Un giro nelle Cortacce a cavallo della Guerra
di Andrea Soglia
Già vi avevamo parlato delle “Cortacce” in occasione della cena di vicinato tenutasi il 30 settembre 2023. Ad essa sono seguiti un pranzo con porchetta (il 27 ottobre 2024) e un’altra cena (il 14 giugno 2025).
E allora ritorniamo sul tema, proponendovi un giro nelle Cortacce a cavallo della Seconda guerra mondiale, grazie alla poderosa memoria di Gino Pini (Gino barbiere) che nelle Cortacce è nato e cresciuto. Forse non sarà completo, ma in questo tour “virtuale” rivivranno tanti “tipi” castellani che in parte ho conosciuto anche io.
Per chiarezza premettiamo che, a partire dal 1876 e fino all’inizio degli anni ’50, le attuali via Guidi e via Amonio avevano la comune denominazione di via Amonio soltanto. E, probabilmente fino a tutti gli anni ’20, non esistevano aperture nelle mura, e il primo tratto dell’attuale via Guidi, a partire dalla via Costa, correva all’interno delle mura, parallelamente ad esse e all’orto delle Domenicane, prima di immettersi nel tracciato attuale di via Amonio.
Omettendo l’attuale tratto che costeggia le mura, e che all’epoca non aveva ingressi di abitazioni, risaliamo la via Guidi entrando dalle mura. Sulla sinistra il Torrione Ronchi, all’epoca regno di Iusafè Lavergna (Giuseppe Bagnaresi), ombrellaio e suonatore di chitarra, membro della Banda musicale di Castel Bolognese. Il suono della sua chitarra rallegrava feste e festini castellani. E nel torrione Lavergna allevava usignoli.
Vi era poi la casa dei Piancastelli (oggi abitazione Sieni ed altri), non molto cambiata nel tempo. Ad inizio ‘900 vi viveva Francesco Piancastelli, fratello del famoso pittore Giovanni, con la moglie Orsola e i suoi cinque figli. Fra essi vi erano Gianni, morto nel 1917 per una malattia contratta al fronte, Angelo, futuro medico condotto a Mordano, e Giuseppe. Quest’ultimo rimase ad abitare nella casa dell’allora via Amonio e divenne agente agricolo (fattore) delle Opere Pie seguendo in qualche modo le orme del padre, che era stato fattore del marchese Zacchia, cosa che spiega il suo soprannome (Peppino de Fator), con la moglie e i figli Francesco e Francesca. Rimase ucciso il 4 marzo 1945 a causa di una piccola scheggia di granata che l’avevo colpito al cuore mentre rientrava dall’Ospedale. I figli emigrarono dopo la guerra e Francesco, detto Checco, stimato perito agrario, si stabilì a Bologna. L’ho conosciuto anche io nella sua casa della Bolognina, assieme alla moglie Pia Lanzoni, pure lei castellana. Mi raccontarono che, una volta trapassati, sarebbero stati sepolti a Castello, nella tomba dei genitori di lei, e mi raccomandarono di fare loro una visita quando mi recavo al cimitero, cosa che non manco di fare di tanto in tanto.
Val la pena spendere due parole per Gianni Piancastelli, figlio del dottor Angelo, nato e vissuto a Mordano, stimato maestro e poeta dialettale. Una volta mi confidò che avrebbe lasciato Mordano solo per trasferirsi nella vecchia casa di famiglia delle Cortacce e nell’adiacente torrione, lui che era anche appassionato di uccelli e senz’altro aveva conosciuto Lavergna quando col padre veniva a Castello.
Nella casa Piancastelli viveva anche Attilio Ricci con la moglie Matilda Tagliaferri e la figlia Maria. Ricci era falegname, e svolgeva i lavori soprattutto nel domicilio dei clienti. Suo socio era Bruno Peruzzi, detto Fernando.
Seguiva poi la casina più bassa dove viveva Vincenzo Fabbri, E Curpitò, con la moglie Virginia Zaccherini (La Curpitona) e i loro tantissimi figli, fra cui Domenica, Domenico (E Gagì), Settima e Ottava. Domenica sposerà Fernando Peruzzi e i due coniugi, con il figlio Gabriele detto Gabrio, emigrarono in Belgio. Ricordo benissimo anch’io la Virginia, mancata negli anni ’90 ultranovantenne, e le visite che riceveva dalla figlia Domenica: una macchina con targa straniera (una Volvo a tre marce, come rammenta Gino) nelle Cortacce, 40 anni fa, era un evento!
Risalendo l’attuale vicolo si costeggiava l’edificio, adagiato sulle vecchie mura, che a inizio ‘900 era stato caserma dei carabinieri, poi sostituito dall’orribile palazzone per costruire il quale non si esitò, nottetempo, ad abbattere senza troppi complimenti (e carte in regola) un tratto delle vecchie mura comprensivo di bastioncino semicircolare.
Nell’ex caserma, con cortile interno e stalla, vivevano diverse famiglie. Innanzitutto Pavièt (Sante Dall’Oppio, dipendente della Ditta Scardovi di giorno e falegname di sera) con la moglie Albina e la figlia Nadia, e poi Gino Pini col padre Evaristo (dapprima calzolaio e poi commerciante di formaggi), la madre Leontina e i fratelli Paolina e Luciano (Marcello e Giovanna nasceranno dopo la guerra). Inoltre abitavano nell’ex caserma Carolina Mazzanti, Caròla de Latt, titolare per l’appunto di una latteria, il marito Mario Scardovi (ortolano) e poi Sandrino d’la butega (Scardovi) con la moglie Ada e la figlia Vanna. Sandrino gestiva un alimentari nella parte dell’edificio che si affacciava sulla via Emilia. Mario ortolano coltivava il suo orto nella lingua di terra fra le mura e viale Umberto, a cui poteva accedere anche da una porta che si apriva nelle mura, dirimpetto all’ingresso all’ex caserma sulla via Guidi e anche da un cancelletto nei pressi della via Emilia e del negozio di Sandrino.
Percorrendo l’attuale via Guidi, ritornando verso le mura, si costeggiava la proprietà di Angelo Biancini, Angiulita d’Bartulmì, omonimo dello scultore e gestore del Buffet della Stazione, la cui abitazione si affacciava sulla via Emilia. Sul retro, nella zona ora occupata dalla casa Tini-Mambelli di recente costruzione, Angiulita aveva un camerone e l’uscita di servizio dove lo immaginiamo con i suoi mezzi di trasporto, lui che è stato il primo castellano ad avere una bicicletta, poi una motocicletta ed infine un’automobile (una “leggendaria” Diatto). Vi erano poi l’attuale casa Sarchielli, alla quale un tempo si accedeva dalla via Guidi, dimora di Pinòla e delle sue sorelle Alfreda e Giuliana, poi di Caldarè (Antonio Cimatti), padre di Olindo, Giuliana, Teresina e Paolo, anche lui futuro barbiere e, per un certo periodo, socio di Gino Pini. Successivamente vi si trasferirà lo stesso Gino Pini con la famiglia. Seguiva poi la casa di Mario Dalpozzo, Mario de Srai, marito di Anna Balbi (Ninetta) e padre di Pina, dove all’epoca vivevano i genitori Giovanni e Malvina e il figlio Giovanni (detto l’Aplichè) con i loro inquilini Giovanni Turrini (Gianì) e la moglie Iolanda. Adagiata sulle mura, poi, la casa del sottoscritto, all’epoca abitazione di Armando Casadio Dalpozzo, detto Armando d’Zanaren ma anche Caplò, per via del cappello con la grande tesa che indossava abitualmente. Muratore, portava vistosi baffi alla Guglielmo, suonava il basso ed era pur’egli componente della Banda. Nella sua casa fabbricava pallini di piombo per le cartucce, sfruttando la torretta, oggi scomparsa, che svettava sulla casa. Dal di lì, tramite una botola nel pavimento del primo piano, le gocce di piombo fuso precipitavano al piano terra, raffreddandosi nella caduta e prendendo una forma circa sferica. Dopo Armando nella “mia” casa visse per qualche tempo Pietro Liverani, Pirì d’Casalecc o Pirì la guardia, babbo di Cicci “E suvietic”. I miei nonni l’acquistarono nel 1963.
In una di queste case di fronte a quella dei Piancastelli era cresciuta, qualche decennio prima, anche Lucia Pasini (Lucia d’Pundor), futura madre dell’attrice Luisa Ferida che, a quanto si dice, aveva ereditato da lei la grande bellezza.
Ci trasferiamo ora nella via Amonio che conosciamo attualmente. E qui elenchiamo i personaggi che vivevano sul lato sinistro della strada, cercando il più possibile di seguire l’ordine esatto. Dopo l’attuale casa Sgalaberni, dove abitavano i coniugi Pasquale Zannoni e Amelia Gianandrea (genitori di Romana Zannoni Sgalaberni), in corrispondenza del retro dell’attuale forno vivevano i fratelli Tac e Pagàn. Seguiva poi la casa di Alessandro Geminiani “E Gob” con la moglie Annunziata con i figli Giancarlo e Maria. Giancarlo morirà diciottenne nel giugno 1945 dopo le gravi ferite riportate mentre sminava il podere della famiglia Lega (i Milèna) nella parrocchia della Pace. Più in là viveva anche la “Bataina” (futura moglie di Adrasto Mazzara) con i genitori. Veniva poi la casa di Tugnazì d’Baroni (Antonio Mignani), falegname, con la moglie Maria e i figli, fra cui Ettore e Luisa. Secondo Gino Pini, Baroni era un po’ l’emblema delle Cortacce. Leggendaria la sua lentezza su certi lavori: uno scanno da lavandaia, commissionatogli da due novelli sposi, fu consegnato solo quando oramai essi erano in pensione! Più in là vi era il portone dove Bagiola (Scardovi) entrava ed usciva con il suo carro funebre trainato dai cavalli prima, e motorizzato poi. Infine Luigiò Donigaglia con i figli Pietro, Leonardo, Evaristo, Enrico (Richèt, futuro tassista e gestore di pompe funebri) e Maria detta Mina. Nella stessa casa abitava anche un’altra figura caratteristica delle Cortacce: l’Angelina Perecotte, al secolo Angela Faranfa, moglie di Paolo Galeati e madre di Laurana e Ferdinando. La Perecotte, originaria di Cantalice (Rieti) aveva sposato Galeati nella lontana Bengasi, pochi mesi dopo la fine della Grande Guerra. Venditrice ambulante, sostava in particolar modo sotto i portici, passato l’ingresso della chiesa di San Francesco, sotto un riparo di stuoie. La “Perecotte” vendeva frutta secca, pere e mele cotte e, alla stagione, le caldarroste tenute calde nella “gòfa”: un sacco di iuta pieno di paglia. L’origine del suo soprannome è del tutto evidente, le pere cotte erano la sua principale specialità e nel tragitto dalla casa alla zona della piazza gridava spesso “Pere cotte!”. Impossibile non sentirla, anche perché caricava la sua mercanzia su di una carriola che aveva una ruota ferrata e quindi faceva un gran fracasso sull’acciottolato della via Amonio.
Sul lato destro, a partire dal fondo, sul breve tratto che va verso le mura, abitava “Barandël” (carrettiere). Poi, dopo un lungo tratto senza ingressi, si trovava la casa di Armandì de Mel (Costa), padre di Ivo e Silvana (futura moglie di Franco Scardovi). Seguivano Angelo Visani (Casitèna) con la moglie Lucia Creonti e i figli Ermete (detto Dede) ed Elena. Ricordo bene Lucia e Casitèna, anarchico, classe 1893, morto nel 1990. Casitèna si trasferirà poi nella casa Piancastelli, oggi Sieni. Pina Dalpozzo ricorda che, un bel giorno, Casitèna gettò dalla finestra dei soldi. Alcune persone si stavano preoccupando di raccogliere il denaro e restituirlo a Lucia, ma lei, affacciata alla finestra, disse che se suo marito aveva fatto quel gesto c’era senz’altro un buon motivo e lei non voleva che le restituissero nulla.
Gli aneddoti sulla contrada si sprecano. Più in là nel tempo, negli anni ’60, Francesco Castellari, imbianchino (soprannominato Ducotone, dal nome di una marca di vernici) aveva il suo magazzino e su un muro aveva fatto decine di prove di colore, riducendolo ad un Arlecchino antesignano della street art.
Nelle Cortacce aveva vissuto anche il concorrente di Bagiola, Francesco Mattioli, detto Ceschi o anche e Re de Purtugal, vetturino, deceduto per ferite nel 1945, con i suoi sette figli, fra cui la notissima Ebe, Mario (detto Cagnèra), Dino e Settimo. Al tempo di guerra si era già trasferito con la sua attività in via Pallantieri.
Gino Pini ricorda anche i tanti espedienti dei bambini delle Cortacce per tirare su qualche spicciolo, soprattutto da spendere a Pentecoste al Luna Park. Ad esempio la raccolta di tubi di piombo da vendere ad Armando d’Zanarèn, oppure la raccolta di mattoni dalle macerie, da portare al Negus che li pagava 1 lira (se puliti) o 50 centesimi (se ancora da ripulire dalla calce). Infine, in occasione della Pentecoste, la via Amonio si trasformava in un grande deposito di biciclette dei forestieri che venivano alla festa. Gino ne ricorda fino a 1200 in contemporanea: i ragazzi avevano preparato le contromarche da dare ai proprietari per il ritiro del velocipede al termine del loro giro alla festa. Naturalmente i genitori non vedevano di buon occhio che i ragazzi spendessero denaro ai baracconi, e i rimproveri arrivavano puntuali anche perché, dopo una scorpacciata di liquirizia, Gino e gli amici tornavano a casa con la bocca sporca di nero e venivano facilmente smascherati!
Quando poi, d’inverno, veniva una copiosa nevicata, i ragazzini ammucchiavano la neve in fondo alla strada, nei pressi della casa di Armando d’Zanaren, creando una sorta di rampa (nel punto più alto misurava alcuni metri) da dove lanciarsi, in discesa, con una sedia ricurva che fungeva da slitta e, approfittando della leggera pendenza della strada, arrivavano facilmente in fondo alla contrada scivolando sulla coltre bianca.
Insomma, altri tempi.
E se vogliamo, le Cortacce, che avevano anche due fontane e senz’altro anche degli altri orti oltre a quello di Mario Scardovi, erano davvero quasi un piccolo mondo a parte nel vecchio Castello. Secondo Rino Villa, che pure per un periodo vi ha vissuto, il nome viene anche dal fatto che erano come una corte, un’organizzazione economica chiusa, dove si compiva l’intero ciclo di produzione e scambio al suo interno senza bisogno di uscire da essa.
Di certo, per gran parte del paese, rimaneva un quartiere malfamato, tant’è che si diceva che gli abitanti delle Cortacce fossero già a letto quando suonava l’Ave Maria e si alzassero quando suonava l’ora di notte, per sottintendere che con il favore del buio andassero in giro per rubacchiare qualcosa. Sicuramente gli abitanti delle Cortacce erano in gran parte molto poveri, per cui, come dice Gino, quello che qualcuno faceva eventualmente nottetempo era soprattutto dovuto alle ristrettezze economiche.
Gli abitanti, però, cattolici praticanti e non, erano tutti devotissimi alla B. V. della Concezione, patrona del paese, e quando una processione transitava dalle vie Amonio e Guidi, da entrambi i lati della strada compariva una lunga teoria di drappi e coperte di tutti i colori: sulle case erano state piantate delle “chiodelle” (che esistevano ancora fino a non molto tempo fa) alle quali venivano legate delle robuste corde che sostenevano le coperte. Sul selciato compariva poi un tappeto di petali di fiori, a formare tante lettere “M”. Secondo Gino uno spettacolo così colorato non si vedeva in nessuna altra contrada del paese.
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