Storia di Italo Succi (1936-2021), agronomo

di Lorenzo Raccagna

Lo scorso 27 gennaio 2021 un improvviso malore si è portato via all’età di 84 anni Italo Succi. Come ha sempre ricordato con orgoglio il fratello maggiore Nino, è stato il primo mezzadro di Castel Bolognese a laurearsi in agraria, in un’epoca in cui gli studi universitari erano ancora prerogativa di pochi e comportavano, specialmente in famiglie poco abbienti come la sua, sforzi e sacrifici sconosciuti a molti giovani di oggi.
Quarto di cinque fratelli, la sua famiglia era originaria della frazione faentina di Rivalta, sulle prime colline che conducono a Modigliana. Nel maggio ’45, appena terminata la guerra, con un carro e un biroccio trainati da un paio di buoi e una mucca – come lui stesso ricordava – i Succi arrivarono a Castel Bolognese. Si stabilirono alla Pace nel podere Anconata, dove lavoravano la terra per conto della famiglia Zaccherini. A Castello Italo fece le elementari e la scuola triennale di avviamento agrario (le scuole medie ancora non erano state istituite). Da lì per l’ottimo profitto riuscì ad accedere alla scuola per agenti rurali di Bagnacavallo, dove fece altri due anni. A 16 anni si iscrisse all’Istituto tecnico agrario “Scarabelli” di Imola, dove fece un triennio (gli vennero riconosciuti i due anni fatti a Bagnacavallo) e si diplomò nel ’55. Il lungo tragitto che separava casa sua dalla scuola imolese lo percorreva tutti i giorni in bicicletta, anche quando d’inverno c’era un metro di neve, come lui stesso era solito ricordare ridendoci sopra.
Dopo il diploma, con i genitori e i fratelli che continuarono a garantirgli il loro appoggio, decise di proseguire ulteriormente gli studi iscrivendosi alla facoltà di agraria dell’Università di Bologna. Per farlo però dovette prima superare un esame integrativo di italiano e storia, che al tempo veniva richiesto a quelli che provenivano dagli istituti tecnici. Per tutta l’estate andò a studiare da don Italo Drei, l’allora parroco della Serra che era anche professore di lettere, e riuscì a superare anche quell’esame e ad ottenere l’idoneità per iscriversi all’università.
I fratelli raccontano che il comodino sul quale studiava lo aveva ricavato la madre Teresa da una cassetta di bossoli calibro 20 precedentemente usati dai soldati tedeschi; sopra ci aveva messo una candela per riuscire a leggere anche nelle ore buie, perché la luce elettrica arrivò soltanto nel ’58. Dopo diversi anni nei quali fece sempre su e giù da Bologna in treno, nel 1960 raggiunse il traguardo della laurea in Scienze agrarie discutendo una tesi sul vitigno autoctono “Albana della Serra” (1), che diverrà in seguito il primo vino bianco italiano DOCG (denominazione di origine controllata e garantita) (2). Dopo aver espletato anche il servizio militare e aver insegnato per un breve periodo alla scuola di pratica agricola “Caldesi” di Faenza (oggi Persolino), nel ’62 vinse un concorso pubblico per un posto da agronomo nella sede lughese del Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale, dove ha lavorato per oltre trent’anni come direttore dell’area agraria. Qui si è fatto apprezzare per le doti umane e la grande lungimiranza, firmando studi e progetti innovativi sulle tecniche irrigue che lo hanno reso una figura molto stimata nell’Ordine degli agronomi. Era inoltre un grande esperto di estimo rurale, disciplina nella quale i colleghi più giovani lo considerano tuttora un riferimento.
Dopo la meritata pensione Italo si era dedicato a tempo pieno alla famiglia e agli adorati nipoti Rachele e Francesco, ma era rimasto in contatto con gli ex colleghi del Consorzio di Lugo, con i quali continuava a vedersi periodicamente. Nelle mattine soleggiate lo si incontrava facilmente in piazza Bernardi a cavallo della sua bicicletta, mentre scambiava quattro chiacchere con i fratelli e con gli altri castellani della sua generazione. Aveva sempre la battuta pronta e riusciva a scherzare con tutti, dai bambini nel passeggino ai vecchietti con la zanetta.
Mi ha sempre colpito anche il suo grande equilibrio. Mai una parola fuori posto, mai un gesto sopra le righe. Anche quando avrebbe potuto mettersi in luce sugli altri e far prevalere i titoli per i quali tanto aveva faticato, è sempre rimasto umile e disponibile con tutti.
Sono certo che tutti quelli che come me hanno avuto la fortuna di conoscerlo faranno tesoro dei suoi preziosi insegnamenti e dell’esempio che ci ha dato.
Arrivederci, caro Tito.

(1) Alla tesi di laurea era allegato un ricco album fotografico, disponibile in digitale sul sito della Biblioteca di Agraria “Gabriele Goidanich” dell’Università di Bologna all’indirizzo:
http://agraria.sba.unibo.it/it/archivio-e-manoscritti/album-delle-tesi-di-laurea/album-della-tesi-di-laurea-di-italo-succi
(2)
 https://www.slowfood.it/slowine/anteprime-romagna-protagonista-finalmente-anche-lalbana/#:~:text=L%27Albana%20di%20Romagna%20%C3%A8,quasi%20neutri%2C%20assolutamente%20privi%20di



Italo Succi negli ultimi anni si era dedicato alla scrittura, al computer, di ricordi di famiglia e di vecchie pratiche agricole oramai scomparse ma che lui aveva conosciuto direttamente. La figlia di Italo, Paola Succi, ce ne ha inviato uno (su cui forse Italo stava ancora lavorando e non ha fatto a tempo a completare) che riteniamo molto interessante, perché contiene un’autobiografia di Italo e il racconto di come nel 1945 la famiglia Succi ricominciò da capo, a Castel Bolognese, nel podere Anconata. Sono descritte minuziosamente anche tutte le colture con le quali ripartirono a coltivare un podere seriamente danneggiato dal passaggio del Fronte bellico, e le usanze dell’epoca. Uno spaccato della vita di campagna dell’immediato Dopoguerra vissuto da bambino e descritto da adulto con la competenza dell’agronomo. Ringraziamo sentitamente Paola Succi per il testo e anche per le fotografie che arricchiscono questa pagina (A.S.).

LA MIA STORIA

di Italo Succi

Sono nato il 18 maggio del 1936 nella parrocchia di Rivalta in comune di Faenza , più precisamente nel podere Palazzone posto sulla strada per Modigliana, a 5 km da Faenza.
La famiglia era così composta: Nonna Teresa , sei dei suoi sette figli (la figlia Giovanna era sposata ed abitava a Faenza) e più precisamente Francesco del 1902, Battista del 1904, Achille del 1907, Carlo del 1914, Maria del 1917 e Giuseppe del 1921.
Francesco era sposato con Marianna ed aveva due figli, Volturno e Pierino. In seguito sono nati Giuseppe, Franco e la Nives.
Battista, mio padre, era sposato con la SPALAZZI Teresa ed aveva 4 figli, Antonio, 1931, Michele, 1932. Gigliola, 1933 ed il sottoscritto, 1936. In seguito (1944) è nato Pier Paolo.
Achille sposato con Giovanna aveva una figlia, Anna, 1936. In seguito (1942) è nato Sante.
In conclusione quando sono nato ero il 17° componente della casa.
Nel 1942 ho cominciato la scuola frequentando la prima elementare nella scuola multi- classe di Rivalta. Nel 1943 ho frequentato la seconda, nel 1944, in piena guerra, le scuole rimasero chiuse.
Il 25 novembre del 1944 arrivarono i primi soldati alleati, erano polacchi. Faenza fu liberata il 17 dicembre.
Il 18 maggio del 1945 i miei genitori (e figli) si trasferirono nel podere ANCONATA posto in via Casanola n° 10 in Comune di Castel Bolognese.
Il primo luglio ebbe inizio, presso le Suore Maestre Pie di Castel Bolognese, un corso di recupero della classe terza elementare, della durata di un mese, che io frequentai con esito positivo.
Nel 1945-46 frequentai la quarta elementare e la quinta nel 1946- 47 poi avrei dovuto smettere di andare a scuola.
Verso la fine di ottobre si presentarono a casa nostra i vigili urbani che fecero presente ai miei genitori che una recente legge rendeva obbligatorio, per tutti, di frequentare la scuola fino al compimento del 14° anno.
Venni pertanto iscritto alla scuola di Avviamento di tipo Agrario di Castel Bolognese che terminai a giugno del 1950.
Ai primi di novembre del 1950, a seguito di mie continue richieste venni autorizzato ad iscrivermi e frequentare i due anni di scuola Tecnica Agraria di Bagnacavallo. Con la licenza di avviamento non era possibile iscriversi all’Istituto Tecnico Agrario di Imola.
A giugno del 1952 conseguii il diploma di Agente Rurale.
Qui doveva terminare la mia carriera scolastica, ma un lunedì mattina mentre ero nel campo a lavorare vennero a casa mia un gruppo di ragazzi, che si erano diplomati con me, provenienti dall’Istituto Agrario “SCARABELLI” di Imola dove erano stati per informarsi circa la data in cui avrebbe avuto inizio l’esame di ammissione alla terza classe dell’Istituto. All’epoca, infatti, non era possibile iscriversi al terzo anno se non dopo aver e superato un esame di ammissione.
L’esame avrebbe avuto inizio il lunedì successivo. In una settimana mi procurai i libri necessari e fummo ammessi in due.
1952-53 terza
1953-54 quarta
Giugno 1955 diploma di Perito Agrario.
I Periti Agrari potevano iscriversi solo alle Facoltà di Economia e Commercio e di Agraria ma per iscriversi alla facoltà di Scienze Agrarie era necessario sostenere un esame integrativo di italiano e storia presso un liceo classico o scientifico ubicato presso un capoluogo di Provincia (Bologna, Ravenna, Forlì ecc.). Io lo sostenni presso il Liceo Scientifico di Forlì.
Nel 1960 mi sono laureato in Scienze Agrarie.
Il 3 marzo 1961 sono partito per il militare con destinazione Albenga.
Dopo aver completato i tre mesi di C.A.R. sono stato destinato al reggimento Folgore di Treviso.
Nel mese di luglio sono venuto a casa con venti giorni di convalescenza poi sono stato aggregato alla 7° Compagnia di Sanità presso l’ospedale Militare di Bologna fino al giorno 2 agosto 1962 quando sono stato congedato con il grado di soldato semplice.
La mia modesta carriera militare si giustifica nel fatto che al C.A.R. sono finito negli 8 titolari della squadra di pallavolo del Reggimento e pertanto come addestramento ho fatto allenamento poi ho partecipato al torneo militare dell’Italia del Nord che si svolse a Cuneo e dove arrivammo terzi.
All’ospedale di Bologna dove sono stato aggregato per sostituire un compagno di scuola che si congedava, lavoravo nel reparto Osservazione e dopo 40 giorni si andava a casa per 30 giorni di convalescenza. L’orario di lavoro era dalle sette della mattina alle 14 del pomeriggio, poi, spesso, prendevo il treno e tornavo a casa. Nel periodo fra la Laurea e la partenza per il militare ho lavorato presso l’ufficio anagrafe del Comune di Castel Bolognese. Anche durante i periodi di convalescenza andavo a lavorare in comune.
Ai primi di settembre dopo una prova di 15 giorni la Società Bayer mi richiedeva come tecnico per la zona di Copparo nel ferrarese. Nel frattempo mi veniva comunicato l’assunzione come insegnante di materie tecniche presso la scuola PERSOLINO di Faenza.
Ai primi di ottobre ho cominciato ad insegnare; in novembre sono risultato vincitore del concorso per il posto di Agronomo presso il Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale di Lugo, ho preso servizio all’inizio del 1963.
Fino alla laurea ho sempre collaborato alla conduzione del podere e quindi ritengo di conoscere bene la vita di campagna che vorrei qui brevemente descrivere con particolare riferimento all’immediato dopoguerra (avevo 9 anni).
Ricordo benissimo quando in maggio del 1945 con un carro e una un biroccia trainati da un paio di buoi e da una mucca arrivammo a Castel Bolognese. Su carro e sulla biroccia erano stati caricati quei pochi mobili e i bambini.
Il podere ANCONATA di via Casanola 10 era totalmente incolto (era appena passata la guerra) la casa colonica era vecchissima (data presumibile di costruzione 1200) danneggiata dalle granate e la cucina era in gran parte senza pavimento in quanto vi era stato costruito un rifugio interrato.
Non c’era la corrente elettrica, mancavano i vetri alle finestre, il capannone per il foraggio era distrutto, mentre era funzionante il forno per il pane anche se l’erba arrivava oltre la bocca del forno stesso.
La casa era senza bagno, l’acqua si andava a prendere dal pozzo, vicino alla cucina c’era la cantina con tini e botti di legno e subito dopo la stalla.
Mi ricordo che uno dei primi acquisti che fecero furono un paio di buoi e un paio di mucche romagnole (venivano da Sarsina).
Nel podere erano presenti filari di viti che, anche se non erano stati potati, avevano una discreta produzione di uva e pertanto iniziammo a fare i trattamenti contro la peronospora. Verso la metà di giugno, di notte, venne una violentissima grandinata che distrusse l’uva e anche quel poco di grano che erano riusciti a seminare nell’ottobre precedente. Sotto gli aceri dei filari di viti raccogliemmo centinaia di uccelli morti.
L’unico prodotto rimasto era il foraggio.
L’anno successivo dopo aver sistemato tutto (chiusi i buchi delle bombe e delle granate, abbattuti gli alberi secchi o danneggiati (ecc.) iniziammo si coltivazione del podere. Le colture principali erano rappresentate da:

-Viti
-Grano
-Erba medica
-Granturco
-Fagioli, come colture secondarie ( su piccole superfici)
-Orto
-Fava
-Canapa
-Saggina

VITI

Venivano coltivate in filari (piantate), fasce di terreno larghe circa 5 metri poste fra gli appezzamenti di terreno larghi mediamente 24 m (campi o terre). La forma di allevamento era il doppio pergolato con tutori vivi rappresentati dagli oppi (acero campestre), in alcuni casi erano presenti piante di pero (scipiona, spadona, pera mora, molinacce) o meli.
Le varietà coltivate erano il trebbiano romagnolo e l’albana, come uve nere si coltivavano la cagnina e il marzemino.
I trattamenti contro la peronospora venivano eseguiti in un primo tempo con la pompa a spalla, in seguito si utilizzava una pompa azionata a mano.
Il prodotto distribuito era la poltiglia bordolese. Soluzione di solfato di rame neutralizzata con calce.
Contro l’oidio veniva utilizzato zolfo in polvere distribuito con il soffietto.
L’uva veniva raccolta a mano, messa in cestoni o in casse .
Una volta in cantina veniva pigiata con i piedi, in seguito comparve la pigiatrice meccanica azionata a mano.
Il vino prodotto veniva, di norma, consumato in famiglia. Le vinacce non venivano torchiate, ma messe in un tino e con aggiunta di acqua si produceva il mezzo-vino.

GRANO

La prima operazione colturale era rappresentata dall’aratura eseguita con aratro di legno tirato da un numero vario di coppie di buoi e di mucche.
Sì procedeva in seguito alla preparazione del terreno per la semina utilizzando la zappa e l’erpice (la bicicletta)
La semina era manuale (spaglio)
In seguito venne utilizzata la seminatrice trainata dai buoi.
Il diserbo chimico era sconosciuto, le malerbe venivano eliminate in primavera con la roncatura manuale, si zappava il terreno posto fra le file con lo zappetto.
La raccolta del grano, mietitura, era fatta a mano con utilizzo della falce, durava 15-venti giorni compreso i giorni festivi. Spesso si ricorreva a manodopera esterna, il capofamiglia (l’azdor) alle tre del mattino andava al mercato dei mietitori per assumere personale. Alle quattro del mattino si iniziava a lavorare e si continuava fino al tramonto con brevi soste per la colazione ed il pranzo, consumati sul campo all’ombra delle piante. Si facevano poi i covoni, i bambini stendevano le apposite corde (i belz) le donne e gli anziani portavano i mannelli (al mane) mentre gli uomini legavano i covoni e li portavano a casa in attesa della trebbiatura.
Dopo aver consegnato metà del prodotto al proprietario del podere, il mezzadro metteva in magazzino il grano necessario per gli usi famigliari e quello per la semina dell’anno successivo, il resto veniva venduto.
Il grano per uso proprio si portava al molino per fare la farina e quindi il pane.

ERBA MEDICA

Nel dopoguerra era una delle colture fondamentali in quanto necessaria per alimentare i bovini della stalla. I bovini servivano come forza motrice per i vari lavori agricoli (aratura, semina, trasporti ecc.), e rappresentava una fonte di reddito per l’azienda (latte, vitelli ecc.).
La medica veniva tagliata a mano con la falce fienaia, solo in un secondo periodo si diffuse la falciatrice.
Una volta falciata l’erba medica veniva stesa per favorire l’essiccamento: era un lavoro affidato quasi sempre alle donne ed ai bambini, poi a giorni alterni veniva rivoltata per favorire l’essiccamento.
Dopo qualche giorno il fieno secco veniva raccolto in andane (strena) poi caricato sul carro e portato a casa per formare il pagliaio.
Il foraggio veniva utilizzato per l’alimentazione del bestiame. La stalla rappresentava per l’azienda agricola una delle attività fondamentali in quanto i bovini servivano come forza motrice necessaria per eseguire le varie operazioni colturali (aratura, semina raccolta ecc.) inoltre producevano vitelli, latte e quindi formaggio e letame necessario per la concimazione dei terreni.

GRANTURCO

Il Granturco veniva coltivato per ottenere la granella necessaria per l’alimentazione dei maiali e dei polli e dell’uomo (polenta), mentre le cime e le foglie, raccolte dopo la fioritura e prima della maturazione, servivano per l’alimentazione dei bovini. Gli steli (i malghez) venivano utilizzati per riscaldare il forno per cuocere il pane.
Si seminava in primavera, fine marzo primi di aprile, a mano, solo in un secondo periodo venne utilizzata la seminatrice. Si tracciavano le fila poi un operaio con la zappa faceva un piccolo buco e quello che lo affiancava gettava nel buco due semi. A circa 50 cm si faceva un altro buco e col terreno cavato si copriva il primo buco contente i semi, oppure si tracciavano sul campo le fila poi lungo la fila, alla distanza voluta, si gettava il seme e si copriva con il tacco della scarpa.
In maggio si faceva la prima zappettatura, in giugno la seconda.
In luglio, a fioritura avvenuta, si procedeva alla cimatura.
A fine agosto-settembre si raccoglievano le pannocchie, si sfogliavano si sgranavano o a mano o con un attrezzo particolare, la sgranatrice (e frol) si stendeva nell’aia perché si asciugasse ed infine venivano tagliati e raccolti gli stocchi utilizzati per riscaldare il forno.
In caso di maltempo il mais veniva ammucchiato e coperto, spesso veniva utilizzato il navaccio utilizzato per la vendemmia.
Il granturco serviva per l’allevamento e l’ingrasso dei maiali, come becchime per gli animali da cortile (galline, faraone, anatre, oche e tacchini) ed anche per uso alimentare (polenta).

FAGIOLI

Si coltivavano sotto i filari di viti e fra le file del granturco.

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Lorenzo Raccagna, Storia di Italo Succi (1936-2021), agronomo, in https://www.castelbolognese.org

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