Quel fantastico giovedì al prato delle Filippine

di Edmondo Fabbri
testo tratto da: Imolese 50 anni, a cura di Ferruccio Montevecchi, Imola, Eco Sonor, 1969

(introduzione) L’8 luglio 2025 ricorre il trentesimo anniversario della morte di Edmondo Fabbri, Mundì, la cui vita calcistica (e non solo quella) fu rovinata da una sola disgraziata partita, la fantomatica “Corea”. I giornalisti lo maltrattarono senza pietà e anche a quasi 30 anni di distanza, al suo funerale, nella chiesa di San Petronio, in una calda giornata, non partecipò quasi nessuno del mondo del calcio dell’epoca e di quella precedente. Oggi il ricordo della Corea è oramai attenuato, come ricordano i figli, “per tutti i cambiamenti avvenuti nel mondo, non solo del calcio, e per le delusioni della Nazionale negli ultimi anni”. Ma per Fabbri fu una croce che si portò sempre addosso.
Ricordiamo Mondino con un bellissimo testo scritto da lui stesso nel 1969, nel quale racconta la sua storia di grande calciatore (militò in serie A) e di grande allenatore (indimenticabili i successi del suo Mantova, ribattezzato il “piccolo Brasile”). Romanticamente era tutto partito dal prato della Filippina (anche se Mondino lo chiama delle Filippine), sul quale sbocciarono tanti talenti castellani, quando un giorno del 1937 i talent scout dell’Imolese ingaggiarono Fabbri dando inizio ad una grande avventura. (Andrea Soglia)

Quella meravigliosa primavera del 1937. La ricordo come se fosse oggi. Le gioie si dimenticano presto, le amarezze rimangono. Ma quel giorno mi è rimasto nel cuore e nella mente: un fantastico giovedì, come nel libro di Steinbeck. Il prato delle Filippine di Castelbolognese, il cielo azzurro sopra un mare di verde e io piccolo là ad aspettare la fata Morgana. Venne vestita coi panni dei dirigenti dell’Imolese. Fra i tanti ne ricordo un paio che oggi hanno i capelli bianchi: Pagani e Macallino. “Volete venire con noi nell’Imolese?” ci dissero. A quattro o cinque la terra tremò sotto i piedi, lo ricordo come fosse adesso. Io poi non credevo, avevo sedici anni e mi alzavo alle due di ogni mattino per aiutare papà a impastare e ad infornare il pane. Una grande fatica. Ma i muscoli erano forti e snelli, la mente sveglia, la voglia di correre e saltare tanta. Però la mia statura (mi chiamarono poi “topolino”) non era adatta per un giocatore di calcio, e gli amici mi consigliavano il ciclismo. Li presi in parola, ma intanto il mio desiderio era la palla rotonda. Anche perché due dei miei quattro fratelli, Camillo e Amedeo, dimostravano di saperci fare e io quasi li invidiavo.
I dirigenti dell’Imolese dissero a me, a Robbia e a Mazzacurati se avevamo piacere di essere dei loro. La risposta è facile intuirla. Niente stipendio, ma il rimborso-spese. Così i sette chilometri da Castelbolognese a Imola tornava il conto farli in bicicletta anziché in treno. Un piccolo guadagno per poche pedalate. Ma un giorno, quando “volavo” dietro un camion, incorsi in uno spettacolare capitombolo in località della Selva. Credevo di essermi rotto tutto, di non farcela più a camminare. Invece mi rimisi rapidamente in sesto. I dirigenti dell’Imolese non mi tennero in naftalina. Avevo l’età per giocare coi ragazzi, ma loro preferirono farmi esordire subito in prima squadra. Quando ci penso mi viene il groppo in gola. Fu una stagione bellissima fra continui applausi. Ero diventato un idolo della città. Non dimenticherò. L’incentivo era stato grande e tale da maturare altre ambizioni. Il Bologna mi richiese, tramite il dottor Santandrea, e io morivo dalla voglia di vestire il rossoblu della serie maggiore. Ero allettato anche dalla promessa di un buon stipendio: duecento lire al mese.
I dirigenti dell’Imolese dissero di no ed io rimasi fermo per due mesi. Poi Vico Minguzzi mi parlò come un buon padre e disse che anche lui era disposto a darmi duecento lire al mese. Mi fece vedere anche la somma, tutta in colombini da cinque lire che rilucevano. Per me era un tesoro. Inoltre, da quel galantuomo che era, aggiunse anche che, se volevo, alla fine della stagione ero libero. Io però non ne approfittai. Oltre tutto mi impegnai nel campionato. Ricordo una partita indimenticabile contro il Dopolavoro Ferroviario di Rimìni. Vincemmo per 8 a 0 e sette reti le misi a segno io.
II campionato della stagione appresso (’38-’39) fu appannaggio nostro. E la spuntammo anche contro il Castelbolognese, dove mio fratello Amedeo cercò di rendermi durissima la partita, mentre gli altri miei due fratelli Raimondo ed Everardo facevano il tifo per me. Ormai però era giunto il momento dell’addio, niente Bologna, stavolta, ma il Forlì per sostituire mio fratello Camillo passato al Bari. Quindicimila lire la cifra d’acquisto e per me lo stipendio raddoppiato, quattrocento lire più i premi di partita. Il contributo calcistico che davo alla famiglia mi permetteva di alzarmi non più alle due, bensì alle sei. Però ero costretto ancora a fare il fornaio. Non che mi dispiacesse dare un ulteriore aiuto a mio padre e ai miei fratelli, però col calcio avevo capito che potevo risolvere la mia posizione.
Correva la stagione 1940-41 quando il signor Fiorentini, su segnalazione di un amico, mi chiamò all’Atalanta: centomila la cifra di acquisto, ridotta poi ad ottantamila perché nel corso di una partita a Imola (Arti Mestieri contro Studenti) mi ero infortunato. Ricordo alcuni amici di quel match: Buldrini, Rivola, Marchetti, Dall’Osso, Patuelli, Martini, Bonora. Il mio primo stipendio da professionista nella squadra orobica veniva concordato in millecinquecento mensili. Un’altra stagione con l’Atalanta poi ancora in nerazzurro ma con l’Inter, quella di Masseroni, cifra d’acquisto 225 mila lire. Indi un campionato di guerra col Faenza in attesa che il mondo potesse risorgere. Il ritorno all’Inter nel ’45-’46, il passaggio alla Sampdoria nel ’46-’47, tre stagioni all’Atalanta ancora dal ’47 al ’50 compreso. La parabola discendente: al Brescia nel ’50-’51, indi ancora più giù, al Parma per quattro anni fino al ’55 con la consolazione di salire con la squadra dalla C alla B.
Il calcio attivo era finito, forse duecento partite in serie A e anche più e pure una presenza nella nazionale giovanile contro l’Ungheria nella Pasqua del ’42. Tre a zero per noi. Due gol di Cappello e uno mio. La formazione me la ricordo ancora: Franzosi; Ballarin, Piacentini; Parola, Todeschini, Toppan; Fabbri, Ispiro, Cappello, Baldini e Puccinelli.
Scarpe al chiodo, ma non l’addio al calcio. Avevo appreso giocando, potevo insegnare: un desiderio grande come l’altro. Ancora l’amico Fiorentini mi segnalava al Mantova, allora presieduto dall’avvocato Bellini. Una famiglia patriarcale con una adeguata politica. Giocatori con un massimale di cinquemila lire al mese e tanta, tanta passione in corpo. Un campionato d’assaggio quello del ’55-’56 e il terzo posto, secondi e promossi in serie d’eccellenza in quello successivo; passaggio in serie C nel ’57-58, in B nel ’59-’60, in A nel ’60-’61. Quattro giocatori, Negri, Bonghi, Giagnoni e Recagni mi avevano seguito dalla quarta serie alla A. Bei giorni anche quelli, quanti applausi. Poi, storia abbastanza recente, la Nazionale che mi aprì le porte nel ’62: circa trenta partite alla guida degli azzurri fra A e B. L’infausta giornata di Middlesbrough con la Corea. Il crollo di un mondo e anche di un mito, a sentire certuni. Un anno fermo, due anni al Torino, ed eccomi al Bologna come allenatore. E dire che trent’anni fa mi avevano richiesto come giocatore. Chissà quali altre strade avrei preso se il povero Minguzzi non mi avesse convinto…
Certo gli sono grato per avermi detto tante cose belle e giuste. E sono grato al mondo del calcio minore per avermi fatto comprendere quanto valgano i sacrifici, l’onestà e la dirittura morale. Amo ancora quel mondo fatto di piccole cose e anche di poesia.
Molto è cambiato da quegli anni quando scendevo a rotta di collo da Castelbolognese a Imola in bicicletta per guadagnare cinque lire sulla trasferta. Ora è nata l’aristocrazia calcistica anche in provincia, ma l’Imolese rimane per me una bandiera alla quale sono e sarò sempre affezionato. Sempre mi ricorderò quel fantastico giovedì del prato delle Filippine.

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