Le Rimembranze

Questo elzeviro di Francesco Serantini, tratto dal Giornale dell’Emilia del 23 giugno 1949, ricorda in molti passi “Le ricordanze”, un elzeviro più famoso di questo e anch’esso contenuto in questo sito. Vale la pena, però, leggerlo per conoscere altri aneddoti della storia di Castel Bolognese e della sua torre civica.

Il “caffè della guerra” del Mas-cì (Giovanni Tosi) in una vignetta del 1929. Castel Bolognese era anche chiamato “la piccola Parigi”. Da notare anche la Torre e la sua scaletta di accesso.

Sono andato a Castello il lunedì di pentecoste, che da anni non ci andavo più, ci sono stato tre ore e sono state tre ore di accorata malinconia. Nessuno mi ha offerto un bicchiere di albana, anzi mi sbaglio: me lo ha proferito il mio vecchio amico Carluccio che ha sei o sette denti d’oro, è pieno di quattrini e fa l’anarchico, ma poi, non so come, se n’è scordato e fatto sta che son rimasto con la sete. Ho visto Mario, lo speziale, che sta fuori ed era venuto anche lui a ritrovare il nostro paese, quel caro paese che non è più quello: sbrecciato, sbrendolato, tutto buchi e rattoppi e quei pochi, brutti.

Vorrei sapere che cosa hanno nella testa quelli che comandano in Comune: i portici erano la caratteristica di Castello, cari portici che mi tocca chiudere gli occhi per rivedervi, e sissignori che si è permessa la ricostruzione delle case sulla Via Emilia, che taglia a mezzo il paese, case dico senza portico. I portici e le oche di Castello, che le ha ricordate persino il Carducci.

E la torre, la torre che era in piazza e aveva non so mai quanti secoli e non c’è più perché i tedeschi ci misero sotto una carica di tritolo e buonanotte la torre. Nicola liutaio ci ha fatta una passione. Essa era l’ingresso dell’antico castello:

“Li regenti di Bolognia mandarono misser Alberto dei Galuzzi cavaliere con quattrocento lanze e multa fantaria e questo fue l’anno 1381, il quale messer Alberto feze acordo cum Franzisco de Manfridi in questo modo, che il Comune li debbi dare tre millia fiorini d’oro et sexsanta al mese de prouixione in tempo de diex ani et una caxa fornita et farlo citadin de Bolognia, misser Alberto furnì el dito castello per el comune de Bolognia et sopra la torre maistra poxe la bandiera del comune de Bolognia”.

Dunque quella cara torre nel 1381 aveva spiegato al sole la bandiera del Comune bolognese e certamente le lanze di messer Alberto dei Galluzzi l’avevano salutata schierate in ordinanza.
Diroccò nella piazza Bernardi e la riempì perché è una piazza larga quanto una mano. Venti anni fa i soliti servi sciocchi cavarono il nome di Giovanni Bernardi e ci misero Benito Mussolini il quale ebbe il giudizio di ordinare a quei sempliciotti di rimetterci l’antico nome che si meritava di starci se persino quella cattiva lingua di Benvenuto discorrendo del Bernardi lo chiama “molto valentuomo per fa medaglie di quella sorte che io facevo”.

Giovanni era un maraviglioso intagliatore di cammei, di cristalli e di acciaio e fra molti lavori fece una medaglia col ritratto di Clemente settimo e nel rovescio quando Giuseppe si scopre ai fratelli; della quale bellissima opera il papa mediceo lo rimunerò con l’ufficio di mazziere pontificio oltre a essere, insieme con Tomaso d’Antonio sopranominato Fagiuolo, stampatore della zecca pontificia.

Ne hai vedute di vicende, vecchia torre, in tanti anni che sei stata su e io delle volte guardandoti pensavo che tu avresti seppellito anche me come gli altri castellani, viceversa sei partita tu, ti abbiamo seppellita noi. Col tuo orologio tu scandivi le ore delle nostre notti quando facevamo infinite volte il giro delle mura a discutere e a contare i fatti; le discussioni andavano dalla politica alle donne alla filosofia e mai che fossimo buoni di farle pacatamente, macchè, ci scaldavamo subito ed erano grida e accenti concitati, senza un po’ di rispetto per i cristiani che dormivano. E quante volte, Gianni che adesso riposi in terra, ti abbiamo fatto contare l’assedio di Arta dove eri chiuso e la notte, quand’eri di sentinella, tiravi ai topi grossi come gatti, per mangiarli e un sergente greco balzava fuori insonnolito e tu allora gridavi pòlemos e quello masticava chissà quali bestemmie, finchè scoprì che pòlemos erano i topi.

Talora, a mezzanotte all’una alle due qualcuno faceva: “però una piadina fritta nel grasso non ci starebbe mica male, che ne dite?” e allora si andava a casa a arraffare di nascosto delle bottiglie e finiva che all’alba avevamo gli occhi lustri e parlavamo tutti in una volta e taluno misurava di sghembo la strada e i più schietti accompagnavano a casa quelli che non sapevano andarci con le gambe. Una volta Angiolino, che adesso fa il medico, si sbronzò e siccome aveva la sbornia malinconica così piangeva come un vitello e dava la colpa al pane fresco di Gnazi, che lo aveva ubriacato. Gnazi faceva il fornaio e da lui andavamo sulle tre, quando i garzoni facevano la prima sfornata delle ciambelline dolci da un soldo, che sua moglie metteva su una faccia interita e lui rideva, a vederci diluviare, con quella sua bocca di fauno. Era andato in Grecia nel novantasei a battersi coi garibaldini di Ricciotti, lui, Gianni, Palitèna, Silvestrini e Capra. Capra e Silvestrini non erano tornati, erano rimasti sottoterra a Domokos con Antonio Fratti; Gianni aveva aperto un Caffè che si chiamava il Caffè della guerra e alla prima figlia aveva messo il nome Arta, in memoria dei topi che s’era mangiato laggiù, poi sua moglie gli aveva scodellato due gemelli che erano Romolo e Remo.

E Masino? Masino era un bel tipo di speziale, gli mancava una gamba, aveva la dentiera, un occhio di vetro e un garzonetto semplice, sicchè penso di giocargli un tiro: un pomeriggio lo chiamò nel retro, dove c’era un letto per quando la farmacia era di turno, e disse: “mi butto giù un’ora perché non mi sento in essere” e il garzone lo aiutò a togliersi la gamba di legno: “portami due bicchieri con l’acqua” e il garzone gli portò i due bicchieri e Masino in uno ci fece cadere i denti, nell’altro l’occhio di vetro, il garzone guardava in tralice tra sorpreso e impensierito: “adesso stendimi questo asciugamani sul petto, così, bravo, e poi pian piano, con garbo, sfilami la testa…”. Il ragazzotto fece un salto come se lo avesse morsicato la tarantola e schizzò via esterrefatto.

E’ la calata del sole, le ragazze sciamano vestite di colore, da Badone i bevitori inzuppano i bracciatelli nell’albana dolce, vecchie giostre girano sul prato della Filippina, Mario si danna con un nipote di tre anni che vuole montare sui cavalli e pretende che il nonno salga anche lui ma lui si vergogna di farsi vedere a cavallo di una giostra; ormai leveranno la tombola, se mi fermo stasera a sentire la Banda tornerai ancora sul podio per me, vecchio maestro che dirigevi col berretto calato sugli occhi e cominciavi sempre con “poeta e contadino” di Supèe.

Il bamboccio strilla come una aquila: dallo a me, Mario, monteremo tutti e due sulla pariglia di legno, non aver paura lo terrò ben stretto e non mi cascherà. Andremo su questi ippogrifi fin nella luna dove incontrerò tutti quelli che non ho visto oggi e la mia giovinezza fiorita e mi passerà la sete e la malinconia: tanto, qui senza la torre non saprei ritrovare le stelle dell’Orsa che, ricordi, ci scintillavano sopra.

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