Vita da notaio: Babone Ramberti e Michele Caglia

L’avere certezza dei rapporti giuridici è da sempre stata una necessità di qualsiasi società evoluta ed organizzata. Difficile quindi conoscere quanto sia antica l’arte notarile, cioè quella attività svolta da particolari persone appositamente nominate dalle Autorità per certificare ineluttabilmente la verità su fatti, su atti, su persone. Agli scribi, che sappiamo essere esistiti ai tempi di Babilonia, nell’Egitto delle piramidi, nella Giudea di Gesù Cristo, successero i romani Notarii, che tradotto diventa amanuensi, segretari, i quali, assieme ai cugini poveri, i Tabularii che poi diventeranno i Cancellieri, sopravvivono tuttora nella storia giuridica di questo nostro Paese.

Mi sono imbattuto, nelle mie ricerche storiche, in tante figure di notai, ma nessuno mi ha lasciato un immagine di sé talmente viva come i castellani Babone Ramberti e Michele Caglia. Nessuna affinità, nessun destino li avvicina, nemmeno il tempo può fare questo miracolo, poiché il primo ha operato agli albori del quindicesimo secolo, il secondo nella prima metà del diciottesimo. Eppure è come se adesso li avessi qui, davanti a me, nel mio studio. Del primo ho reperito numerosissimi atti presso l’archivio di Stato di Faenza. In un periodo in cui pochissime persone sapevano leggere e scrivere, occorreva ricorrere molto spesso al notaio, che era piuttosto uno scrivano pubblico, per soddisfare il famoso adagio carta canta, villan dorme, non solo per tutti gli atti che ancor oggi necessitano della sua presenza, ma anche per cose che a noi uomini sulla soglia del ventunesimo secolo fanno un poco sorridere. E’ il caso di un riconoscimento di debito per la compravendita d’un bue fatto da Manfredo Mini di Castelnuovo in favore di Tonino dal Borgo di Castel Bolognese (che comunque varrebbe oggi come un pacchetto di cambiali firmate per l’acquisto d’un trattore) o per sancire la pace tra le famiglie di Petronio Torta rettore di S. Andrea di Ossano, Fabrizio Rossi e Bersano della Calbana tutti di Castel Bolognese con la famiglia Contoli di Aguzzano già abitante a Campiano rogando l’atto nella chiesa di San Francesco davanti all’altare della Madonna. Curioso il caso di Domenico da Casale abitante a Biancanigo che era debitore insoluto di Guerra della Pideura e perciò era in carcere; con un rogito stilato presso la finestra della prigione, Giovanni Pallantieri promette di accollarsi il debito.

Per gli atti più importanti, testamenti, compravendite, la sacralità del testo e della forma è la stessa dei notai di oggi; cambia solo la lingua, poiché Babone Ramberti adoperava un latino che farebbe rabbrividire uno studente del Ginnasio con una stirata sufficienza e inorridirebbe il povero Cicerone. Il nostro Babone non aveva un ufficio e, come tanti sensali d’un tempo, occorreva cercarlo in piazza. Dobbiamo perciò immaginarlo correre a destra e a manca per stendere atti ove veniva chiamato, specialmente nei giorni di mercato quando i contadini venivano in città per acquisti. Senza una sede (e questo è il tratto distintivo tra il notaio, libero professionista, ed il Cancelliere che invece sedeva presso il cancello dell’Ufficio Pubblico cui era addetto) tutti i posti erano buoni per rogare: le scale del Palazzo Pretorio, i portici della via Emilia, ma, soprattutto, la farmacia di Giovanni Battista Pallantieri, o la drapperia di Giovanni Pallantieri che si trovavano sulla via Emilia, l’una di fronte all’altra, la prima all’incirca ove oggi c’è la ferramenta Soglia, la seconda grossomodo all’altezza della salumeria Conti, che diventavano così improvvisati studi notarili offrendo, soprattutto nei mesi invernali, un poco di riparo e di calore al nostro notaio ed ai suoi clienti.

Diversa è la vicenda di Michele Caglia: questi nel 1705 fu carcerato per debiti a Imola e nell’anno successivo venne ammesso al miserabile ed obbrobrioso beneficio della cessione de’ Beni coll’obligo di portare il Cappel Verde (donde il detto essere al verde di colui che si trova senza un quattrino), e con tutte le Marche d’ignominia prescritte dalle leggi. Egli tuttavia, in barba alla sospensione comminatagli, ricominciò a rogare atti senza autorizzazione spargendo voce d’esser stato abilitato da Mons. Prefetto degli Archivi, con grave danno della pubblica fede. La Comunità di Castel Bolognese doppo aver escluso a mezzo del Podestà il d° Caglia dall’Offizio di Procuratore, gli hà fatto intendere dal suo Secretario che esibisca le facoltà e privilegij con i quali presentemente roga. Il notaio rispose di rogare con li prvilegij ad esso concessi nell’atto che fù creato Notaro, e pertanto il Governo Comunale fu costretto a ricorrere al Senato Bolognese affinché questi, con pubblici proclami, sospendesse al Caglia l’esercizio del notariato. L’affare fu poi trattato a Roma dalla Sacra Congregazione degli Archivi, ma non ne conosciamo l’esito che, senza dubbio, sarà stato sfavorevole al nostro notaio indebitato.

Non sappiamo quali fossero le tariffe dei notai d’un tempo ma, se rapportate a quelle attuali un suo intervento doveva costar caro anche nel settecento; dunque, il buon Caglia deve aver dilapidato un bel patrimonio, forse al gioco, prima di essere oppresso dai debiti, costringendolo all’esecuzione forzata sui beni rimastigli. Certo non doveva essere un bel vedere incontrarlo per la piazza col berretto dell’ignominia in testa, lui stimato notaio che, comunque, conservò la fiducia dei castellani che ripresero a chiamarlo per rogare i loro atti.

Queste due brevi storie, d’un laborioso notaio medievale e di un altro più sfortunato collega dell’età moderna, non vogliono essere una lezione morale, ma soltanto uno spaccato di vita, piuttosto inedito, del nostro Castello.

Paolo Grandi

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