Anzulè

(Premessa). Nel sito castelbolognese.org è sempre mancata una biografia di uno dei più grandi personaggi del nostro paese: Angelo Biancini. Non abbiamo mai trovato un testo che fosse soddisfacente, completo di tutto ma nel contempo abbastanza breve. Negli anni sono poi comparsi tanti testi su internet ed è nato un sito, in continua crescita, dedicato espressamente allo scultore: https://www.angelobiancini.com/. Vi invitiamo a visitarlo, così come vi invitiamo a leggere gli articoli che il nostro Valentino Donati sta pubblicando da alcuni anni sul periodico 2001 Romagna, con una dettagliata biografia a puntate a cui abbiamo dato, di tanto in tanto, un piccolo contributo.
Qualcosa ad Angelo Biancini vogliamo dedicare anche noi, e riproponiamo un articolo, con la firma prestigiosa di Orio Vergani, comparso nel 1959 sul Corriere della Sera, dedicato non tanto al Biancini scultore, ma al Biancini uomo. Crediamo sia una delle cose migliori scritte su Anzulè (e così si intitola l’articolo): una biografia bonaria, come la definisce Vergani stesso. Gli aneddoti si sprecano e alcuni sono oramai leggendari. L’articolo inizia parlando della madre di Anzulè, Francesca Diversi (1872-1970), e della festa annuale che Biancini organizzava in suo onore, in prossimità del suo compleanno, invitando tutti i suoi amici. Una festa che, divenuta sempre più partecipata, da casa Biancini fu poi spostata all’Albergo Ristorante Paradiso di Riolo Terme. Biancini stesso faceva stampare un invito per la festa, e ne parla anche nella toccante memoria funebre dedicata alla madre, a cui era legatissimo. Una volta mancata la mamma, Biancini mantenne la bella tradizione e il ritrovo annuale divenne, semplicemente, festa dell’amicizia, e per diversi anni si svolse al ristorante Spaventapasseri di Argenta. Interessantissimo anche il riferimento al nonno di Biancini, che si chiamava pure lui Angelo Biancini (1838-1910) ed era stato garibaldino, oltre ad essere stato cuoco nelle cucine di re Umberto I nonché in quelle del nostro ospedale. (Andrea Soglia)

di Orio Vergani
tratto dal Corriere della Sera, 18 marzo 1959

La madre di Angelo Biancini, lo scultore romagnolo autore del Crocifisso che Papa Giovanni XXIII ha donato alla città dove fu Patriarca, ha compiuto poche settimane or sono ottantasette anni. Il figlio le ha riunito attorno uno squadrone di nipoti, di nipotini, di parenti, di amici. C’era una grande tavola imbandita, che tagliava in mezzo la cucina perché, secondo il vecchio uso romagnolo, le donne di casa Biancini stavano ai fornelli, e dai fornelli alla tavola doveva esser breve il passo per le pentole, per i tegami, per le teglie. Alla prima tavola, che già si prolungava nell’anticamera, se ne aggiunsero altre, che formavano per le varie stanze, dal pianerottolo ai tinelli e fin sulla soglia delle camere da letto, una specie di snodatissima architettura astratta. Il vocìo degli invitati giungeva in strada, si spandeva sotto al portico, che ripara le passeggiate serali dei cittadini di Castelbolognese, nipoti e pronipoti degli antichi elettori di Giosuè Carducci. Il Sangiovese zampillava dalle damigiane, come l’acqua dagli otri di marmo delle antiche statue che raffigurano, allegoricamente il Nilo pingue e il Tevere barbuto. Dai magazzini dei grossisti di frutta — Castelbolognese è una delle “capitali” delle mele italiane — arrivava un profumo senza confini di renette.

E’ facile, disegnando il ritrattino di un romagnolo, che ci tenti il ricordo delle vecchie novelle di Antonio Beltramelli, e che si intinga la penna nel calamaio del “luogo comune” di una Romagna clamorosa, godereccia, assetata di Albana davanti a massicce imbandigioni di tortellini. Beltramelli fu un caro amico e anche, in alcuni capitoli, uno scrittore non trascurabile; ma, a guardar con una certa attenzione in quelle sue vecchie pagine, per le quali Renato Serra dettò un giudizio di una esattezza non superata, ci si avvede ch’egli, a suo modo, fu, con apparenze opposte, un dannunziano. Dalle “Novelle della Pescara” alla “Figlia di Jorio” colui che, anche se gli allievi gli si dichiaravano avversi, fu il maestro, allora, di tutti, aveva fatto gradatamente giganteggiare, sino a farne talvolta delle statue tragiche ma ogni tanto solamente delle maschere di una retorica regionalista, i personaggi delle genti d’Abruzzo, dai serpari dei primi racconti ai “Mietitori di Norca”. La letteratura regionalista italiana si popolò così di genti irsute, di femmine infocate, di malandrini che dormivano sotto siepi di gelsomino. Nello stesso anno 1904, l’abruzzese Gabriele di quarantun anni guidato dagli infoiati mietitori dalle gole ebbre di sole e di vino, approdò a Mila di Codro, e il Tognazz romagnolo, di venticinque, si incantò, dietro gli occhiali a farfallina, a rimirare il volto di Anna Perenna. La dimora beltramelliana della Sisa, due o tre chilometri fuori porta a Forlì, fra i poderi di Coccolia, fu, e poi sempre rimase, una specie di Capponcina dei folclòre romagnolo. Beltramelli sarebbe stato un uomo felice se avesse potuto disporre di cinquanta locali, per farne un museo del costume di Romagna, come aveva fatto, ad Arles, il poeta Mistral, cantore della provenzale Mirella. Provenza e Romagna molto si assomigliano. Accanto a D’Annunzio, fra i maestri indiretti del romagnolismo letterario, collocherei, come ho detto, Mistral, ma soprattutto Alphonse Daudet – il Cavalier Mostardo di Beltramelli senza ironiche allegrie, si specchia in Tartarino — e Paul Arène, l’autore di Jean des Figues e della Chèvre d’or.
A chi affidare un ritrattino di Biancini, che, senza volerlo, ha imposto agli amici d’ogni parte d’Italia di chiamarlo come si fa nella piana di Faenza, Anzulè? A Marino Moretti, così segretamente amaro, il primo e grande antismargiasso della narrativa di Romagna? A Francesco Serantini, tutto calato nei colori dell’Ottocento del Passatore? Al poeta e senatore Aldo Spallicci, chiuso con il suo caro e per noi ermetico dialetto fra i libri e i pini della sua casetta di Cervia? Ad Antonio Baldini, per metà di sangue romagnolo e per metà di sangue toscano, maestro nel cucinare gli “amici allo spiedo”? A tutti, fuorché, mi sia concesso, agli specialisti del romagnolismo – me lo perdoni la cara ombra del Tognazz di Coccolia… – che continuano a trascinarsi appresso quell’aggettivo di “solatia” così facilmente e tenacemente appiccicato all’immagine che da non so quanti decenni a questa parte ci si è fatta, appunto, della “Romagna solatia”.
Chi scrive queste righe non fa professione severa di critico d’arte. Due colossali autocarri carichi di bassorilievi in ceramica sono arrivati giorni fa a Milano, per esporre molti metri quadrati di bassorilievi di Biancini nel salone della Galleria di San Fedele: e in queste colonne ne ha parlato Leonardo Borgese. A me piace continuare nel mio ritrattino, secondo la mia vocazione che è quella del biografo bonario.
A quel tale pranzo per “Mamma Biancini” non potei essere presente: ma, nel gran frastuono di quel giorno, mi par di sentire aggiungersi il latrato dei cani di Anzulè, che non va a caccia, ma che alla custodia dei cani, come a fedelissime e feroci governanti, ha sempre affidato i suoi figli. Quello che li allevò da bambini e che ringhiava con ferine minacce se qualcuno si avvicinava alle loro culle, era un famoso divoratore di polpacci degli accalappiacani romagnoli. Nelle sere d’inverno, quando i geloni cominciavano a pungere, scaldava col fiato, il temibile lupo, le manine dei suoi protetti. Il vecchio cane, la belva affettuosa e terribile, non minaccia più, dalla buia scala di Anzulè; è ormai là, nel misterioso luogo da cui i cani fedeli vegliano ancora sulla sorte dei loro padroni. Al suo posto son cresciute altre belve, perché Biancini ha un affetto quasi medievale per i cani di alte membra e di minacciose fauci come nei conviti dipinti dal Veronese, e nel “pranzone” di Castelbolognese i cani di Anzulè campeggiano, fiutando il fondo dei pantaloni degli invitati, senza badare se si tratta del prefetto di Ravenna o del direttore del Museo della Ceramica di Faenza, e mettendo ogni tanto le zampe sulle tavole. Ciotole per loro sono sparse da tutte le parti, perché anch’essi festeggino la decana. Mamma Biancini non è a tavola, perché non si vuole che la vegliarda sia indotta in tentazioni gastronomiche non adatte ai suoi anni: siede ad un tavolino appartato, davanti ai suoi “assaggi” e, dietro ai suoi occhiali, controlla l’andamento della augurale bisboccia.
Fu una mammina un po’ dura di mani, come per necessità lo sono state le mamme che furono molto povere in gioventù. A forza di colpi di nocche sulla testa del figliolo, il suo Anzulè è cresciuto gigantesco. Razza solida: per quattro mesi, quando la guerra batteva orribilmente su tutta la Romagna, mamma Biancini visse, per così dire, sepolta viva in una cantina. Il figlio, uscito sotto alle cannonate per rubare in un campo qualche cavolo, si trovò ad essere “scavalcato” da una improvvisa avanzata americana; per quattro mesi, lacero e alla fine scalzo, vagò per la campagna senza poter più tornare a casa. Come campò? Staccando dei rami di pero o dì ciliegio, che trasformava in bastoni scolpendone il manico con un coltelluccio, e vendendoli ai negri, che aspettavano sui fiumiciattoli un nuovo ordine di avanzata. Intagliava bastoni come l’Aligi dannunziano, e intanto pensava che, con tutta probabilità, sua madre, la moglie, i figli, la sorella erano rimasti sfracellati da qualche bomba.
Suo nonno, di famiglia di contadini, era cuoco delle cucine di Re Umberto. La regina bionda che fu cantata dal Carducci assaggiò spesso, assieme, a Marco Minghetti suo maestro di latino, i tortellini del vecchio cuoco Biancini, che erano piaciuti anche ai legati di Pio IX. Anzulè lavora fin da ragazzo alle argille del Lamone come suo nonno lavorava nelle sfoglie di pasta all’uovo. Ragazzo passò l’Appennino, calò a Firenze, fu scolaro prediletto di Libero Andreotti. A venticinque anni scolpì i gruppi equestri per il ponte sull’Adige a Verona. I primi soldi che guadagnava li portò a casa, perché la mamma avesse una casuccia tranquilla. Non sciacquò in Arno i panni dei suo dialetto: non si ingentilì fra i camiciai dì via Calzaioli e i sarti di via Tornabuoni: non si rase mai i baffi ispidi e forti come pesanti scopettoni da pavimenti. Fu fedele al sarto del suo paese, alle stoffe di solidi e un po’ strani colori, alle camicie da carrettiere, ai maglioni da muratore. Non imitò un costume esistenzialista: restò fedele al vestire paesano, ai berrettoni da ciclista col paraorecchie. Quando lavorò all’Angelicum di Milano per collocare nel refettorio dei Padri Minori il bassorilievo dell’Ultima Cena, che è forse il capolavoro della ceramica moderna, girando per via Moscova vestiva in modo tale da essere scambiato – fosse stata notte – per un rapinatore, o, di giorno, per uno che andava a ricevere dai frati di Padre Zucca la pagnotta di Sant’Antonio Credo che sua madre, in ottantasette anni, non si sia mai allontanata da Castelbolognese, e che sia andata, una sola volta a Faenza. Biancini è abituato a comandare in famiglia; è lui che compra i mobili, che rifornisce la cantina, che arriva da Faenza, dove insegna, con un sacco di farina “zero-zero “. Ogni tanto sbarca con un pacco di stoffe sulla canna della bicicletta, e grida affettuosamente: “Ecco qua, donne! Vestitevi… “. Non ha mai ammesso che sua moglie e le figlie scegliessero una stoffa per proprio conto. Così si usava nella Romagna del Trecento, quando Dante viveva, vecchierello, a Ravenna. Alle otto e mezzo si va a letto, nelle stanze che vibrano per il traffico notturno della via Emilia. Alle quattro e mezzo Anzulè è sveglio, e alle cinque e mezzo è già in bicicletta per andare all’Istituto della Ceramica di Faenza dove insegna scultura. Alle sei bussa al portone della Scuola, e, fino alle otto, ha due ore buone per lavorare mentre il custode torna forse a dormire
E’ uno strano viaggiatore. Se deve venire a Milano sale, quando è possibile, su un camion di frutta, con la testa chiusa in un passamontagna di lana. Io ho fatto vari viaggi con lui: non gli ho mai visto una valigia. Gli albergatori devono fidarsi di questo viaggiatore che ha una camicia di ricambio in una tasca del pastrano, due paia di calzette nelle saccocce dei pantaloni e un pettinino nel taschino. Ma cosa gli occorrerebbe di più, se è quasi sempre ospite dei conventi e dei santuari dove va a lavorare? In città lo infastidiscono gli alberghi dove è così difficile avere in camera, alle quattro e mezzo del mattino, una pagnotta e mezzo litro di rosso per far colazione. Fino a qualche anno fa, quando partiva, sua madre gli consegnava un cartoccio di “crocette “, certe ciambelle di biscotto sulle quali denti che non siano quelli di Biancini o dei suoi cani non lasciano segni. Una volta mi aspettò tra la folla ad un passaggio del Giro d’Italia: mi sentii chiamare dalla sua voce tonante: lanciò attraverso il finestrino dell’automobile un pacco di quelle “crocette”: non fui svelto, mi presero in piena faccia, mi fecero sanguinare i denti, mentre sentivo la voce rombante, sempre più lontana, di Anzulè che gridava “Te le manda ia mia mamma!!!…”. Una volta arrivò a Milano alle sei del mattino: aveva viaggiate tutta notte con sulle ginocchia un branzino da cinque chili, avvolto nel ghiaccio. Fradicio d’acqua, con il gocciolante branzino, tenuto contro il gilet come un bambino, la portinaia lo fece salire alle stanze per la scala di servizio, ritenendolo un garzone pescivendolo. Per non disturbare, Anzulè depose il branzino sullo storino dell’ingresso, vicino alla bottiglia del latte, e sparì per correr a lavorare con i muratori dell’Angelicum per collocare una statua della Vergine. Una sera tarda di domenica, uscendo dal mio ufficio al giornale, sbagliò scala e si sperse nel buio degli uffici al pianterreno. Due guardiani gli saltarono addosso. Non capirono nemmeno una parola del dialetto con cui cercava di spiegarsi quel tipo che aveva il passo cauto di uno scassinatore: già lo palpavano per vedere se aveva addosso armi o trapani e “piedi di porco” quando accorsi ad una loro agitatissima chiamata.
Credo che dubitino ancora di me, che dissi: “Scassinatore? Ma se è il più caro e buon scultore di angeli e Madonne che ci sia in Italia…”.
Non credo vivessero diversamente gli scultori dei secoli dietro: il Brunelleschi, che andava a far la spesa in grembiule, Michelangelo vecchio che dormiva senza levarsi i pantaloni per un mese: e, più giù nel tempo, gli scultori romanici che riposavano come gli scalpellini sul pavimento dei Battisteri, mentre fuori sibilava l’inverno. Insomma, nella figura di un uomo di quarantotto anni, un italiano antico, quando gli scultori si chiamava modestamente “tagliapietre”. E se volete conoscere di lui l’altra faccia, e come lui veda Gesù e Maria, e gli Angeli e gli arcangeli, andate a San Fedele.

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