Il paese delle oche

Rammento la mia nonna Eugenia quando, provenienti da Casoria, dove lo zio Tacconi era il titolare di quella Stazione ferroviaria, scendemmo dai tram a vapore a Napoli, al Reclusorio, diretti a Grottamarina di Posillipo, e ci avviammo in gruppo: la zia Bianca, lo zio, il loro figlioletto Pacifico e la nonna, per la larga strada di Forìa.

Allora – 1882 – vagavano per Napoli animali di diverse specie, capre, vaccherelle… Quando giungemmo presso il palazzo, che divide in due la detta strada, dal cui balcone si diceva avesse nel ’60 parlato Garibaldi, un bel branco di oche, incostudite, ci venne incontro starnazzando le ali e gracidando quasi in aria di festa. La vecchia nonna, a tale vista, uscì in questa scherzevole esclamazione: “Hanno conosciuto che siamo di Castelbolognese”. Perchè in Romagna siamo additati come gli abitatori del paese delle oche! Erano belle, eccezionalmente belle le oche di Castelbolognese, mercè una lunga selezione, e destavano la curiosità e, si può dire, anche l’ammirazione dei forestieri.

Quando incontravate questi branchi di oche, candide come cigni, esse venivano a salutarvi, prima l’ocone, quindi le quattro sue compagne, e alzavano il capo emettendo dal becco giallo come un ansito (che non ha corrispondenza con altra parola nè italiana nè dialettale, nìa che solo viene spiegata con una parola onomatopeica latina anser, che appunto vuol dire oca); poi se ne andavano con un grido di gioia camminando dinoccolate e buffe. Erano dappertutto, sia che pasturassero nelle larghe e verdi fosse, o nei prati adiacenti al paese, detti dei Cappuccini e della Filippina; e davano da lontano l’idea di bucato disteso ad asciugare sul piano verde e alla luce del sole. Uscivano la mattina a buon’ora e di sera ritornavano ai loro chiusi, sole, senza pericolo che si smarrissero o scambiassero il loro abituale stalletto.

Correvano storielle giocose sul loro conto: dicevano che l’ocone della tale avesse l’abilità di aprire col becco il rastrello, quando era stanco di rimanere chiuso; il tal’altro ocone si introducesse nell’abitazione della padrona e aprisse col becco il coperchio della madia, quando aveva fame.
Ma, esagerazioni a parte, l’allevamento delle oche formava per gli abitanti di Castello una delle industrie più redditizie e fiorenti, che poteva col tempo subire modificazioni, ma che non doveva perire.

Due erano le qualità di oche che si allevavano: quelle cosidette sementine, e le altre da ingrasso.
Le sementine si curavano e si nutrivano per la riproduzione, mentre le altre, quando giungeva l’autunno, erano macellate e si portavano a vendere nei giorni di mercato a Faenza, ad Imola ed anche a Lugo.

Tutte le donne povere si ingegnavano a tenere un branco di oche. Per quelle che non possedevano mezzi per tenerle in casa, il Municipio permetteva che si facessero tanti stalletti di legno, appoggiati alle mura della Larga, sotto la vecchia Rocca, e non v’era caso che qualcuno le disturbasse o le rubasse.

Le donne che avevano qualche soldo, lo investivano in quest’industria. Pagavano i paperi e li affidavano alle cure delle meno abbienti, ripartendo alla fine d’anno il guadagno. Le sementine si spennavano due volte all’anno: di primavera avanzata e di autunno. Non si lasciava ad esse che le penne delle ali e della coda. Erano donne provette quelle adibite a tale funzione e, se avveniva qualche scorticatura, era curata con cenere setacciata e con olio di uliva. Ma le povere oche, quando avevano subito tale martirio, tremavano tutte e talvolta sopraggiungeva anche la febbre. In tal caso erano mantenute nei loro stalletti all’oscuro perché la luce le offendeva, ed erano nutrite con amore con erbe peste di ortiche, papaveri, rumici, miste a crusca ed avena. Pochi giorni bastavano a rimetterle in salute. Uscivano poscia in lunga fila ritornavano ai loro pascoli: ma la loro vista dava un senso di disgusto e, chi vedeva per la prima volta tale spettacolo, ne provava una impressione dolorosa. Però in una cinquantina di giorni rifacevano le piume e ritornavano le belle oche di prima. Certo era penoso l’assistere all’incedere di questi animali spennacchiati, specialmente per la gente che non fosse del paese.

Un vecchio ferroviere mi raccontava che, nel 1885, quando parte del personale viaggiante passò dalla rete Adriatica alla Mediterranea, un capo del personale di Napoli prendeva giù ed annotava i dati caratteristici di ogni impiegato e, all’udire che il detto ferroviere era di Castelholognese, non potè trattenere un gesto di sorpresa ed esclamò (“brutto paese!”. Il ferroviere allora chiese “ma perché?”. Ed il capo, che in principio della carriera si era trovato di posto a Castelbolognese, disse: “perché pelano le oche e così nude le lasciano andare per le vie”.

Questo spettacolo colpì anche la fantasia del maggior poeta dell’Italia moderna, che ne ebbe visione in una gita fatta nel nostro paese, tanto da ispirargli una similitudine comparativa ricordata nel libro Confessioni e Battaglie ” …come un’oca spennacchiata, che un industre cittadino di Castelbolognese abbia… “.

Il piumino che si ricavava da questa spennatura era ricercatissimo e si vendeva ad alto prezzo.
Quando questi branchi di oche, pacifiche e sicure, passeggiavano per il paese, uno dei divertimenti dei ragazzi era quello di legare un torsolo di mela o di altro frutto all’estremo di un lungo filo, allacciando all’altro capo un foglietto di carta. All’avvicinarsi del branco, veniva loro lanciato il torsolo di frutta, che le oche avidamente inghiottivano: e se l’aria era mossa, si vedevano le bestioline, ancor più ridicole, incedere comicamente sventolando le banderuole al vento; fino a che mani pietose non le liberavano, tirando il filo. Con questa abbondanza di oche la povera gente, a poco prezzo, faceva un grande consumo delle cosidette ova chiare. Si chiamavano così le ova che le donne speravano contro la luce di una candela e che, pure essendo commestibili, non erano atte a dare i paperi.

Quando veniva l’autunno, era una vera ecatombe delle oche da ingrasso. Allora il monopolio della vendita della carne d’oca nei mercati di Faenza, di Imola ed anche di Lugo era tenuto da donne di Castelbolognese. Le mattavano, mettendo il lungo collo sotto la paletta da fuoco e tirandole su per le zampe.

Di sera si vedevano le povere bestiole allineate suli appositi scanni, gialle di grasso, ripulite dalla peluria con crusca umettata. Le portavano così a vendere nei giorni di mercàto nelle vicine città, noleggiando per l’occorrenza un birocciaio, di nome Arcangelo, che le portava in tanti cesti, mentre le venditrici seguivano pedibus calcantibus. Andavano in ore antelucane e dovevano aspettare che i dazieri le facessero passare quando si aprivano le porte. Siccome il paese era ricco per ragioni particolari di commercio, i castellani, quando erano chiamati quelli del paese delle oche, rispondevano: “noi le macelliamo per darle a voi da mangiare!”.

Infatti ricordo che in casa mia, dove si stava bene senza essere ricchi, si tagliava il brodo con due ali e due piedi d’oca, e di autunno si facevano dei saporitissimi umidi con fegati e ventriali d’oca, condendoli con funghi freschi. Ma dell’oca non si mangiava altro. Ogni casa si provvedeva di lardi per disfarli e ricavarne ottimo grasso per l’inverno.

Un ricordo da oiovanetto era di vedere nei venerdì d’autunno, giorno di mercato, un ebreo di Lugo, certo Sinigaglia, detto “il Moro”, che alla fine della vendita, oltre alle pezze di stoffa invendute, caricava sulla barroccia branchi di oche, destinate, secondo le voci del popolino, alla confezione del salame per gli ebrei.

Le donne mercantesse incettavano tutto il piumino che si produceva tanto in paese, che in campagna, e la ricerca era grande perché il piumino serviva per fare coltri o cuscini: gli acquirenti erano specialmente gli ebrei di Lugo. Oltre al piumino si vendevano mazzi di penne, ricercate e preziose prima che si conoscessero quelle di acciaio. Mi raccontava un vecchio amico che, allora, era un dono grato quello di regalare un mazzo di penne, e mi fece il nome di apprezzati tempratori.

Come si è detto, era comune in Romagna ricordare Castelholognese insieme alla sua industria delle oche. Nella rivista “Valdilamone” lessi tempo fa una satira allusiva ai moti del 1831. L’arrivo degli insorti era così descritto:

…ecco dunque per primi i bolognese
e quindi gli imolese
seguiti bel bello
dai padroni delle oche di Castello,
molti dei quali, e pure i più bravoni,
avevan per armi assai lunghi bastoni.

Nè mi fermerò a descrivere le prelibate virtù commestibili delle oche di Castello: la qualità di tale carne è elogiata anche dall’Artusi in un suo spiritoso racconto di un pranzo a base di oca.
In primavera, nelle nostre campagne, si osserva spesso un cencio attaccato ad un bastone ritto sul ciglio di un fosso, con accanto due cocci, di cui uno pieno di acqua e l’altro con entro crusca e verdura: un branco di paperi vi stà attorno per tutta la giornata, senza alcuna custodia, perchè il cencio viene creduto una persona viva. Volgarmente è chiamato “abéda òcc”. Molti modi di dire ricordano le oche:

E va cum um’ôca – si dice di persona che dondoli distratta, nel camminare.
L’è un’ôca – si dice ad uno ritenuto stupido.
E squêzza cum un’ôca – a chi sia incontinente dì corpo…

Una leggenda abbastanza diffusa fra noi, esprimendo un giudizio forse troppo lusinghiero per le oche e troppo severo per l’umanità, paragona le qualità intellettive delle oche a quelle degli uomini. Secondo tale leggenda, nel mondo è sparsa un’oncia di giudizio, e di questa, metà è distribuita fra le oche!

La ragione per cui nella cerchia del paese venne a cessare l’allevamento delle oche, più che alla progredita civiltà, si può attribuire all’effetto di una mascherata simbolica, ritenuta come una manifestazione avversa alla pubblica amministrazione. In uno degli ultimi giorni di Carnevale del 1872, uscirono per le vie del paese venti maschere, numero corrispondente ai consiglieri assegnati al Comune. Queste maschere erano vestite di bianco e, ad imitazione delle oche, camminavano ad una ad una in lunga fila, Il becco era munito di un congegno di canna d’india, cche permetteva l’apertura e la chiusura a volontà.

Quando la mascherata apparve alla ringhiera del Comune, incominciò ad emettere un forte “quà, quà, quà” ed a cantare:

-Vo’ cantarvi la canzone
delle oche e dell’ocone,
che hanno offeso il podestà
per gridare quà, quà, quà.

-Sia un’oca sia un’ ocone
non fò male alle persone,
non fò male al podestà
per strillare quà, quà, quà.

-L’oca poi è un animale
che non nuoce e non fa male,
per la sua bonarietà,
se anche strilla quà, quà, quà.

-Non è ver che sia immune
il palazzo del Comune,
perchè l’oca v’entra già
e vi strilla quà, quà, quà.

-L’oche poi hanno l’orgoglio
che salvaro il Campidoglio,
quando i Galli entravan già
lor strillaron quà, quà, quà.

La folla, che si era fermata nel mezzo della piazza, applaudiva e rideva.

Giorni sono, mi trovavo per la strada di Casanòla, quando nel fossato del Cavo Vela ho veduto uno dei pochi allevatori rimasti nel nostro paese, che raccoglieva rumici, rafanistri, rosette ed altre erbe da dare ai paperi.

Costui aveva una ventina di ocarine appresso che spiluccavano le erbe lungo la riva, e mi diceva che era fatica ad allevarle perchè soffrono molto il freddo: “non si guadagna come prima, quando si vendevano a cinquanta lire l’una e si spedivano in Germania”.

Ad una mia interrogazione, mi ha risposto che ritiene l’oca un animale intelligente. Egli, che è nato ed è cresciuto in questo mestiere, ha avuto modo di osservare che tra le oche si stabiliscono interminabili chiacchierate. Sono capaci inoltre di buttarsi a volo in determinate località o di lanciarsi nell’acqua, mostrando di divertirsi e di essere restìe a ritornare.

Nei suoi bozzetti storici, Alessandro Luzio, parlando dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, usa queste parole:

“Pecore, ranocchi, oche, attiravano lo sguardo amorevole di questa Imperatrice che credeva nella metempsicosi”.

“A Miramare, l’Imperatrice si ferma a guardare delle oche che, uscendo da un piccolo stagno, sembravano fissare trasognate il tramonto.

“Nessuno si cura de’ sentimenti di queste povere bestie – esclama Elisabetta -. Le si trattano come cuoche, perchè vanno a finire in cucina. Chi sa che non siano state delle regine! Ah! se io ritorno in terra!… e si interruppe improvvisamente”.

Giovanni “Bacocco” Bagnaresi

Tratto da Valdilamone del luglio-settembre 1933

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