Cronache dei soccorsi dai giornali dell’epoca

“[…] Castel Bolognese ha vissuto una giornata che rimarrà scolpita anche nel ricordo dei più giovani. Sembrava, specialmente nelle prime ore della mattina, una retrovia di guerra, con andare e venire di camion e di autoambulanze carichi di feriti e di automezzi dell’esercito, dei carabinieri, della polizia. Le strade di accesso alla stazione erano bloccate da squadre di agenti che lasciavano passare soltanto le macchine di coloro che dovevano partecipare ai soccorsi e fermavano anche le persone a piedi. Malgrado questo, intorno alla stazione era accorsa, per vie trasverse e per i campi, gran parte della popolazione del paese. Una visione terribile. I bombardamenti aerei di tragica memoria non lasciavano uno spettacolo così desolante: scavavano buche, sventravano qualche carrozza, bucavano qua e là le pareti di lamiera. Ma oggi, qui a Castel Bolognese, il locomotore ed i sedici vagoni che componevano il convoglio, erano rovesciati, fracassati, incastrati gli uni negli altri. Sembrava che una mano enorme li avesse stretti in una poderosa morsa e li avesse gettati fra la rete dei binari dello scalo come carta da buttare nell’immondizia. E intorno a questi poveri resti di un terrificante gioco del destino, c’erano gli uomini in[tenti a scavare, a tagliare lamiere con la fiamma ossidrica per cercare i morti; v’erano uomini con le mani fasciate alla meglio, il volto sfregiato da segni insanguinati, che cercavano quelle che erano state le loro valigie. La tragedia è accaduta alle due meno qualche minuto. Il diretto 152 passa per Castel Bolognese all’una e cinquantadue, ma questa notte aveva cinque minuti di ritardo. Era un treno come tanti che correva nella notte con il suo carico umano di sofferenza, di ansia, di speranza. Molta speranza, perché c’erano, a bordo, tanti emigranti che andavano in Germania, in Svizzera, in Francia a guadagnarsi un pezzo di pane meno duro di quello che offre la loro terra del sud. Il convoglio filava alla velocità di 100 chilometri all’ora e sarebbe arrivato a Milano poco dopo l’alba, alle 6,27. I 100 chilometri all’ora dovevano ridursi, nel tratto prospiciente la stazione, a 30. […]

Il locomotore è uscito dal binario, si è rovesciato sul fianco destro ed è andato avanti così, sradicando le traversine, strappando dal suolo rotaie, piegandole addirittura a forma di otto, come se fossero fuscelli. E dietro, il bagagliaio, le quattordici carrozze, viaggiatori ed il carro merci che componevano il convoglio a loro volta si rovesciavano, si accavallavano, perdevano i carrelli, si sventravano in un rombo assordante, spaventoso. I fili che portavano corrente sono venuti in contatto tra di loro, hanno fatto una serie di fiammate, il corto circuito ha fatto automaticamente scattare gli interruttori di sicurezza lungo la linea e la corrente è venuta a mancare, fortunatamente prima che i fili, strappati dai pali divelti, toccassero le carrozze. Quanto è durato il disastroso evento? Sette, otto secondi, non di più. Il tempo che impiega una donna a balzare dal letto e a gridare: “Lino, c’è la fine del mondo”. La donna è Maria Dal Prato, Lino è suo marito, Sangiorgi. Hanno 38 anni, abitano in via Parini n. 2, una casa che fiancheggia la ferrovia all’altezza dello scambio fatale. Una delle carrozze, il bagagliaio, è andata a sbattere proprio contro il muro della casa e vi ha aperto una crepa. La donna è corsa nella stanza dei figli, li ha trovati alzati e spaventatissimi, si è affacciata anche alla loro finestra che dà sul retro della casa, verso il fascio dei binari. A un metro dal davanzale del primo piano c’era un angolo sventrato del bagagliaio. La donna ha assistito, in quei pochi attimi che seguivano il disastro e che erano dominati da un tragico silenzio, ad uno spettacolo quasi allucinante: le mani di cinque uomini s’aggrappavano ai bordi frantumati del carro in cerca d’una via di salvezza e contemporaneamente dal vuoto dello squarcio uscivano, con un frusciare fitto e leggero, centinaia di storni. Nel cielo livido della notte, lo sciame si è alzato in volo, come un segno di gioia, ed era invece un simbolo di morte. Le mani che si aggrappavano erano quelle di cinque ferrovieri. Gli storni viaggiavano in gabbie, destinati a una zona di ripopolamento. Gli attimi del silenzio che aveva seguito la catastrofe erano finiti. La Sangiorgi e suo marito hanno incominciato ad udire i lamenti e le invocazioni di aiuto. Voci lacerate dalla disperazione e dal terróre, di donne, uomini, bimbi. Dapprima isolate, poi più frequenti, serpeggiavano lungo tutto il convoglio. Era uno strazio sentir gridare aiuto e invocare nomi di persone che non rispondevano, che forse erano morte. Lino Sangiorgi si è vestito in fretta, è corso fra i binari mentre stavano uscendo dai loro alloggi il capostazione Carroli, i dirigenti Cattani e Zannoli e i due deviatori che erano di servizio alla cabina. L’opera di soccorso è incominciata così, nel buio, con il solo ausilio di fiammiferi e d’un paio di pile elettriche. E c’era, in tanto buio, la fioca luce dei fanali del locomotore, rimasti accesi nonostante il disastro, con la corrente delle batterie. Il Sangiorgi, che è camionista, ha messo in moto il suo “Chevrolet” e ha incominciato a caricare feriti. Il capostazione ha dato il primo allarme all’ospedale e al medico fiduciario delle ferrovie, dott. Bagnaresi, che abita in paese. L’organizzazione sanitaria è stata curata con tempestività da questo medico, il quale ha telefonato alle sedi della Croce Rossa di Castel Bolognese, Faenza, Imola e Lugo, per far accorrere ambulanze, e ha mobilitato i tre medici liberi professionisti e i cinque medici ospedalieri.

Nel giro di mezz’ora metà paese era in piedi e correva verso il luogo della sciagura. Tutti coloro che disponevano dì un automezzo si sono prestati per il trasporto dei feriti. Una delle prime ad essere portata all’ospedale di Faenza con una macchina privata, è stata Carmela Pavan, di 24 anni, una veneta che stava tornando dal viaggio di nozze Si disperava perché non trovava più suo marito; ma anche lui si è salvato. […] I morti via via ricuperati venivano portati nella camera mortuaria dell’ospedale di Castel Bolognese. Verso l’alba, quando le prime luci del giorno hanno permesso di vedere nel suo insieme la tragica scena, molti si sono chiesti come abbiano fatto tante centinaia di persone (il treno portava circa 1200 viaggiatori) ad uscire indenni da tanta rovina di materiale. […]

Poi nel pomeriggio, dopo che era stata estratta l’ultima salma ed erano stati recuperati tutti gli oggetti personali dei viaggiatori e il contenuto dell’unico carro merci (migliaia di scarpe femminili destinate a clienti del nord di una fabbrica di Porto S. Elpidio di Ascoli Piceno), è iniziato l’intervento di una potente gru che ha rimosso i rottami delle vetture. Poi, a notte inoltrata, si sono messi all’opera circa 200 operai per la ricostruzione dei binari andati distrutti. […]

Per tutta la giornata di oggi è stato un accorrere di gente anche dal Sud, in cerca dei loro parenti che erano partiti mercoledì con il tragico diretto 152; alla stazione e alla caserma dei carabinieri sono affluite centinaia di telefonate di persone che volevano conoscere i nomi dei morti e dei feriti. Le salme, molte delle quali sfigurate, nella mattinata di domani verranno composte nelle bare e trasportate nella chiesa di San Francesco, trasformata in grande camera ardente. I funerali si svolgeranno alle 16,30 partendo dalla chiesa di San Petronio. Degli 86 feriti che sono ricoverati negli ospedali (31 a Imola, 24 a Castel Bolognese, 31 a Faenza) una ventina versano in gravi condizioni. Anche oggi pomeriggio, come già stamattina, i chirurghi sono dovuti intervenire per amputare arti che minacciavano di andare in cancrena. […]”

Da La Stampa del 9 marzo 1962

Foto ANSA scattata durante la notte del disastro (Archivio Pier Paolo Sangiorgi)

Foto ANSA scattata durante la notte del disastro (Archivio Pier Paolo Sangiorgi)


Ho raccolto quattro morti alla luce dei fiammiferi

-Il drammatico racconto di uno dei primi soccorritori -Due sorelline erano rimaste accanto alla loro mamma morta -Nelle corsie degli ospedali, fra le decine di feriti

“Ho raccolto 4 morti alla luce di alcuni fiammiferi. Assieme ad altri li abbiamo portati sulla scarpata. Fra le braccia di una donna che stava spirando ho afferrato una bimba di 8 mesi”. Così ci racconta con un nodo alla gola Romano Scardovi, il centroattacco della squadra di calcio del Rimini. E’ accorso sul posto della sciagura forse per primo. Al momento della disgrazia si trovava in casa sua, a trenta metri, ed è giunto in un baleno.

“Avevo ancora la bimba in braccio — continua la sua drammatica testimonianza — quando ho sentito un uomo che urlava aiuto. Mi sono avvicinato nel buio ed ho trovato Un giovane che stringeva al petto una bimba di un anno e mezzo. Era il marito della donna e l’abbiamo trascinato fuori dalle ferraglie contorte. Più tardi una autoambulanza lo ha accompagnato allo ospedale. Ma la piccola è rimasta assieme alla sorellina sul ciglio della ferrovia, al fianco della mamma morta. E’ stata una notte che non dimenticherò mai”.

Come Romano Scardovi, parlano tutti coloro che sono accorsi a prestare i primi aiuti. La signora Maria Sangiorgi dormiva: “Ho sentito lo schianto”: Una carrozza è finita contro il muro della sua abitazione che fiancheggia la strada ferrata. “Ho creduto che fosse la fine del mondo — dice — ed ho abbracciato mio marito urlando”.

Mentre parlo con la signora Sangiorgi una ragazza mi tira per un braccio: “Il canale — dice indicandomi un corso d’acqua che fiancheggia la ferrovia — dicono che molti si sono buttati nel canale. Per piacere lei che è un giornalista vada dai carabinieri a chiedere che lo prosciughino”.
Più tardi l’acqua è stata tolta per un controllo: nessun annegato.

Ci vengono incontro due giovani sposi: Antonio Latini e Lucia Ricci. “Andavamo in Svizzera, lavoriamo là ed eravamo venuti a casa per una breve Vacanza”. “Io — dice la moglie — ho sentito che il treno rallentava, ma non saprei dire la velocità. Poi all’improvviso mi son sentita scaraventare dall’altra parte dello scompartimento”.

Emigranti. Ne incontriamo a decine, a centinaia. Nove persone su dieci che viaggiavano sul direttissimo 152 Lecce-Milano, sono emigranti. “Dove andavate?”: Francia, Svizzera, Germania, Belgio.
La gente si aggira qua e là. Cerca i propri bagagli. “E’ tutto quel che avevo — mi dice un ragazzo in maniche di camicia, che avrà 18 anni — come farò adesso? In Germania ha freddo!”.

Gente lacera, insanguinata. Hanno lavorato per un paio d’ore fra i rottami e mi mostrano le mani ferite dalle lamiere, i vestiti sporchi del sangue delle vittime. Andiamo a fare il giro degli ospedali. I feriti ricoverati sono 86. Ecco il quadro della situazione.

IMOLA. — Cinque persone sono gravissime. Il primario prof. Romeo Galli, sta lavorando da cinque ore con i suoi assistenti. Medici, infermieri e tutto il personale sono stati richiamati in servizio d’urgenza. Facciamo un rapido giro e all’uscita cominciamo a vedere la fila dei visitatori. Sono i passeggeri scampati al disastro. Cercano gli amici, i fratelli, i cognati che erano nel treno con loro diretti all’estero. Su 29 ricoverati, gli emigranti sono 27.

CASTELBOLOGNESE. — L’ospedale è affollato da ogni tipo di persone. I feriti sono una trentina. Incontriamo una infermiera con un bimbo in braccio; la piccina piange. “Sono quattro ore che cerco di calmarla — dice — ma non vuole star zitta. Non sappiamo chi è. C’è un’altra bimba seduta in sala d’aspetto. Anch’essa non identificata: avrà un anno e mezzo”. Purtroppo io so chi sono. Lo intuisco pensando al racconto che mi ha fatto il giovane Scardovi. Chiamo un dottore e lo informo.

Nella corsia dell’ospedale si sparge la voce che sono stato a Imola. Tutti vogliono sapere se c’è questo o quell’altro fra i ricoverati. Estraggo l’elenco del feriti. Due uomini sono là, si chiamano Pasquale Impegliatelli e Sante Polignoni, abitano a Cagnano Varano (Foggia). Purtroppo, di loro compaesani ce ne sono diversi. Comincio a leggere i nomi. “Giovanni Stefania è nostro parente”, mi dicono, e vogliono sapere se è morto. Rispondo: “Ha una gamba rotta, ma i medici dicono che se la caverà in 40 giorni”. Allora Sante Polignoni mi spiega: “Erano nello scompartimento con noi, abbiamo sentito uno schianto. Io mi sono trovato in un fosso, a fianco della ferrovia. Le lamiere della nostra carrozza si sono aperte come una scatola, staccandosi dai carrelli. C’era anche un marinaio. Con lui ho estratto dalle rovine mio cognato Stefania, aveva un braccio incastrato fra il muro e abbiamo lavorato più di mezz’ora per metterlo in salvo”.

Altri vogliono consultare il mio elenco che è ormai completo, perchè un medico delle ferrovie mi passa i nomi di quelli che si trovano a Faenza: circa 25. Dico a tutti quel che so.

Poi vado verso l’obitorio, che è dietro l’ospedale: sembra una capanna da giardiniere, con vecchi tavoli sui quali si allineano le prime salme. Corpi laceri, maciullati, irriconoscibili. Uno spettacolo da non dimenticare mai più. Alcuni agenti della polizia ferroviaria stanno frugando tra gli indumenti per trovare i nomi. Mi fermo una mezz’ora. Cinque, sei, otto salme. Poi telefonano perchè due feriti sono morti. Ed ecco che arriva la salma di un soldato. Poi nel primo scompartimento dell’ultima carrozza i vigili del fuoco hanno trovato altri due cadaveri. Ci vorrà un paio di ore per toglierli dalla morsa del ferro. E finalmente la lista sembra chiusa.

Incontro il senatore Carvellà. “Un disastro — mi dice — una cosa d’altro mondo”. Allontanandomi dalla camera ardente vedo colleghi, funzionari del comune di Castelbolognese. “Quanti sono i morti?” sento chiedere. C’è chi risponde 15, chi 7, chi addirittura 20, no sono 12. E speriamo che i feriti più gravi migliorino. Ma sono già tanti. Troppi.

Giorgio Bettini

Da “Stasera” dell’8 marzo 1962


“[…]Difficile dire chi maggiormente si sia prodigato a Castelbolognese. Tutti hanno dato, tutti si sono sacrificati, tutti generosamente hanno cercato di offrire qualcosa per rendere meno spaventosa la tragedia. I donatori di sangue, ad esempio, fra cui Ubaldo Cassiani e Nino Monti, si sono immediatamente sottoposti a trasfusioni per complessivi 3.500 grammi. […]

Sono pure accorsi per prodigarsi nell’opera di soccorso il signor Goffredo Dardi e il signor Domenico Scardovi, che abitano nei pressi della stazione, assieme alla famiglia e ad alcuni fratelli […]”

Da L’Unità del 9 marzo 1962

 Foto ANSA scatta la mattina dopo il disastro (Archivio Pier Paolo Sangiorgi)


Foto ANSA scatta la mattina dopo il disastro (Archivio Pier Paolo Sangiorgi)


Lutti a Castel Bolognese

Dopo la spontanea, magnifica prova di emulazione data da tutti i dipendenti comunali, da tutti i sanitari e da numerosi cittadini che volontariamente hanno prestato la loro opera nella gravissima circostanza dell’immane disastro ferroviario verificatosi alla nostra stazione la notte del giorno 8 marzo corr., l’Amministrazione Comunale ha pubblicato il seguente manifesto:

“Castellani, dopo il doloroso incidente ferroviario che è costato la vita a tredici viaggiatori ed il ferimento di altri cento circa, l’Amministrazione comunale rivolge i più vivi elogi al personale dipendente, ai medici e a quei cittadini che hanno contribuito in varie forme all’opera di soccorso dei feriti, di raccolta delle salme e di assistenza ai familiari qui accorsi.
Degna di menzione la pronta e generosa offerta di sangue compiuta dai donatori locali.
Castel Bolognese, assunta alla notorietà nazionale per così triste avvenimento, si è fatto onore grazie allo spirito di abnegazione di tanti suoi figli.
Va pure dato atto con compiacimento della prontezza con cui i soccorsi sono stati organizzati e curati, sia da parte dell’Amministrazione Ferroviaria, che dalla Croce Rossa ed Autorità di Pubblica Sicurezza e Polizia Stradale.
L’opera del personale dirigente e inservienti degli Ospedali è stata superiore ad ogni elogio ed è indubbiamente servita ad evitare la perdita di altre vite umane”

Da Il Lamone del 17 marzo 1962

Foto tratta da Il Resto del Carlino, cronaca di Ravenna, 9 marzo 1962

Foto tratta da Il Resto del Carlino, cronaca di Ravenna, 9 marzo 1962

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