I Brazadel d’la cros di Castel Bolognese

di Nicola Santandrea,
(Accademico di Castel Del Rio-Firenzuola)

tratto da “Civiltà della tavola”, n. 353, novembre 2022

Come i lettori di questa Rivista ben sanno, una delle ricchezze dell’Italia gastronomica risiede nella grande varietà di prodotti, preparazioni e cibi che caratterizzano le tantissime comunità di cui la penisola è disseminata: dalla regione al quartiere della città, dal borgo alla vallata più sperduta, ogni luogo si può dire caratterizzato da un “piatto tipico” o una preparazione a base di prodotti autoctoni che deriva dalla tradizione.

A Castel Bolognese, borgo fondato come avamposto in Romagna da Bologna il 13 aprile 1389 (la città ha infatti il privilegio di avere una data di nascita precisa, come Roma) e situato lungo la Via Emilia esattamente a metà strada tra Imola e Faenza, il prodotto tipico sono i “brazadel d’la cros”, ciambelle salate dalla forma tonda caratterizzate da una croce all’interno: i castellani li hanno sempre chiamati ciambelli, anche se il nome italianizzato più appropriato sarebbe bracciatelli.
I primi brazadel sembra che siano stati prodotti alla fine del XIX secolo in un non precisato forno di Castel Bolognese, ma hanno subito preso piede e i fornai facevano a gara a sfornare i migliori, come “Stuvanè d’è fòren” (Stefanino del Forno), che aveva la bottega alla Fonda, il figlio Paolo Borghesi (detto Pavlô), il Forno Farolfi (detto anche “d’la Muzôna, che ha chiuso recentemente) o il Forno Fabbri (che era gestito dal padre di Edmondo “Mundì”, ex CT della Nazionale italiana di calcio).
Visto il successo, anche i paesi vicini provarono a imitare i ciambelli, ma senza riuscire ad eguagliare quelli originali forse, come diceva Pavlô, per via dell’acqua particolare di Castello.

La ricetta del bracciatello ce la fornisce, ancora una volta, Paolo Borghesi, che chiuse bottega nel 1970 dopo aver appreso il mestiere dal padre – fornaio sin dai primi anni ’10 del Novecento; si trova nel libro “I mangiari di Romagna”, edito negli anni ’60, e recita così: “Si impasti, in acqua e sale, della buona farina bianca (doppio zero); si impasti bene, si ripete, fino ad ottenere un composto sodo come i fianchi di una giovane sposa. Staccati dei tocchetti di 80-100 grammi, si ricavino dei bigoli della grossezza di un dito, lunghi a sufficienza per farne un bel cerchietto con una croce in mezzo. Si lascino asciugare almeno dai 10-15 minuti – meglio se più – perché, in superficie, si crei una sottile crosta. Si immergano, poi, per non più di 3-4 minuti, in un ampio paiolo dove sobbolle (ma molto lentamente) dell’acqua dolce. I bracciatelli verranno da soli a galla a dirci subito di passare – sempre per 3-4 minuti – in un mastello d’acqua fredda. Poi li raccoglierà, fino a cottura, un forno riscaldato a legna, dal quale verranno levati con la panéra, una specie di largo badile di legno, dalla pala assottigliata in cima”.
Una variante tipica del forno Borghesi era la cosiddetta “Brazadela d’Sant’Ambò” (di Sant’Omobono), una ciambella sempre saltata piuttosto grossa, la cui peculiarità era di essere condita con lo strutto, per cui risultava ancora più saporita della versione tradizionale. Il Forno della Muzona invece ne faceva anche un tipo più grosso, senza croce in mezzo e con l’uovo nell’impasto, il che rendeva i ciambelli più delicati e friabili.

I brazadel a Castello si sono sempre mangiati spezzati con le mani e intinti nel caffelatte (che per certe famiglie costituiva il desinare quotidiano), ma questa era un’usanza prettamente muliebre. I rudi uomini romagnoli inzuppavano infatti i bracciatelli nell’albana, specialmente quella rinomatissima della località collinare della Serra, un vino corposo, vigoroso, dolce e di un giallo talmente intenso da ricordare gli sfondi dorati dei mosaici bizantini a Ravenna. Al di fuori delle famiglie, i brazadel venivano consumati in particolare per Pentecoste (la festa più importante di Castel Bolognese) presso le osterie, la più famosa delle quali era certamente Badôn, situata in strategica posizione all’angolo fra la Via Emilia e il Viale della Stazione e tappa quotidiana d’obbligo per bevitori, sensali, mercanti e facchini.
I ciambelli sono talmente caratteristici del paese romagnolo che vengono ricordati anche nell’inno di Castel Bolognese laddove recita che ai castellani:
u s’pis d’cantè, u s’pis la puisea
u’s pis bagnè t’è vèn un brazadèl,
quell da la crôs chè scrocla a maraveia
e us gonfia a moll, cumpagna è zambudell.
(ci piace cantare, ci piace la poesia,
ci piace bagnare nel vino un bracciatello,
quello della croce che scrocchia a meraviglia
e a mollo si gonfia come una salsiccia).

A causa della loro consistenza abbastanza coriacea, sui bracciatelli c’è una divertente testimonianza di Orio Vergani riportata sul Corriere della Sera del 18 marzo del 1959 all’interno del ritratto che il Fondatore della nostra Accademia fece a un castellano illustre, lo scultore e ceramista Angelo Biancini detto “Anzulè” (che ha l’onore di avere un’intera sala dedicata ai Musei Vaticani). Vergani e Biancini si frequentavano ed erano in rapporto di grande amicizia tant’è vero che il giornalista racconta numerosi aneddoti sull’artista, come quello in cui narra che Anzulè era solito viaggiare in autostop su e giù per l’Italia con un un cartoccio di “crocette” consegnategli direttamente dalla madre. Vergani definisce i bracciatelli come “certe ciambelle di biscotto sulle quali i denti che non siano quelli di Biancini o dei suoi cani non lasciano segni. Una volta mi aspettò – continua Vergani – tra la folla ad un passaggio del Giro d’Italia: mi sentii chiamare dalla sua voce tonante: lanciò attraverso il finestrino dell’automobile un pacco di quelle crocette: non fui svelto, mi presero in piena faccia, mi fecero sanguinare i denti, mentre sentivo la voce rombante, sempre più lontana di Anzulè che gridava: «Te le manda la mia mamma!!!…».

Purtroppo la globalizzazione anche dei palati e l’avvento dei forni elettrici al posto di quelli a legna hanno portato a un sostanziale appiattimento dei prodotti da forno, per cui i bracciatelli prodotti al giorno d’oggi a Castel Bolognese, per chi li ha potuti mangiare ai tempi di Pavlô, non sono naturalmente più gli stessi; ma il peccato più grande è che un prodotto così tipico e persino iconico di un intero paese vada col tempo scomparendo.
Come accademici auspichiamo che, anche grazie a iniziative come la Sagra de’ Brazadel che si svolge solitamente nel mese di novembre a Castel Bolognese, non si spenga la fiamma viva di un piccolo borgo e del suo prodotto più caratteristico, e’ brazadèl d’la cros, così apprezzato dai castellani… anche se probabilmente un po’ meno da Orio Vergani.

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