Ditta Santandrea (in attività per oltre 150 anni)

di Lodovico Santandrea
(Aldvigh d’i Marièna)

La Ditta Santandrea fu fondata alla fine del 1700 da Carlo Santandrea e fin dalla sua costituzione si occupava della raccolta e del commercio di stracci e cascami.
L’attività sin dall’inizio sembrava promettere un buono sviluppo ed al fondatore successe il figlio Pietro che diede impulso al commercio e a Castel Bolognese iniziò, specie per le donne del paese, un nuovo lavoro: “al strazeri”, sia donne che lavoravano per la ditta, sia donne che battevano il paese e le campagne per raccogliere stracci, cascami vari e penna, quest’ultima dalle numerose donne che allevavano oche, perché all’epoca nel paese questa era una fiorente attività tanto che Castello era chiamato, in senso canzonatorio, il paese delle oche, e tutto quanto veniva raccolto era venduto alla ditta che, previa classificazione, a sua volta lo rivendeva ad altri commercianti.
L’attività si svolgeva nella casa di Via Morini, ma, per ragioni di spazio, la maggior parte delle merci era tenuta all’aperto, in Piazza Fanti o sotto i portici di Via Morini. Non è da escludersi che a rifornire la ditta nei primi tempi abbiano contribuito anche i famosi contrabbandieri di Castello che battevano le contrade di mezza Italia in quanto le loro case erano situate nell’attigua Via Borghesi.
Nel 1863 Pietro decedeva lasciando la moglie, Maria Pirazzoli,vedova con nove figli, e da qui nacque per i figli il soprannome “i Marièna,che è sopravvissuto fino alla mia generazione.
A portare avanti l’attività furono alcuni dei figli, Francesco, Sante, Lodovico e Giuseppe, l’unico che sapesse leggere e scrivere, mentre all’epoca Lodovico sapeva fare solo la propria firma.
Fu nella casa di Via Morini che nacquero cinque dei sei figli viventi di Lodovico, sposato con Fortunata Dal Prato, la quale soleva ricordare: “a n’ho batzè ondg”, tanto che quando le moriva un figlio appena nato si prestava ad allattare i figli delle donne che non avevano latte, mentre lei ne aveva sempre avuto in abbondanza, dando il merito al fatto che mangiasse tanta insalata.
I figli viventi nacquero: nel 1880 Francesca (Chicchina), nel 1881 Pietro (Pirì), nel 1886 Zeffirina, nel 1891 Mario, nel 1893 Francesco (Cecchino) e nel 1895 Domenica (Ghina).
Quando nacque Mario, il 21 gennaio, il paese era sommerso dalla neve e gli fu raccontato che, per andare ad assistere al parto, la levatrice dovette indossare “i stivagliò da la nev”.
Liquidati gli altri fratelli, Francesco si trasferì ad Atri dove diede vita ad una ditta che commerciava sempre gli stracci e insieme a Sante parteciparono come volontari con Garibaldi ad alcune battaglie del Risorgimento, l’attività fu portata avanti da Giuseppe e Lodovico che nel 1894 acquistarono al prezzo di Lire 5.000, con rogito del notaio Angelo Bucci di Faenza, un fabbricato in Piazza Camerini con annesso orto e giardino; da allora fino ad oggi questa piazza è conosciuta come “la Piazèta d’i Marièna, dove un tempo si ergeva La Rocca, il primo nucleo del paese fondato dai bolognesi per contrastare i briganti che ai tempi infestavano la Via Maestra, l’odierna Via Emilia.
Il terreno scoperto retrostante l’edificio era stato adibito a cimitero dal 2 ottobre 1783 al 27 agosto 1802, cioè fino all’apertura del cimitero nell’orto dei Cappuccini che poi nel 1902 fu incorporato nell’orto dei frati quando venne costruito l’attuale camposanto.
I fratelli Santandrea costruirono, in quello che erano stati orto e giardino, sia dei capannoni dove ricoverare le merci sia le stalle per i cavalli.
L’attività prosperava e si stava espandendo tanto che, oltre agli stracci e alla penna, venivano commercializzate le corna che erano vendute a Scarperia per fabbricare i manici dei coltelli, le ossa che erano destinate alle fabbriche di sapone, il vetro il ferro e la ghisa.
Per ragioni di igiene e per evitare che i pesanti carri rovinassero il selciato di Piazza Camerini, l’amministrazione comunale impose che venisse aperto un ingresso dal lato del prato della Filippina con un ponticello che scavalcava la fossa allora esistente.
Fu in quell’occasione che fu modificato il sistema di traino prendendo lo spunto da quanto aveva visto alla stazione di Alessandria Giuseppe, il quale decise di comprare robusti cavalli normanni dallo zoccolo piatto che, con un tiro da tre, trainavano i pesanti carri a due ruote con i quali venivano trasportate le merci nei paesi vicini ed anche a Bologna, ma specialmente alla stazione ferroviaria da dove erano indirizzate nelle varie località in tutta Italia, e le ossa financo a Lubiana.
La stalla e i cavalli erano affidate alle sapienti cure dei fratelli Scardovi, i Cavur.
Le tre figlie di Lodovico e Pietro completarono le sole scuole elementari, che all’epoca duravano sei anni, mentre Mario brillava negli studi, tanto che fu uno dei tre studenti del Liceo Torricelli di Faenza che, accompagnati da un professore, parteciparono a Bologna ai funerali di Giosuè Carducci.
Francesco provò a frequentare le scuole Tecniche a Faenza, ma i risultati scolastici non furono soddisfacenti, così il padre decise che la migliore soluzione sarebbe stata che incominciasse, insieme al cugino Guido, figlio di Giuseppe, a lavorare nella Ditta, dove iniziò con la paga di Lire 0,30 alla settimana (all’epoca un carro ferroviario da 100 quintali di panno veniva venduto a 1.200 lire, di cui 200 erano il costo di due intermediari), perché in casa Santandrea da una generazione all’altra é sempre valso il detto: “Questa l’é la cà dla cagna, dov che chi un lavora un magna”, detto che non ho mai dimenticato.
Lodovico intuì che Francesco aveva buone attitudini per inserirsi nella Ditta e incominciò ad insegnargli il lavoro facendogli imparare il mestiere, che perfezionò, soprattutto a Prato, che all’epoca era, insieme a Biella, la capitale mondiale del lavoro degli stracci.
Oltre alla predisposizione per il lavoro Cecchino dimostrò di possedere carisma tanto che fu, a 16 anni, uno dei fondatori della Unione Sportiva Castel Bolognese poi nel 1919, insieme ad altri amici castellani, fondò la Società dei Sempre Giovani di cui ebbe la tessera numero 1 e, grazie all’amicizia con il Maestro Francesco Balilla Pratella, ottenne che questi scrivesse e musicasse l’inno della Società. E non fu questa l’unica amicizia con personaggi importanti, infatti coltivò un cordiale rapporto con Aldo Spallicci e Armando Borghi fatto di una ricca e costante corrispondenza e con lo scrittore pratese Armando Meoni, oltre ad un rapporto di reciproca stima con l’onorevole Giuseppe Pella quando era, prima Ministro delle Finanze, poi Presidente del Consiglio. Nell’epoca in cui vigeva il famoso: “Molti nemici molto onore”, lui lo aveva modificato in “Molti amici molto onore” e di amici ne aveva ovunque si recasse, sia per lavoro sia per diletto.
Nel 1920 cessò la Ditta Fratelli Santandrea di Castel Bolognese e, dopo aver liquidato la quota di Giuseppe, con atto del notaio Giacomo Neri di Faenza, fu costituita la Ditta Lodovico Santandrea & Figli di cui facevano parte, oltre a Lodovico, Francesca,Pietro, Zeffirina, Mario, Francesco e Domenica.
Il lavoro, oltre alla cernita ed alla classificazione degli stracci, che venivano imballati dagli operai nelle presse, con balle che pesavano dai 180 ai 220 chili che erano poi “mascellate”, cioè allocate in file sovrapposte in attesa di essere spedite, comprendeva il commercio delle ossa, della penna, del cordame, del vetro, delle corna, del ferro della ghisa e dei metalli, oltre ad altri materiali “poveri”: questi ultimi finivano nella cosiddetta “ratatoglia” dove venivano poi tagliuzzati con una pesante scure (e maras) per essere venduti come concime.
Gli stracci subivano la cernita, fatta dalle operaie, che dividevano il bianco, il rigatino, il colorato, la lana, la mezzalana, la corda e dopo l’imballaggio venivano venduti alle cartiere di tutta Italia: la Cartiera del Maglio di Bologna, la Cartiera Italiana di Torino, la Cartiera di Isola del Liri, la CBD di Milano, mentre la lana finiva a Prato e a Biella ed il vetro, il ferro e la ghisa alla Vetreria Calzoni di Bologna.
Le operaie eseguivano la cernita degli stracci nei cosiddetti “valli” situati sotto i capannoni e d’inverno, per riscaldarsi, tenevano sulle gambe uno scaldino riempito con delle braci, poi alla fine della giornata lavorativa, ognuna con la propria scopa, contraddistinta con un nastrino colorato legato in fondo al manico, provvedevano a spazzare il cortile, mentre il sabato era giorno di paga, che veniva consegnata in contanti dentro a bustine di carta rigata chiuse con delle graffette sopra le quali era scritto il nome di ogni operaio, consuetudine che si è protratta fino alla fine dell’attività, tanto che da bambino ero io a chiamare i nomi ed a consegnare le buste.
Nel cortile si trovava una capiente “caldarella” in muratura, alta quasi come un uomo e alimentata da sotto da un focolare, che veniva riempita a metà di acqua dopo di ché venivano gettate dall’ampia imboccatura superiore le corna e veniva acceso il fuoco affinché con il calore dell’acqua bollente le ossa venissero separate dalle corna, mentre il “batèr” era un macchinario che veniva utilizzato per battere il panno scuro onde renderlo più morbido.
Nel 1919, tornato dalla guerra dopo 64 mesi, Cecchino cominciò ad affiancare sempre più il padre nella conduzione della ditta che ebbe una crescita notevole tanto che fra operai ed operaie arrivò ad occupare una sessantina di dipendenti, come testimoniava una bacheca numerata da 1 a 60 da cui gli operai prelevavano una medaglietta numerata all’inizio del lavoro e la riappendevano al termine della giornata lavorativa.
Nel 1925, in occasione delle nozze d’oro di Lodovico e Fortunata fu organizzata una festa con un pranzo sontuoso prima per i numerosi parenti poi per gli operai che nell’occasione donarono ai festeggiati due bellissimi piatti della ceramica di Faenza. I coniugi Santandrea ricevettero dal Cardinale Pietro Gasparri
un telegramma con la benedizione del Santo Padre Pio XI.
Nel 1927, invece, per gli 80 anni di Lodovico fu organizzata nel cortile un’altra festa in occasione della quale fu liberata in cielo una mongolfiera con il nome della Ditta e nel cestello era riposto un annuncio commemorativo dell’evento unitamente ad un dono per chi avesse recuperato la mongolfiera.
Nel 1929 la famiglia provvide ad installare in casa l’impianto del termosifone alimentato a carbone, forse il primo in tutto il paese, e mi è stato raccontato che amici e conoscenti facevano la fila per venire a vedere questa incredibile novità.
Negli anni ’30 fu promulgata la legge che istituiva la previdenza sociale e Cecchino (io l’ho sempre sentito chiamare così tranne che in Toscana dove era chiamato so’ Francesco e la cosa mi stupiva non essendo abituato a Castello a sentirlo chiamare con il suo nome), siccome era facoltativo nei primi tempi aderire all’iniziativa, avendo una visione lungimirante, decise di adeguarsi alla legge che prevedeva che il dipendente maturasse una pensione mediante le trattenute operate sullo stipendio, ma ci fu chi era contrario a questa novità, tanto che fu minacciato di morte da alcuni mariti delle operaie.
Il 12 gennaio del 1937 morì Lodovico e, dopo 62 anni di un matrimonio condiviso con affetto e amore senza ombre, a neppure tre giorni di distanza lo seguì Fortunata lasciando entrambi ai figli un ricordo indelebile ed un esempio incancellabile.
Poiché Mario svolgeva la professione di farmacista a Bologna nell’antichissima Farmacia del Corso in Via Santo Stefano, farmacia che il padre aveva acquistato per lui allorché anch’egli era ritornato dalla guerra, mentre Chicchina, che già dai tempi del matrimonio con il maestro Giuseppe Jacchini (che i suoi scolari chiamavano “ e maistrò” e quelli più impertinenti “e tachinazz”) era uscita di casa andando ad abitare in Via Garavini, con atto 14 agosto 1937 del notaio Giacomo Neri di Faenza fu sciolta la Ditta Lodovico Santandrea & Figli e fu costituita la società in accomandita semplice Figli di Lodovico Santandrea di cui erano soci Pietro, Francesco, Zeffirina e Domenica.
Quando il 26 luglio 1937 la ditta acquistò dal comune di Castel Bolognese l’antica fossa prospiciente le mura della originaria Rocca, una piccola parte fu accorpata alla casa per adibirla ad orto, mentre la parte residua fu assegnata a Chicchina per edificarvi la casa dove sarebbe andata ad abitare con la famiglia, edificio che fu costruito a spese della ditta rappresentando la liquidazione della sua quota.
L’attività prosperava allargando i suoi orizzonti con Zeffirina che governava la casa insieme a Ghina, la quale, avendo imparato a scrivere a macchina, fungeva da dattilografa in ufficio utilizzando una, per quei tempi avveniristica, “Underwood”, Pirì si occupava prevalentemente del lavoro di ufficio e, quando Cecchino era assente per affari, sorvegliava il lavoro in cortile, mentre Cecchino era il motore di tutta l’attività, tenendo i contatti con i fornitori e i clienti, a Milano, a Roma, a Biella e, soprattutto, a Scarperia e a Prato dove si recava quasi tutti i lunedì che era giorno di mercato. Quando arrivava a Scarperia, paese attraversato per tutta la sua lunghezza dalla strada principale, fin dal primo negozio di coltelli ove si fermava si spargeva la voce fino all’ultimo dalla parte opposta del paese in quanto ormai era conosciuto da tutti gli artigiani che apprezzavano la qualità delle corna che forniva loro, mentre a Prato era una festa perché, con il suo carattere estroverso, la sua simpatia e soprattutto la sua onestà e competenza si era creato una rete di amicizie che andavano quasi sempre al di là del mero rapporto di lavoro.
Poi arrivò la guerra ed il lavoro, (contrariamente a quanto era avvenuto nel 1915 quando la ditta era considerata di vitale importanza per l’economia bellica, tanto che Pirì, essendo sotto le armi sia Mario sia Cecchino, fu esonerato dal richiamo al servizio militare per poter coadiuvare il padre nella prosecuzione dell’attività), ebbe ripercussioni negative che portarono alla cessazione di ogni attività allorché nell’agosto del 1944 il fronte si attestò sul Senio. Le merci vennero ricoverate nel solaio della casa e tutta la famiglia sfollò nella casa della Serra dove io sono nato.
Durante i tragici mesi che intercorsero fino alla ritirata dei tedeschi quella dei Santandrea fu una delle tante sfortunate case del paese che subì danni gravissimi in quanto, ritenendo che il campanile di San Petronio fosse un ottimo punto per un osservatorio, l’artiglieria tedesca lo aveva preso di mira, ma, ogni volta che mancavano il campanile, le granate finivano sulla casa e sui retrostanti capannoni.
Successe così che uno spezzone incendiario si infilasse nel solaio provocando un principio di incendio che, fortunatamente, fu di minime proporzioni, e ad evitare gravi danni contribuì tutta la gente della contrada che accorse per domare le fiamme.
Ed è dell’immediato dopoguerra (nel 1946 o 1947) che risale quello che penso sia il primo ricordo della mia vita: un pomeriggio, elusa la sorveglianza delle donne di casa, uscii da solo in cortile dove vidi gli operai che, brandendo lunghe pertiche e urlando come ossessi correvano avanti e indietro per uccidere i numerosissimi topi che nel periodo bellico erano evidentemente prosperati. Poi sentii un urlo di disperazione e le mie zie accorsero fuori per evitare che in mezzo a quel trambusto fossi colpito da una bastonata.
In questo periodo ricordo la grande quantità di bandiere di ogni nazione che erano state acquistate per essere poi rivendute come stracci e gli “stracci america” che erano vestiti che provenivano dagli Stati Uniti che venivano venduti ai castellani che erano usciti dalla guerra con una miseria nera, ma, essendo abiti intatti, la vendita non era consentita trattandosi di un commercio che esulava dall’attività della ditta, per cui vennero tagliati, ridotti a stracci e rivenduti come tali.
Fino a metà degli anni cinquanta l’attività proseguì con un andamento florido poi, come diceva Cecchino, “ci siamo troppo modernizzati” e la lavorazione degli stracci e della corda, anche per il sempre più diffuso utilizzo della cellulosa da parte delle cartiere, era destinata pian piano a cessare, così come la plastica e il legno stavano soppiantando le corna nella fabbricazione dei manici dei coltelli per cui erano rimasti solo alcuni artigiani che utilizzavano ancora le corna per fare dei pezzi per amatori. Quello che si riusciva a commerciare di più era il pezzame, pezzi di straccio bianco che venivano venduti alle officine meccaniche e a quelle automobilistiche per eseguire la pulizia dei macchinari, infatti fra i migliori clienti c’erano le concessionarie FIAT della zona e la Tipografia Lega di Faenza. Questi stracci erano tagliati in pezzi quadrati o rettangolari poi erano disinfettati con la mirbana, un prodotto altamente tossico, venivano pesati per ottenere un kg.,indi erano piegati ed inscatolati in scatole di cartone grigio a forma di parallelepipedo su cui era stampato in rosso il nome della Ditta che sovrastava un camioncino.
Nel frattempo, per ragioni di igiene pubblica, essendo la casa nel centro del paese, fu vietato il commercio delle ossa, da cui fra l’altro si ricavavano i bigattini che, messi dentro a sacchetti di tela insieme alla segatura, venivano venduti ai pescatori sia di Castello che dei paesi vicini.
Nel 1957 la Camera di Commercio di Ravenna insignì la Ditta Figli di Lodovico Santandrea della medaglia d’oro per essersi distinta nella sua attività durata oltre 150 anni.
In tale occasione la Ditta ricordò gli operai che erano stati per molti anni ininterrottamente alle sue dipendenze, alcuni dei quali premiati con la Stella d’oro al Merito del Lavoro o con la medaglia d’argento: Budini Francesca per 75 anni, Geminiani Francesco (Frazcò) per 60 anni, Tramonti Sebastiano per 55 anni, Grazioli Luigia (Gigina) per 50 anni e Liverani Domenico (Riciombo) per 35 anni. Evidentemente i Santandrea trattavano bene chi lavorava per loro e a riprova del buon rapporto fra datore di lavoro e dipendenti sta il fatto che quando decedeva uno degli operai o delle operaie che erano stati a lungo alle dipendenze della ditta questa provvedeva alla spese o per la tomba o per il funerale.
Un ricordo personale: nei primi anni sessanta un pomeriggio del 2 Novembre arrivò da Pescara un autocarro per caricare delle balle ma la ditta era chiusa perché, come spiegò mio padre all’autista, da noi si lavorava il primo di novembre e non il due perché, disse, i morti li abbiamo conosciuti tutti, mentre dei santi non ne abbiamo conosciuto nessuno, insegnamento che mi sono portato dietro nei miei 43 anni di attività professionale durante i quali non ho mai lavorato il giorno dei morti.
Nel 1957 morì Zeffirina e sorsero dei problemi che imposero per qualche mese una temporanea cessazione dell’attività che in seguito riprese ma oramai stracci, ossa, corna e penna non andavano più di moda ed il mercato non recepiva più tali prodotti, così nel 1966 la Ditta cessò, lasciando comunque in chi l’aveva conosciuta il ricordo di professionalità, correttezza e onestà che l’hanno sempre contraddistinta durante il suo lungo cammino.
Un ultimo ricordo, il più bel regalo che mi abbia fatto mio padre: la mattina del 30 di maggio del 1969 alle sei e mezzo andai in ospedale a dare il cambio a mia mamma che gli “aveva fatto la notte”, lo accudii e mi sedetti vicino al letto quando mio padre mi chiamò vicino e, lucidissimo, mi disse: “Non so se muoio questa volta o quest’altra, ma ricordati che non voglio né preti né frati né suore. Hai capito?”. Gli dissi di si, ma soprattutto mi resi conto che mi aveva affidato le sue volontà, la cosa più preziosa che esista in Romagna. Mi aveva passato il testimone della famiglia. Quando si spense alle 15,15 feci rispettare le sue volontà.

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