fluente e aveva sempre la parola pronta tanto che un giorno andò in farmacia chiedendo dei tranquillanti ed al farmacista che gli consigliò un calmante per la gola disse che il tranquillante gli serviva per il nervoso per non poter parlare”.
Il sottoscritto ricorda quanto amasse raccontare i fatti dei personaggi castellani. Era uno spasso sentirlo narrare le “imprese” di Mingò d’la Turca. Gli avevo chiesto qualche aneddoto anche l’ultima volta che l’avevo visto sulla panchina vicino alla sua casa. Le gambe erano oramai malferme ma la voglia di raccontare era ancora intatta. Scherzava anche sul suo deambulatore, vantandosi di avere la Ferrari dei deambulatori. Fino a poco tempo prima si sforzava di arrivare in piazza e di raggiungere il bar Commercio, per rivedere gli storici amici e scambiare qualche battuta. D’altronde, come ricorda Lodovico, era un “lettore accanito e sapeva destreggiarsi su qualunque argomento”. E poi famosi erano i suoi scherzi e le sue battute corrosive, che non risparmiavano nessuno, anche personaggi importanti del paese, “in quanto la sua coscienza era immacolata”. Gli piaceva anche vestire molto elegante, specie di domenica, e gradiva i commenti positivi sul suo abbigliamento.
Si dilettava a scrivere racconti e poesie in italiano e in dialetto. La sua zirudella/filastrocca più famosa, era nata fra i tavolini del bar Commercio, dopo la disfatta dell’Italia (allenata dal castellano Edmondo Fabbri) con la Corea del Nord, dove il protagonista era un topolino (chiara allusione al soprannome che Fabbri aveva da calciatore) e dove la carica di Commissario Unico, abbreviata in C.U. diveniva in dialetto “ciù” (persona non molto sveglia).

“In un dolce paese che dirvi non so un dì un topolino ciù diventò e subito Fani felice da pazzo cominciò nel Commercio a rompere il cazzo. Abbiamo uno squadrone gridava Mattioli, diceva Ricagni, adagio figlioli, restiamo coi piedi posati per terra, la prova del nove è là, in Inghilterra. E mentre la squadra vinceva senza stenti in patria e all’estero i primi cimenti, il buon Falegname vendeva i biglietti che dare doveva agli amici più stretti. E per l’Inghilterra l’Italia salpò, ma dalla Corea battuta tornò, il bel sogno di gloria tosto svanì, il ciù fu cacciato e Fani impazzì”.

In questa pagina vi proponiamo una toccante zirudella “La class de’ maistrò”, segnalataci da Lodovico, in cui Tonino ricordava i tempi della scuola elementare, allievo del maestro Giuseppe Jacchini, soprannominato appunto “E maistrò”. Nel ricordare i compagni, tanti anni dopo immaginava in sogno che si ripetesse l’appello del maestro, ma troppi erano gli assenti che, oramai, erano andati nel mondo dei più. I castellani più grandi riconosceranno tanti dei personaggi citati.
Alcuni suoi racconti in italiano, I cachi, Il cappotto, La gallina erano stati pubblicati sul volume La compagnia dei racconti 2019-2020, e Tonino orgogliosamente mi aveva segnalato la cosa.
Sono passati alla storia anche altri episodi. Ad esempio nel 1954, la neonata Rai si diede molto da fare perché tutti la conoscessero ed una sua squadra, sul finire del mese di agosto venne a Castello per incrementare la diffusione di questo nuovo mezzo di comunicazione. Oltre a divulgare la sua attività, la Rai fece montare un palcoscenico improvvisato sul quale si esibì un ristretto numero di attori. Come raccontava Rino Villa, Tonino Tronconi partecipò con una canzone, cantata allora con la voce roca tanto di moda nei cantanti di oggi, che suscitò tanto divertimento e tanti applausi, da meritarsi alla fine il premio messo in palio da un rivenditore di elettrodomestici, per chi avesse avuto più successo: un ferro da stiro.
Lodovico invece ricorda che, durante un torneo di Biancanigo, Tonino era l’allenatore della squadra del Bar Commercio (dove Lodovico giocava in porta) e all’inizio della partita spiegava la tattica: “Dobbiamo fare un gol in più dei tiri che arrivano in porta a Lodovico”. Nonostante la tattica “lapalissiana”, il Bar Commercio vinse il torneo.
Tonino fu attivo nel movimento cattolico castellano. Era cugino di Nicodemo Montanari, e con lui, futuro sindaco del paese, iniziò un lungo percorso politico prima nella DC per poi spostarsi sempre più a sinistra. Tonino è stato consigliere comunale dal 1960 al 1974 ed assessore dal 1960 al 1964 mettendo sempre avanti il bene del paese. E ne ha sempre continuato a seguire, con passione, tutte le vicende politiche.
Tonino aveva sposato Silvana Gambi che gli ha dato due figli, Gabriele e Rosetta, alla quale Tonino aveva posto il nome per ricordare la sorella tanto sfortunata. E la figlia Rosetta lo rendeva particolarmente orgoglioso con la sua attività artistica, e non mancava mai alle sue mostre, anche in quelle più recenti che visitava a fatica ma con determinazione. Fino all’ultimo si aggiornava anche sull’attività lavorativa del figlio Gabriele, del quale era altrettanto orgoglioso.
La scomparsa della moglie Silvana l’aveva profondamente rattristato. Lo colpivano i tanti casi di femminicidio, e commentava amaro con me: “prendono l’ergastolo per aver ucciso la moglie, quando io mi farei dare l’ergastolo per farla tornare in vita”. E il 19 maggio 2025 ha raggiunto la sua Silvana nel mondo dei più.

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Storia del torrione-studio dello scultore Cesare Ronchi https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/storia-del-torrione-studio-dello-scultore-cesare-ronchi/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/storia-del-torrione-studio-dello-scultore-cesare-ronchi/#respond Sat, 17 May 2025 14:28:37 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12423 di Valerio Brunetti (introduzione) Dal 9 maggio al 9 giugno 2025, si è tenuta la mostra “Cesare Ronchi. La poetica, la scultura”, un percorso espositivo diffuso che ha omaggiato la figura e l’opera dello scultore scomparso nel 2024. L’iniziativa è stata promossa dal Comune di Castel Bolognese in collaborazione con …

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di Valerio Brunetti

(introduzione) Dal 9 maggio al 9 giugno 2025, si è tenuta la mostra “Cesare Ronchi. La poetica, la scultura”, un percorso espositivo diffuso che ha omaggiato la figura e l’opera dello scultore scomparso nel 2024. L’iniziativa è stata promossa dal Comune di Castel Bolognese in collaborazione con la famiglia Ronchi, la curatela dell’artista Stefano Zaniboni e la consulenza dell’architetto Mario Giberti. La mostra è stata articolata su due sedi espositive: l’ex chiesa di Santa Maria della Misericordia (Via Emilia 86/a), dove sono state ospitate una trentina di opere e lo studio dell’artista in Via Guidi 18, aperto eccezionalmente al pubblico.
Soprattutto nello studio vive l’anima di Cesare Ronchi che, nella seconda metà degli anni ’90, ebbe la lungimiranza e il coraggio di acquisire il torrione che da alcuni anni versava in un miserabile stato di conservazione, a seguito di numerosi crolli subiti negli anni precedenti. L’impegno profuso nel restauro e il risultato eccellente ottenuto dopo i lavori (durati diversi anni) sono encomiabili e dobbiamo essere grati a Cesare Ronchi per aver salvato dalla rovina un angolo importante del vecchio Castello. Pubblichiamo un testo sulla storia del Torrione, scritto appositamente da Valerio Brunetti per la famiglia Ronchi, e numerose fotografie storiche dal nostro archivio e da quello della famiglia Ronchi. Un grazie ad entrambi per aver concesso la pubblicazione sul sito (A.S.)

Cenni su Castel Bolognese

Il Castello nasce, ad opera dei bolognesi, alla fine del XIV secolo come “terranuova”, cioè come centro di nuova fondazione.
Inizialmente edificato solo a monte della via Emilia, nei primi decenni del XV secolo si amplia, fino a racchiudere all’interno delle proprie mura un tratto della via Emilia

Il torrione est, studio dello scultore Cesare Ronchi

In questa seconda fase, con l’ampliamento del castello, nasce il torrione est della cinta muraria. Inizialmente ha la forma di quelli esistenti a monte della strada maestra: torrioncini alti e slanciati, di diametro modesto, con merlatura, com’erano quelli di altri castelli dell’area bolognese. Tutte difese predisposte per l’uso di armi “a mano”, tipo archi e balestre.
Dalla metà del XV secolo comincia a diffondersi l’uso delle armi da fuoco. Le strutture dei castelli e delle rocche vengono lentamente adeguate, ribassando le difese e aumentando lo spessore delle murature per poter resistere ai colpi d’artiglieria.
Sicuramente anche per Castel Bolognese, in questo periodo, si profila un progetto di adeguamento delle strutture difensive ma non ne conosciamo i limiti. Le uniche testimonianze certe superstiti erano rimaste la porta del castello, lato Imola, fatta demolire negligentemente dalla Municipalità alla fine del XIX secolo, e il torrione est. Sono i testimoni di un rinnovamento che doveva essere ancora in corso nel 1501, quando Cesare Borgia, ottenuto il castello dai Bolognesi, ne fece atterrare tutte le difese ad opera di milleduecento guastatori appositamente inviati nell’estate di quell’anno. La certezza dell’avvenuta demolizione è stata fornita dallo scavo archeologico del torrione dell’Ospedale, che ha fornito dati di riscontro.
A questo punto possiamo ipotizzare che il torrione est della cinta muraria (oggi Ronchi), debba il suo aspetto “degradato” ad una incompleta opera di distruzione da parte dei guastatori, davanti ad un’architettura militare di nuova generazione, per quanto noto l’unica esistente in tutto il castello. Ipotizziamo che davanti alla consistenza della struttura il “lavoro” non sia stato completato.
Trascurando le scarse notizie sulle vicende della rocca, in parte sicuramente aggiornata, abbiamo invece la certezza che nel 1485 questo torrione era stato terminato.
L’aspetto esterno, con muro a forte scarpa, bocche da fuoco (una superstite, verso la via Emilia, murata all’interno), con cordoli semicircolari e beccatelli destinati a sostenere il coronamento merlato, è simile a quello dei torrioni circolari delle vicine e coeve rocche di Riolo Terme e Bagnara. Purtroppo la struttura interna è andata completamente persa. Rimangono tracce delle volte che coprivano gli ambienti. Prima dei recenti restauri aveva una copertura posticcia, a cui ha rimediato l’attuale sistemazione.
L’architettura militare quattrocentesca si coglie dalla presenza delle tre “casematte”, predisposte per contenere le nuove artiglierie, ricavate nello spessore dei muri, poste in difesa della cinta muraria e verso il campo aperto. Va sottolineato che le quote, che oggi definiamo stradali, all’esterno del torrione, sono aumentate di almeno 1,20/1,50 metri, rispetto a quelle originarie.
Durante i restauri, lo svuotamento del riempimento interno è stato eseguito sotto sorveglianza. Non sono emersi depositi archeologici, in quanto durante l’ultimo conflitto mondiale era stato ricavato un rifugio sottoscavato, accessibile dall’esterno a nord, con lo sventramento di una delle antiche postazioni d’artiglieria, intervento ancora oggi ben leggibile.
Dallo scavo è emersa una curiosità costruttiva: la nuova struttura tardo quattrocentesca, è stata addossata al torrioncino preesistente, come si può vedere dal piano più basso dell’attuale sistemazione. Fortunatamente il restauro ha bloccato il degrado dell’intero complesso.
Diciamo che la storia di questo torrione si fa per ipotesi e confronti, mancando quasi totalmente una documentazione relativa alle sue vicende.
Conosciuto in tempi recenti con il nome “Torrione di Duilio”, dall’idraulico (Duilio Monti (1915-1975), ndr) che l’aveva trasformato nel suo laboratorio, poi come “Torrione del macello” dalla vicinanza di quella struttura.
Tra Ottocento e Novecento, la casa vicina a ridosso delle mura, di cui il torrione faceva parte, era la residenza della famiglia del famoso pittore castellano Giovanni Piancastelli.

Galleria di immagini storiche del Torrione Ronchi

Rovine del torrione prima del restauro (Archivio famiglia Ronchi)

Immagini dell’inaugurazione del torrione il 3 luglio 2000 (Archivio famiglia Ronchi)

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Addio Lina! Ci hai reso tutti più gradevoli https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/addio-lina-ci-hai-reso-tutti-piu-gradevoli/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/addio-lina-ci-hai-reso-tutti-piu-gradevoli/#respond Sat, 10 May 2025 14:38:47 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12393 di Paolo Grandi Con la scomparsa di Angelina Castellari alla bella età di novant’anni, avvenuta all’inizio di maggio 2025, si sgretola un altro po’ del vecchio Castello. Angelina, conosciuta come Lina o Lina ‘d Fumo (soprannome del suo babbo) o La Fumina ovvero Lina Paruchira e poi Lina Profumira è …

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di Paolo Grandi

Con la scomparsa di Angelina Castellari alla bella età di novant’anni, avvenuta all’inizio di maggio 2025, si sgretola un altro po’ del vecchio Castello. Angelina, conosciuta come Lina o Lina ‘d Fumo (soprannome del suo babbo) o La Fumina ovvero Lina Paruchira e poi Lina Profumira è stata un’artigiana e commerciante che ha dedicato al lavoro tutta la sua vita. Era nata alla Pace ed in quella chiesa, seppur a causa della guerra non sia più quella ove venne battezzata, ha voluto si celebrassero le esequie, affollate di parenti, amici e conoscenti.
A quindici anni, attratta dal lavoro di parrucchiera, cominciò come apprendista in una bottega di Castel Bolognese ma presto si trasferì a Bologna in un locale specializzato per affinare il mestiere. Dopo quattro anni a Bologna, il 6 aprile 1955 aprì, non senza affrontare mille difficoltà economiche, il suo atelier nella centralissima Piazza Bernardi, all’angolo con Piazza Fanti ove un tempo la mia bisnonna Rosa Zaccherini vendeva la verdura e l’oca. Le soddisfazioni giunsero molto presto: Lina era la parrucchiera alla moda ed il locale si affollò di clienti anche da fuori Castello. Tra queste c’era mia mamma ed ho vaghi ricordi di mattinate o pomeriggi passati da Lina, che non mancava anche occasione per farmi cantare, con i caschi da messa in piega tutti in attività, tante signore presenti ed altrettante apprendiste che imparavano dalla Maestra l’arte dell’acconciatura femminile.
Lina non si fermò qui. Nel 1968 acquistò in Piazza Fanti ciò che era rimasto della sacrestia della chiesa del Suffragio, già sede della Cassa Rurale ed Artigiana che ne frattempo aveva costruito il nuovo edificio al di là della piazza, l’ampliò ed aprì l’“Istituto di Bellezza” ove c’erano pure la pedicure e la manicure ed una piccola rivendita di profumi: sua caratteristica insegna era un lampioncino bianco sopra la porta. E di nuovo fu un successo.
Ma a Lina piaceva lasciare un’attività “quando è in alto”; e così nel 1980 cedette l’Istituto di Bellezza ad una giovane collega ed aprì nella sua nuova casa di via Piancastelli la Profumeria Castellari, un negozio di élite al quale non sono mai mancati i clienti che uscivano soddisfatti anche per i preziosi consigli ricevuti da lei, la quale per quasi trent’anni ha portato avanti con soddisfazione questo bel negozio. Nei primi mesi del 2010, come confessò a Rino Villa, “dopo cinquantacinque anni di intensa attività a cui ho dedicato tutta la mia vita, ho pensato sia giunta l’ora di fare la pensionata” calando per sempre la serranda della sua profumeria.
Lina amava così tanto il suo lavoro da rinunciare anche al matrimonio; e non le mancavano certo i corteggiatori, visto che è sempre stata una bella donna, elegante e dal portamento molto signorile. Solo a metà del suo cammino ha incontrato Luciano Brandani, divorziato e anch’egli di mezza età ed è sbocciato l’amore, intenso e passionale, durato fino alla morte di lui, avvenuta pochi anni fa.
Da castellana autentica, Lina era attaccata alle tradizioni e nutriva un sincero affetto al suo Castello. Chi non ricorda le sontuose apparecchiature che era solita fare davanti a casa al passaggio della Processione di Pentecoste? Così come era onnipresente ad ogni manifestazione culturale, fosse un concerto o l’inaugurazione di una mostra.
Lina infine aveva un carattere aperto, gioviale e spesso assai ironico. La ricordo ad una Gita del Professore, di quelle ancora organizzate dal professor Borghesi, a Mantova e a Salò; e proprio nella città lombarda, durante una visita risultata un po’ noiosa a Palazzo Tè, arrivati alla Sala dei Giganti si vide Lina inforcare gli occhiali e, alzato lo sguardo su tutti i nudi maschili presenti negli affreschi esclamare: “Oh, aquè sé c’ù j’è dla béla ròba da guardé…” così risvegliando in allegria il gruppo che, nonostante l’itinerario, si era comunque assopito.
Ora la vogliamo pensare accanto al suo Luciano, magari ancora intenta a rassettare qualche testa ad alcuna delle sue vecchie clienti che l’hanno preceduta nel misterioso cammino dell’Aldilà.

Galleria fotografia
(ove non diversamente specificato le fotografie sono state fornite da Anna Castellari, che si ringrazia sentitamente; un grazie anche a Sante Garofani e Domenico Giovannini)

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Aprile 1945: finalmente liberi! https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/aprile-1945-finalmente-liberi/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/aprile-1945-finalmente-liberi/#respond Fri, 11 Apr 2025 13:34:52 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12352 di Paolo Grandi Il giorno di Pasqua, 1 aprile, passò in relativa tranquillità e la popolazione, complice la bella e calda giornata, uscì dalle cantine ed animò il centro, tra le macerie ma osò portarsi anche fino sull’argine del fiume. Ma la calma durò poco e all’imbrunire le granate ricominciarono …

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di Paolo Grandi

Il giorno di Pasqua, 1 aprile, passò in relativa tranquillità e la popolazione, complice la bella e calda giornata, uscì dalle cantine ed animò il centro, tra le macerie ma osò portarsi anche fino sull’argine del fiume. Ma la calma durò poco e all’imbrunire le granate ricominciarono a piovere su ciò che rimaneva di Castel Bolognese e della sua campagna. Gli occupanti tedeschi intanto, ormai consci di non poter più resistere all’offensiva alleata, provocarono altri danni, assolutamente inutili, al solo scopo di rallentare l’avanzata. Nei giorni successivi furono minati i portici di levante sulla Via Emilia e solo grazie all’atto di audacia del giovane Sergio Zurlo, che tagliò i fili delle mine, si salvarono quelli della casa Solaroli. Altre gratuite distruzioni furono l’abbattimento dei tigli di viale Cairoli, degli alberi di Viale Pascoli e dei cipressi del viale del Cimitero. Racconta don Garavini: “la visione più orrenda la presenta il viale della stazione: sembra addirittura una scenda da inferno dantesco.” Poi ciò che rimaneva dell’esercito tedesco, con ogni mezzo comprese le carrozzine dei neonati o le carriole e razziando ove ancora possibile, si ritirò verso Imola; l’11 aprile numerose squadriglie di bombardieri alleati sorvolarono Castel Bolognese liberandosi del loro carico altrove, specie nella bassa.
Poi nella notte una calma irreale si distese sui resti di Castel Bolognese e nella prima mattina di giovedì 12 aprile i Fucilieri Carpatici Polacchi, provenienti da Biancanigo lungo la via Ghinotta, dopo aver attraversato il Senio sotto il fondo “Scaletta” di Casale Faentino, giunsero finalmente a liberare Castel Bolognese. In mezzo a tante distruzioni i liberatori non pensavano di trovare così numerose persone che, a frotte, uscivano dalle cantine. La festa fu grande e l’entusiasmo pure; da alcune finestre si issarono bandiere italiane e polacche, pareva la festa di Pentecoste. Così commenta don Garavini: “È un incrociarsi di saluti e di felicitazioni per aver salvato almeno la pelle. Che importa, se si è perduto masserizie, mobili, e perfino la casa? Tutto ciò è doloroso, ma di fronte alla vita è quasi un nulla. I crocchi più numerosi e più frequenti si notano nel Corso Garibaldi a ponente e nel Borgo, perché le strade ivi sono più sgombre e adatte alla circolazione. Si vedono delle facce quasi irriconoscibili, delle barbacce incolte, lasciate crescere appositamente così per mostrare un’età più avanzata e non essere accalappiati dai frequenti rastrellamenti a scopo di lavoro forzato. Il nostro Castello è irriconoscibile.”
In quella giornata in tanti accorsero alle Sante Messe che furono celebrate sia nella chiesa delle Domenicane, sia in quella della Maestre Pie ed anche in molte cantine. A mezzodì del 14 aprile la campana superstite del mutilato campaniletto della Domenicane suonò l’Angelus dopo tanti mesi di silenzio e nel pomeriggio fu riportato alla luce del sole il simulacro dell’Immacolata. La domenica 15 aprile si celebrò una giornata di ringraziamento con varie Messe, una delle quali alle nove in canto con accompagnamento d’archi. Nel pomeriggio funzione solenne con Te Deum e discorso di don Francesco Bosi Priore di Valsenio cui seguì la messa vespertina celebrata nella chiesa di Santa Maria dello Spedale che, fino all’agibilità di San Petronio riaperta il 18 marzo 1946, funse da Parrocchiale. Lì si celebrarono anche le feste votive di Pentecoste durante le quali furono fatte anche le tre processioni della domenica, lunedì e martedì.
Intanto i Castellani ritornavano alla “normalità” con una grande voglia di ricostruire e molte speranze per il futuro, così come ben descritto da Maria Landi nel suo libro “Il ritorno alla casa sul fiume Senio”. Tra il 16 ed il 20 aprile rientrarono anche le Monache sfollate a Bagnara, mentre pian piano i rifugiati nelle cantine ritornarono alle proprie abitazioni o a ciò che vi rimaneva. Ma la morte per causa della guerra colpì ancora a lungo a causa delle subdole armi: Aldo Cani, facente parte della squadra UNPA ed incaricato di sminare un passaggio sul fiume, perì sul Senio il 15 aprile a causa dello scoppio di una mina; i fratellini Assunta e Augusto Morara, rispettivamente di otto e quasi undici anni perirono tragicamente il 23 aprile a causa dello scoppio di una mina. Assieme ai genitori, di ritorno alla villa “La Capanna” di Biacanigo, che era stata la sede del comando tedesco, i bambini trovarono nella cantina il pianoforte già appartenuto ai Marabini del Camerone e che già i fratelli don Carlo e Nicio avevano provato nei giorni precedenti con l’intenzione di riportarselo a casa. Un tasto era stato minato dagli occupanti ed i bambini, suonando l’intera tastiera, ne provocarono la deflagrazione.
A conclusione di queste cronache, che ho voluto ricostruire perché non si dimentichino i patimenti dei castellani in quei lunghi mesi di guerra, voglio ricordare due episodi felici: l’esercito alleato apprestò nel camerone centrale dell’Ospedale un posto di pronto soccorso militare diretto da un Capitano medico, il quale parlava abbastanza bene l’italiano; egli presentò al dott. Bassi una medicina straordinaria che da noi era sconosciuta ma che salvava tante vite umane: la penicillina. E da quel momento anche i degenti del nostro Ospedale poterono essere curati con la penicillina. Il secondo episodio riguarda un cappellano militare cattolico al seguito dell’esercito alleato; si trattava di un Domenicano e così ebbe modo di entrare nel Monastero e confortare le suore.

La Liberazione e l’inizio della ricostruzione in un disegno di Fausto Ferlini (tratto da: Sul Senio il fronte si è fermato, di Angelo Donati)

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“Vai col liscio!”, film RAI del 1974 con l’Orchestra Casadei… e il nostro Marcellino https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vai-col-liscio-film-rai-del-1974-con-lorchestra-casadei-e-il-nostro-marcellino/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vai-col-liscio-film-rai-del-1974-con-lorchestra-casadei-e-il-nostro-marcellino/#comments Mon, 10 Mar 2025 19:21:37 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12325 di Andrea Soglia “Vai col liscio!” è un film per la televisione girato fra fine 1973 e inizio 1974, diretto dal regista Leandro Castellani e andato in onda in due puntate sul Secondo Canale Rai il 16 e 23 maggio 1974. Fra gli interpreti principali, nel ruolo di loro stessi, …

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di Andrea Soglia

“Vai col liscio!” è un film per la televisione girato fra fine 1973 e inizio 1974, diretto dal regista Leandro Castellani e andato in onda in due puntate sul Secondo Canale Rai il 16 e 23 maggio 1974. Fra gli interpreti principali, nel ruolo di loro stessi, vi furono fra gli altri: Orchestra Spettacolo Casadei con in testa Raoul Casadei, Noris De Stefani, Ely Neri e la sua Orchestra, Santo & Johnny, Dino Sarti, Johnny Sax, Orchestra Castellina-Pasi, Narciso Parigi, la “regina” Nilla Pizzi e il nostro Leo Ceroni.
Così il regista Leandro Castellani ricordava il suo film con un post pubblicato nel 2023 sulla sua pagina Facebook:

“Vai col liscio!”: ha quasi mezzo secolo di vita questo allegro caleidoscopio di suoni e immagini che propose per la prima volta, perlomeno in modo così ampio e diffuso, un panorama della musica popolare, “da ballo”, dell’Italia centrale, quella a base di polke, mazurke e valzer, riprese nel corso di una rassegna ideata e organizzata da Vittorio Salvetti ma arricchita e letteralmente trasformata da me in una vetrina di vita e storia popolare arricchendola di nuove riprese realizzate, oltre che all’interno delle “Cupole” di Castel Bolognese, in vari luoghi della Romagna, con l’assistenza dell’indimenticabile Vincenzo Nonni. E come dimenticare i “ballerini” coreografati e coordinati da Bruno Malpassi? E l’ospitalità non solo gastronomica di Elvino? Il programma, girato a tambur battente perché eravamo caduti inaspettatamente nei giorni del feroce razionamento energetico, fu rielaborato con un montaggio estroso e imprevedibile, specie per l’epoca. Diviso in due parti, ebbe uno straordinario successo, sia di ascolto che di gradimento: un record!”

Tutti gli artisti si esibirono alle nostre “Cupole” e furono ospitati nell’Hotel ristorante Elvino, che all’epoca costituiva non solo un’eccellenza castellana, ma di tutta la Romagna.
Furono varie le riprese anche in esterno a Castel Bolognese. Paolo Grandi ricorda che furono girate alcune scene lungo il viale della Stazione, praticamente davanti a casa sua, con tanti castellani in bicicletta a fare le comparse, fra cui Mingò dla Turca, ma queste scene non furono montate nel prodotto finale.
Andò invece in onda un’altra scena castellana, girata lungo il nostro viale del Cimitero, allora adornato dalla vecchia Via crucis di Carlo Zauli: quella del funerale romagnolo, che, sostanzialmente conclude l’intero film, visto che è in coda alla seconda puntata. Come racconta la voce narrante “con il liscio in Romagna si nasce, si impara a camminare, ci si innamora e ci si sposa, qualche volta il liscio accompagna il romagnolo anche nell’ultimo viaggio: i vecchi lasciano scritto che vogliono questa musica, quel complesso ai loro funerali”. E nei due minuti circa della scena, lungo il nostro viale del Cimitero, accompagnato dal motivo di “Tramonto”, valzer di Secondo Casadei, si snoda un corteo funebre, animato da tanti castellani “assoldati” come comparse, uomini con la “caparela” e donne con il classico fazzoletto in testa, con bara (fornita dal falegname Paviett, Sante Dall’Oppio), portata a spalla da quattro uomini. Davanti alla bara l’Orchestra Casadei al gran completo, e davanti ad essi il sacerdote, interpretato da Vincenzo Nonni, impresario lughese, all’epoca gestore delle Cupole e socio di Casadei nella Ca’ del Liscio di Ravenna. E davanti al sacerdote, nel ruolo di sè stesso, il nostro Marcellino con la croce ad aprire il corteo funebre.
Interpellato al riguardo Marcellino mi ha raccontato diversi aneddoti. Ricorda che la scena fu girata a gennaio, in un giorno molto freddo, e vi furono varie ripetizioni prima che il regista fosse soddisfatto. Marcellino prese molto freddo, tant’è che poi si ammalò pure. A suo dire anche all’interno della bara vi era una comparsa ad interpretare il morto, ruolo che era stato proposto anche a lui, ma che aveva ovviamente rifiutato. Mi avrà preso in giro? Probabilmente la scena era molto più lunga ed era partita ben prima del viale del Cimitero, ma ne fu montata solo una parte. Marcellino ha immancabilmente concluso con un po’ di polemica, dicendomi che gli era stato promesso un piccolo compenso per la comparsa, ma non vide mai una lira!
Marcellino a parte, molti avevano perso la memoria dell’evento che doveva aver fatto abbastanza rumore in paese. Paolo Grandi ricorda che suo padre Tristano aveva invano scritto alla Rai chiedendo una copia del film.
Qualche sera fa, sfogliando online il vecchio Radiocorriere TV il cui archivio è stato digitalizzato, ho trovato notizia del film e delle scene girate alle Cupole. Ho provato a cercarlo su YouTube e con grande sorpresa ve l’ho trovato. Sono poi rimasto stupefatto nel vedere il nostro viale del Cimitero, e nel riconoscere il giovane Marcellino a interpretare sé stesso in un film andato in onda sulla Rai dei tempi d’oro e visto da milioni di persone!
Ci perdonerà quindi Marcellino se abbiamo estrapolato la scena clou dal resto del film e la pubblichiamo sul nostro canale su YouTube, è un patrimonio preziosissimo. E sotto sotto, anche se fa un po’ il recalcitrante, siamo sicuri che sarà contento pure lui.
Un grazie a Domenico Giovannini per aver ritagliato la scena del funerale dal resto del film.
Condividiamo anche i link delle due parti del film. Nella prima parte è possibile vedere anche l’esibizione del nostro Leo Ceroni con il suo complesso, nel suo periodo più splendente.

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Marzo 1945: una primavera di speranza https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/marzo-1945-una-primavera-di-speranza/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/marzo-1945-una-primavera-di-speranza/#respond Mon, 03 Mar 2025 19:35:27 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12321 di Paolo Grandi “Le ciliegie stanno per maturare” è la frase in codice captata da qualche radio clandestina piazzata nelle cantine castellane e che significava che il fronte, a breve, si sarebbe mosso. Per questo motivo marzo fu un mese di intensa attività bellica che gli alleati usarono per fiaccare …

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di Paolo Grandi

“Le ciliegie stanno per maturare” è la frase in codice captata da qualche radio clandestina piazzata nelle cantine castellane e che significava che il fronte, a breve, si sarebbe mosso. Per questo motivo marzo fu un mese di intensa attività bellica che gli alleati usarono per fiaccare la resistenza dell’esercito tedesco; duelli a colpi di granata si susseguirono durante il giorno e spesso anche la notte per tutto il mese e Franco Ravaglia segnala solo tre giornate calme: il 4 il 18 e il 19. Notevole l’attività aerea per tutto il mese con sganci di bombe sul centro ed in campagna. Cosicché ne seguirono ulteriori distruzioni e ciò che non cancellavano bombe e granate veniva abbattuto dai tedeschi per cercare in ogni maniera di ostacolare l’avanzata nemica ma, soprattutto, la popolazione civile subì un notevole numero di morti e feriti. Il diario di Tristano Grandi registra in questo mese il maggior numero di attività svolte dalla Squadra Portaferiti C.R.I., ben 52.
Nella frazione di Biancanigo il parroco don Tambini era riuscito ad istituire una zona “neutra” che comprendeva la chiesa e la casa colonica “Furlona” posta ove ora c’è la Casa d’Accoglienza “San Giuseppe e Santa Rita”. Egli convenne con l’autorità tedesca di stabilivi una zona ospedaliera, libera da militari che non fossero feriti, innalzando sul campanile il vessillo vaticano bianco/giallo. Gli inglesi furono avvertiti ed il patto fu accettato. In Canonica e nella casa adiacente trovarono rifugio tutti gli abitanti della borgata. Ciò avvenne a pochi passi dal fronte, distando quella chiesa poco più di cento metri dal fiume. In marzo tuttavia avvenne il cambio del presidio tedesco, di stanza alla villa detta “la Capanna” e vi subentrarono i paracadutisti, sebbene tra essi vi fossero avanzi di tutte le Armi; costoro chiamarono il Parroco che trattarono come una spia e lo costrinsero ad essere un sorvegliato speciale. Intanto cominciarono a piovere le granate ed una di questa, la sera del 14 marzo, uccise un colono della “Furlona”. Tra il 19 ed il 20 marzo il comando tedesco ordinò l’evacuazione dapprima della canonica poi della “Furlona” ed il giorno 21 un convoglio di circa 40 persone tra le quali donne, bambini, ammalati, preceduti da don Tambini e dall’immagine della Immacolata posta sopra un carro nel quale presero posto le povere cose degli sfollati marciò processionalmente per Imola.
Una parte delle cieche di Bologna, già ospitate a Villa Rossi poi nella canonica di Biancanigo giunsero la mattina del 19 marzo al Monastero delle Domenicane dopo aver trascorso la notte ospitate nelle cantine dell’Ospedale. Nell’atrio del Monastero attesero le ambulanze della Croce Rossa per essere riportate a Bologna, ma queste non giunsero e perciò il comandante tedesco ordinò alla Monache di accoglierle nelle cantine per la notte. L’arciprete Sermasi in quella giornata provvide al loro sostentamento; finalmente il giorno successivo poterono partire.
La festa di San Giuseppe, il 19 marzo, era particolarmente sentita a Castel Bolognese sia perché l’Istituto delle Maestre Pie era intitolato al Patriarca ed anche perché era l’onomastico dell’Arciprete Sermasi. Nella cantina delle Domenicane fu celebrata la Messa con la partecipazione dell’Arciprete il quale impartì la benedizione assistito dal parroco della Pace e da altri sacerdoti e seminaristi. Essendo una giornata bella e calma, tanti rifugiati arrivarono da fuori e la cantina era gremita. Il 25 marzo era la Domenica delle Palme; furono benedetti ramoscelli verdi in sostituzione dei rami d’ulivo che vennero distribuiti ai numerosi fedeli che anche in questa occasione accorsero, nonostante i pericoli, nella cantine delle Domenicane. Durante la Settimana Santa furono celebrate in maniera ridotta le Funzioni del Triduo. Le Domenicane ricordano che fu celebrata la Messa fino al giovedì in cui si fece la S. Pasqua, e la sera il Parroco della Pace parlò loro con accento ispirato della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Nella cantina dei rifugiati il Parroco della Pace aiutato da un altro Sacerdote sfollato e da alcuni seminaristi, compì le funzioni in modo assai ridotto.
Il nuovo mese si apriva col giorno di Pasqua. Una Pasqua di speranza.

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La “quasi-alluvione” del 1978 a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/la-quasi-alluvione-del-1978-a-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/la-quasi-alluvione-del-1978-a-castel-bolognese/#respond Thu, 20 Feb 2025 21:55:44 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12301 a cura di Andrea Soglia; con fotografie inedite di Vincenzo Zaccaria (introduzione) Dal 2016 (nel cinquantenario di una di esse) abbiamo preso a pubblicare sul sito notizie sulle varie alluvioni subite da Castel Bolognese, che qui riassumiamo: 1842, 1939, 1949, 1959 e 1966. Proprio commentando quest’ultima pagina, l’ex sindaco Franco …

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a cura di Andrea Soglia; con fotografie inedite di Vincenzo Zaccaria

(introduzione) Dal 2016 (nel cinquantenario di una di esse) abbiamo preso a pubblicare sul sito notizie sulle varie alluvioni subite da Castel Bolognese, che qui riassumiamo: 1842, 1939, 1949, 1959 e 1966. Proprio commentando quest’ultima pagina, l’ex sindaco Franco Gaglio, purtroppo oggi scomparso, sollecitava la pubblicazione di una pagina anche su quanto avvenuto nel periodo 1978-1979, durante il quale egli era in carica.
Avremmo voluto soddisfarlo, ma solo ultimamente siamo riusciti a mettere assieme qualcosa, grazie al fondamentale contributo di Vincenzo Zaccaria (che ringraziamo sentitamente), che nel 1978 scattò alcune notevoli fotografie, e grazie ad alcuni articoli ritrovati su Vita Castellana del 1978-1979. Vi proponiamo, quindi, questa pagina che speriamo di poter implementare un giorno se tornerà disponibile l’archivio comunale o se qualcuno aggiungerà ricordi personali. Molte argomentazioni che leggiamo sono attualissime
Possiamo definirla una “quasi-alluvione”, visto che i danni furono limitati all’abitato di Biancanigo e non furono drammatici. Gli episodi risalgono al 15 aprile 1978 con una coda il 16 febbraio 1979. Seguirono molti lavori, come documentano anche alcune note che Gaglio aveva scritto nel suo libro e nel commento alla nostra pagina sul 1966. A quella crisi seguì un periodo di relativa tranquillità, interrotta dalla doppia catastrofe del 2023.
Con questo testo dovremmo aver completato la rassegna storica delle alluvioni castellane. Al momento non prevediamo di aggiungere un testo sui fatti del 2023: i ricordi sono ancora vivi in tutti e tutti hanno fotografie nei loro telefoni a rinfrescare la memoria. (Andrea Soglia)

Articolo tratto da Vita Castellana, febbraio 1979

DA BIANCANIGO Riceviamo e pubblichiamo:
Ancora sul fiume Senio

Puntualmente, più volte all’anno, i cittadini di Biancanigo, sono alle prese con le acque minacciose del fiume Senio. E’ sufficiente il prolungarsi di una perturbazione, o il rovescio più abbondante di un temporale a monte, per assistere alla valanga della piena che scende precipitosa e si arresta sulla curva del fiume retrostante la borgata. A distanza di 10 mesi, per ben due volte, abbiamo sofferto l’incubo degli allagamenti. Sabato, 15 aprile 1978, la borgata viene allagata, le acque penetrano nelle case, inquinano le acque potabili, dissestano strade e campi coltivati. Necessita l’intervento dei Vigili del Fuoco .
Venerdì, 16 febbraio 1979, dopo due giorni di intense piogge, arriva una massa d’acqua che supera ogni precedente per l’abbondanza e la violenza. Dal rigurgito del Rio Cupa, l’acqua inizia la sua marcia lungo la via provinciale; quando, fortunatamente, scattano le valvole di sicurezza: più a monte rompono gii argini e le acque invadono gli ampi catini dei saletti.
I danni sono relativi, ma gli interrogativi si fanno sempre più gravi. Fino a quando dovremo vivere con l’incubo di un fiume alle spalle che ingorga le acque e rischia di provocare disastri di imprevedibile entità per noi e per il paese?
Lunedì, 18 settembre 1978, i cittadini di Biancanigo sono convocati in assemblea per discutere il problema Senio. Sono presenti autorità comunali e tecnici della provincia. Al di sopra di ogni proposta, i cittadini di Biancanigo, unici veri conoscitori del movimento delle acque zonali, chiedono con urgenza lo sboscamento del tratto del fiume Biancanigo-Ponte di Castello, la pulizia delle frane, lo sterramento dell’alveo. L’autorità riconosce l’urgenza e si impegna a programmare un primo lotto di lavori prima dei pericoli invernali. Passano molte settimane di silenzio. Finalmente, in dicembre, viene nuovamente convocata l’assemblea a Biancanigo.
Presenti le autorità comunali e provinciali, i tecnici, inaspettatamente, presentano un nuovo progetto-soluzione, spostando la questione dal fiume Senio al Rio Cupa.
Gli abitanti di Biancanigo si ribellano, documentano l’assurdità del progetto, dicono che sono soldi buttati e ribadiscono all’unisono l’urgente necessità della pulizia dei fiume come unica salvezza. Conclusione amara e per niente diplomatica dell’autorità comunale che rifiuta i suggerimenti dell’assemblea e dichiara di porre esclusiva fiducia nell’operato dei tecnici. Poi è ritornato il silenzio generale. Sono passati tre mesi di sole: settembre, ottobre, novembre, e non si è fatto nulla. Se la colpa degli allagamenti debba scaricarsi o no sull’innocuo Rio Cupa, credo lo abbiano potuto constatare “de visu” le autorità comunali e provinciali la sera di venerdì 16 febbraio u.s. Ma è vero anche che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Dunque, signori responsabili del Comune, siete decisi di aspettare l’acqua del fiume Senio sulle soglie dei palazzo Municipale? Signori tecnici della provincia, non è il caso di lasciare da parte certe elocubrazioni che sanno di fantasioso e scendere a livello pratico?
E’ quanto aspettiamo: a nostro vantaggio e a vantaggio del paese.

Un cittadino di Biancanigo


Articolo tratto da Vita Castellana, dicembre 1978

Divergenze sui modi di intervento sul fiume Senio

Negli ultimi mesi si sono svolte due assemblee coi cittadini della zona «Biancanigo» e recentemente anche il Consiglio comunale nella seduta del 14-12 ha espresso un parere favorevole sulla necessità di realizzare con urgenza opere di ripristino e di consolidamento agli argini di difesa del fiume Senio, che anche nel corso di questo anno ha ancora una volta allagato molte case e prodotto danni considerevoli.
Il nostro Gruppo pur valutando positivamente nel complesso il progetto dei tecnici che recentemente hanno affrontato i problemi del fiume Senio nel nostro territorio, ha comunque accompagnato il parere espresso con una precisa riserva intendendo con ciò valorizzare le risultanze emerse nell’ultima assemblea cittadina di Biancanigo ove unanimemente un folto gruppo di cittadini presenti ha indicato con competenza e praticità i modi e i tempi per avviare a definitiva soluzione i problemi in questione come segue:
1) Avvio immediato dei lavori di pulizia dell’alveo del corso d’acqua in questione nel tratto compreso tra Biancanigo e il Ponte del Castello e a valle della ferrovia procedendo contemporaneamente al ripristino delle numerose frane esistenti onde permettere un regolare scorrimento delle acque fino a riportare entro limiti di non pericolo i livelli di massima piena.
2) Congiuntamente a questi provvedimenti e fino a esaurimento del finanziamento attualmente disponibile (circa 200 milioni, IVA compresa) si dovrebbe rialzare l’argine sinistro che di fronte al centro abitato di Biancanigo risulta più basso di 80-90 cm e realizzare una saracinesca o botola automatica che in caso di piena nel fiume impedisca l’immissione di acqua ne! rio « Via Cupa » che ovviamente allagherebbe Biancanigo prima e il centro abitato di Castelbolognese poi.
3) I cittadini di Biancanigo, consapevoli che eventualmente potrebbe esistere anche un rischio pur minimo di allagamento proveniente dalle acque del rio Via Cupa, hanno proposto che si esamini la possibilità di una tombinatura dello stesso, evitando così che il rio medesimo, in caso di non ricettività del fiume Senio, tracimi e provochi allagamenti.
Il tutto in alternativa alle proposte dei tecnici e della Giunta comunale che invece hanno prospettato la tesi dì intervenire arginando il rio Via Cupa congiuntamente a un parziale lavoro di pulizia dell’alveo del fiume; si tratterebbe infatti di privilegiare l’intervento sul rio Via Cupa a tutto danno del ripristino delle frane esistenti nel fiume Senio e ciò per carenza di finanziamenti a disposizione.
Le due diverse tesi, che peraltro non contrastano ma si diversificano solo in ordine alle priorità hanno trovato il nostro Gruppo consiliare schierato con le proposte dei cittadini e bene avrebbe fatto la Giunta a dare un senso e un significato alla consultazione effettuata.


IL CONSOLIDAMENTO DEL FIUME SENIO

Il fiumie Senio, a carattere torrentizio, per il suo andamento sinuoso, con l’alveo quasi a livello di campagna, crea molti problemi in occasione di precipitazioni eccezionali. Per evitare allagamenti è necessario tenere costantemente sotto controllo le opere di contenimento, sia nel nostro territorio che nella parte a monte, ed
intervenire per regolare le sezioni di deflusso, rinforzare gli argini, riprendere le frane, disboscare l’alveo per rendere scorrevole il deflusso delle acque in piena.
La competenza diretta è della Regione, che interviene su propria iniziativa o per richiesta del Comune. I lavori vengono finanziati con piani poliennali dalla Regione stessa.
Con la legge regionale n. 27 del 1974, in dieci anni, sono stati eseguiti nel fiume Senio, nel tratto a monte della via Emilia, i lavori per i seguenti importi:
1974 £ 29.680.000
1979 £ 200.000.000
1980/82 £ 15.000.000
1981/82 £ 70.000.000
1982/83 £ 303.000.000
1983/84 £ 80.000.000
1984 £ 165.000.000
1985 £ 138.000.000

(tratto da: Franco Gaglio sindaco fra la gente, Bacchilega, 2016)


Commento di Franco Gaglio alla pagina sull’alluvione del 1966, datato 2 novembre 2016

Interessante. Sarebbe bello poter leggere della successiva alluvione degli anni 1978-80. La ricordo perché ero Sindaco e mi recai in auto col Vice Sindaco Otello Franzoni e trovammo della contestazione contro l’Amministrazione Comunale. Successivamente riuscimmo a coinvolgere il Geometra del Genio Civile e dopo un inizio di trattativa con Bartoli Gildo, proprietario della terra dove si doveva fare l’intervento, riuscimmo nella Sala del Consiglio Comunale a raggiungere l’accordo. Il Genio Civile realizzò l’intervento e da allora non vi è stata alluvione, nonostante non siano mancate grandi piene. L’intervento è stato consistente e ben fatto. Ne fu soddisfatto lo stesso Bartoli.

Album fotografico inedito di Vincenzo Zaccaria (che si ringrazia sentitamente)

 

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Febbraio 1945: addio Torre! https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/febbraio-1945-addio-torre/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/febbraio-1945-addio-torre/#respond Mon, 03 Feb 2025 22:22:42 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12248 di Paolo Grandi Il nuovo mese di passione cominciò con la più grave offesa perpetrata dai tedeschi ai monumenti di Castel Bolognese: l’annientamento del suo simbolo cioè la medievale torre civica. Più volte colpita, smozzicata dalla parte di levante, offesa da un carro armato nelle sue basi, nella mattina di …

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di Paolo Grandi

Il nuovo mese di passione cominciò con la più grave offesa perpetrata dai tedeschi ai monumenti di Castel Bolognese: l’annientamento del suo simbolo cioè la medievale torre civica. Più volte colpita, smozzicata dalla parte di levante, offesa da un carro armato nelle sue basi, nella mattina di domenica 4 febbraio i guastatori tedeschi iniziarono a minarne la base e ad avvisare la popolazione che nel primo pomeriggio l’avrebbero abbattuta. Così alle ore 14 un tremendo boato ed una forte scossa segnarono ciò che restava del Castello, che ora aveva perduto per sempre la sua piazza dal carattere rinascimentale. Un’altra vittima di questi giorni fu il campanile della Domenicane, l’unico non ancora colpito. L’arco a mezzogiorno, dove era la campana maggiore requisita fu spaccato da una granata nel pilastro esterno: la parte inferiore si sbriciolò e il moncherino superiore si afflosciò sul pilastro mediano, restando attaccato da questo lato nella parte superiore. Rimase tuttavia intatta l’altra campana.
Centro e campagna furono tormentate da tiri di granate ed attività aerea quasi quotidianamente: Franco Ravaglia annota solo una relativa calma nei giorni 3 e 18 e nella mattina del 25. Solo nel pomeriggio del 25 vi fu un bombardamento aereo che interessò la campagna.
Meteorologicamente, si alternò un tempo invernale con anche qualche spolverata di neve sulle rovine della torre, ma si contarono anche alcune giornate di primavera precoce che invitarono i castellani ad uscire dalle cantine.
Angelo Donati riferisce che l’umore dell’esercito tedesco era mutato ed i militari stavano diventando sempre più duri ed intransigenti, segno per loro che le cose stavano volgendo al peggio. La popolazione ne era atterrita e bastava un nulla per suscitare reazioni violente, spesso omicide. In un impeto di estrema difesa i soldati reclutavano gli uomini validi sotto minaccia di morte per aprire trincee, camminamenti e costruire altri lavori di difesa.
Dalla chiesa di San Francesco, sempre dietro la direzione di don Garavini furono portate via in fretta la statua lignea di S. Antonio di Padova, rifugiata in Palazzo Ginnasi e il Crocifisso, riparato nel Monastero delle Domenicane assieme alle Reliquie del relativo altare. Intanto continuavano i saccheggi e le razzie nelle case e nelle chiese sventrate dalle granate e dalle bombe.
Arrivarono i Padri domenicani di Bologna per ritirare gli arredi sacri più preziosi della loro Basilica poiché erano stati portati nel Monastero per metterli in salvo; l’operazione avvenne con ogni cautela, girando talvolta anche di notte e dal Capoluogo qui portarono viveri e medicinali, racimolati non senza difficoltà dai castellani residenti a Bologna, in particolare Mario Santandrea e Romolo Tosi. Le Monache affidarono ai domenicani anche gli oggetti più preziosi della loro chiesa e di San Francesco oltre alle macchine da maglieria ed altre cose
Non mancarono eccidi, vittime e ferimenti. Il 12 febbraio al podere Anna nella parrocchia di Borello avvenne il secondo fatto di sangue più grave dopo quello di Villa Rossi e che costò la vita a dieci persone; questa volta fu un colpo sparato dagli alleati che cadde vicino al rifugio ove si trovavano i coloni di quel podere ed altri sfollati. Il 17 febbraio l’UNPA ebbe il suo tributo di sangue: Ariovisto Liverani, genero di Arnaldo Cavallazzi, fu ferito gravemente da una scheggia di granata mentre era all’opera per abbattere un muro pericolante; trasportato all’ospedale di Imola, morì il giorno successivo, lasciando la moglie e due figli. Andrea Casadio invece, che cercò di soccorrerlo, cadde all’istante. Infine il 26 febbraio morì sulla via Emilia, nel Borgo, l’ing. Ugo Ortolani, co-autore del nuovo pavimento della chiesa di San Petronio, colpito da una scheggia di granata. Ritornava assieme alla domestica Dorina Martelli, la quale rimase ferita ad un braccio, dalla propria casa con un carico di grano che aveva lasciato nel momento di sfollare nelle cantine delle Domenicane.

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