Primo Garofani, Fani

Un ricordo in occasione del centenario della nascita

di Lodovico Santandrea

Primo Garofani nacque nel 1923 ed ereditò da suo padre Sante il soprannome: Bòcia. Questi svolgeva la sua attività di venditore ambulante di frutta e verdura girando con un carretto tirato da un cavallo sul quale trasportava i suoi prodotti e di lui Primo amava ripetere un aneddoto di quando, inviato in Libia a combattere la guerra italo- turca, si fece fotografare insieme ad altri commilitoni, poi spedì ai famigliari la foto sotto cui scrisse: “Sorvegliami che sono nel mezzo”.
Fin da giovine Primo si appassionò allo sport, ed in particolare al ciclismo ed al calcio, divenendo grande tifoso sia di Bartali che della Juventus.
Chiamato sotto le armi fu arruolato negli alpini, e più precisamente nell’artiglieria da montagna, rimanendo, da buon alpino, legato a quel corpo che tanto ha dato alla nostra Patria e, quando per la prima volta tornò a casa dalla licenza suo cugino Franco Budini che prestava servizio militare nella gloriosa Brigata Julia, lo aspettò in piazza, gli fece posare a terra il cappello con la penna nera e gli ordinò: “Fà un saltìn pel vecio”.
Terminato il servizio militare tornò a casa e sposò una delle più belle ragazze di Castello, Maria Zanelli, la prima donna in paese che ebbe il coraggio di indossare i calzoni e dal matrimonio sono nati quattro figli: Sergio, Velella, Sante e Arnaldo. Iniziò allora a dare una mano in negozio ai suoi genitori in quanto Bocia era riuscito ad aprire una bottega di frutta e verdura e non doveva più arrabattarsi a vendere i suoi prodotti trasportati sul carrettino.
Coltivando le sue passioni sportive praticò, ma solo amatorialmente, il ciclismo, con una bicicletta da corsa Legnano, la marca di Bartali, della quale era gelosissimo e che teneva in ordine perfetto, ed a livello agonistico il calcio giocando nel ruolo che allora si chiamava centr’half, sfruttando il suo fisico per quei tempi poderoso, tanto che ne ha sempre fatto un’unità di misura in quanto vedendo un giocatore sentenziava: “Quèl e cress do dida da mè”, oppure: “Quèl e cala un dì da mè”.
Evidentemente era ben dotato tanto che, dopo aver giocato a lungo nel Castel Bolognese, fu acquistato dalla squadra dell’Imolese che militava in una categoria superiore. Terminata, per ragioni anagrafiche, l’attività agonistica iniziò quella di allenatore del Castello, ritirandosi in bellezza dopo aver vinto nel 1954-1955 il campionato emiliano di I^ Divisione portando la squadra in Promozione, ma da appassionato quale era non rinunciava mai a dare consigli ai giocatori castellani sgridandoli se il sabato sera prima della partita andavano a ballare o suggerendo, quando c’era una domenica elettorale, ad andare a votare la mattina nel caso in cui si fossero infortunati gravemente. Inoltre quando Bruno Capra, ottimo portiere di Castello, fu chiamato nelle giovanili della Juventus, prima che partisse per Torino lo chiamò a rapporto raccomandandogli di attenersi a quanto era scritto nella lettera di convocazione: non farsi crescere troppo i capelli, essere rispettoso e comportarsi educatamente. Ricordo poi che durante un torneo di Biancanigo ad un giocatore (che per delicatezza non nomino) aveva predisposto il “calendario” dei rapporti sessuali, ma questi gli fece presente che non poteva dire di no alle richieste della moglie e tutto si concluse con una risata.
All’inizio degli anni 50 ebbe un periodo di sfortuna nera: la Juventus perdeva e Bartali non vinceva, così si buttò sul motociclismo con la Gilera, ma in quel momento vinceva la Guzzi e allora ripiegò sui camion sostenendo che il migliore era l’OM, ma risultò che era migliore il Super Orione e così Sergio Zurlo, che aveva una buona predisposizione per il disegno, preparò un cartello disegnato a mò di vignetta satirica dedicato a “Nunzio Fanografo”, scimmiottando il nome dell’allora presentatore di Sanremo Nunzio Filogamo.
Il soprannome con cui tutti l’abbiamo conosciuto gli fu cucito addosso dal suo buon amico Pippo Cani, che gestiva il Bar Sport, con una specie di filastrocca: Garofani, Garofàni, Fàni e così gli è rimasto appiccicato addosso ed è stato un distintivo marchio di fabbrica. Inoltre, per il suo fisico imponente, gli fu affibbiato anche il soprannome di Lanterna, perché a Castello con i soprannomi non abbiamo mai fatto economia.
Grazie alla sua passione sportiva è stato un grande amico dei giocatori castellani che militavano nelle serie superiori, ed alcuni in serie A: fra questi Tugnì Budini, Camillo Fabbri, ma soprattutto Mundì Fabbri, un’amicizia vera che per Primo era anche motivo di orgoglio.
Quando Mundì, che a fine carriera era stato a Parma con l’incarico di giocatore-allenatore, fu ingaggiato come allenatore dal Mantova che militava in serie D, il primo anno ottenne la promozione in C dove lottava con il Siena per la vittoria nel campionato e all’ultima giornata, siccome allora per conoscere i risultati delle serie minori bisognava attendere i giornali del lunedì, Fani nel bar organizzò una colletta per il costo della telefonata allo stadio di Siena per conoscere il risultato della squadra rivale ed esultammo tutti quando scoprimmo che il Siena aveva pareggiato mentre da Mantova avevano comunicato la vittoria con conseguente promozione in B e l’anno successivo il Mantova fece il definitiva salto in serie A dove, anche grazie alle ottime intuizioni dell’allenatore, specie nell’acquisto dei giocatori, ottenne degli ottimi risultati.
In quella città Mundì aveva lasciato un buon ricordo di sé perché nel 1994, ritornando con lui da Brescia dove eravamo andati per una questione di lavoro, ci fermammo a Mantova in un ristorante dove, ancora dopo più di trent’anni, fu accolto con tutti gli onori.
La chiamata poi ad allenare la Nazionale riempì Primo di orgoglio, anche se poi la fatal Corea gli creò un dispiacere che temo si sia portato dietro fino alla morte e di quella notte infausta è rimasta famosa la sua uscita a pochi minuti dal termine della partita quando si alzò in piedi commentando: “La realtà romanzesca” (il titolo di una famosa rubrica della Domenica del Corriere), poi crollò sulla sedia. In quell’estate del 1966 sui giornali cominciò a girare la voce che il medico della Nazionale, Fino Fini, avesse drogato i giocatori al contrario per far perdere la squadra, ma nel Bar Commercio, culla per decenni di battute al vetriolo, si diceva che la rovina di Mundì fossero state le tre F: Fini, Fani e Falignam.
Fra i ciclisti fu buon amico di Pipaza, di Ortelli, di Luciano Pezzi e amico e tifoso di Diego Ronchini che lui aveva battezzato “e lutador”. Un anno che il Giro d’Italia aveva fatto tappa nelle vicinanze con Ronchini in maglia rosa, insieme ad altri tifosi andò a salutarlo in albergo e mentre Ronchini riposava sul letto indicò con la coda dell’occhio a Primo, e solo a lui, la maglia rosa, un gesto che Fani interpretò come segno di amicizia e confidenza.
Era lui che in estate la domenica pomeriggio organizzava la gita in bicicletta al Confine per andare a rilassarci con una merenda in compagnia; partivamo in una decina e quando ci raggiungeva in macchina Sante Bellosi a tenere allegra la compagnia con la sua verve era una festa, poi al ritorno ogni tanto iniziava qualche scatto per potersene vantare nel bar ed anche se oggi può sembrare una piccola cosa, specialmente per noi ragazzi, erano occasioni di sano divertimento.
Nel 1961 io e mia sorella Fortunata andammo in Svizzera dove si svolgevano i mondiali di ciclismo (e ricordo ancora quando nel velodromo di Zurigo Maspes, all’ombra, tenne per quasi un’ora Rousseau al sole in un interminabile surplace) e, sapendo di fargli cosa gradita, spedimmo una cartolina con il logo dei mondiali indirizzata “Allo sportivissimo Fani”. La mattina in cui la ricevette Primo aspettò in piazza mio padre per mostrargliela tutto orgoglioso: “Guardì cosa ch’i m’ha mandè i burdèll”.
Quando come allenatore della Nazionale, dopo Mundì, fu promosso il suo vice Valcareggi, Fani lo ribattezzò “Il sacrestano” e fu accusato, quando giocava l’Italia, di tifare contro ma nel 1968, la sera della prima finale degli europei, con l’Italia che arrancava contro la Jugoslavia, per pulirsi la coscienza, mentre eravamo affannosamente arroccati in difesa, cominciò a cantare: “Il Piave mormorò non passa lo straniero” non mancando di farlo notare nel bar la mattina dopo a tutti quelli che gli rinfacciavano che sarebbe stato contento se la Nazionale fosse stata sconfitta.
Con il suo grande amico Ricagni si è sempre conteso il titolo di più grande tifoso della Juventus a suon di discussioni e battute reciproche e nel campionato 57-58, quello della prima stella, Richì stravedeva per Sivori, mentre Primo aveva preso in simpatia il diciassettenne Nicolè, che però aveva l’abitudine di passare indietro la palla, eresia a quei tempi, così Richì ogni volta che vedeva un giocatore passare indietro il pallone commentava: “Dai indrì c’ui è Nicòla” e Fani beccava in silenzio.
Oltre a dare una mano in negozio Primo lavorava dal suo grande amico Gidio Bosi e aiutava Palì pustè, specialmente quando moriva una persona importante a Castello e c’era da consegnare alla famiglia tutti i biglietti di condoglianze, così, a quei tempi la burocrazia non era asfissiante, fu assunto alle Poste e gli furono assegnate prima la zona della Serra poi quella del Borello con la, per lui famigerata, Via Biasotta de Cane ed era un siparietto divertente quando con Richì, che con l’autotreno percorreva più di 200.000 chilometri all’anno, si lamentava della fatica che gli costava guidare: “Mett in moto, zò la friziò, mett la prema, so la friziò”, il tutto senza cattiveria ma con la sana ironia sotto la quale albergava una profonda amicizia.
Fra le vecchie famiglie castellane l’amicizia si è sempre mantenuta da una generazione all’altra e così, come mio padre era amico di Bocia io lo sono stato di Primo, poi dei suoi figli, anche se è stata l’unica persona nel bar, a parte i vecchi (e Gnes, Gnazò, il Dott. Bolognini, Giacomino d’Pòr), alla quale ho sempre dato del voi e del lei, pur permettendomi di scherzare e, se necessario, di battibeccare quando si parlava di sport.
Ho però compiuto due gesti che mi sono stati perdonati con difficoltà: il primo quando, dopo la Corea, ho ideato il telegramma indirizzato a “Fani Falegname Rag. Bar Commercio Italy: Vengo a casa per i coppi. Mondo” e la seconda un mercoledì sera quando in televisione c’era una partita di Coppa dei Campioni. Avevo mangiato a casa un boccone in fretta e furia perché, se volevi prendere il tuo posto in prima fila nel forrnino, dovevi essere là ben prima delle otto e così alla fine del primo tempo andai al banco per mangiare un toast, ma quando tornai Balestrazzi si era seduto al mio posto e non ne voleva saperne di alzarsi, allora, proprio quando iniziava il secondo tempo, mi misi in piedi dinnanzi al trespolo su cui era sistemato il televisore dicendo che se io non potevo vedere la partita allora non l’avrebbe vista nessuno; a quei tempi frequentavo l’università e Primo, con il suo vocione, commentò: “Dmà a vegh a dscorer mé cun e Rettore ….Magnifico” suscitando una risata generale.
“Ronzio di un’ape dentro il bugno vuoto” come descriveva magistralmente storie piccole di studenti universitari il nostro illustre concittadino Avv. Francesco Serantini in un elzeviro in cui riviveva il beato tempo della sua gioventù goliardica (1).
Quando la mattina Primo arrivava al bar si ripeteva l’immancabile rituale di lui che prendeva i giornali spiegazzati sparpagliati qua e là fra i tavolini e, con cura, ripiegava le pagine cosicché, dopo il suo intervento, sembrava che fossero appena usciti dall’edicola ed un’altra sua caratteristica era quella di tenere nel portafoglio ritagli di articoli, fotografie e appunti vari da tirare fuori, dopo un’accesa discussione, al momento opportuno per zittire l’interlocutore.
Quando poi iniziò (credo) ad avere problemi di prostata commise un errore imperdonabile: fermò in piazza il Dott. Bagnaresi per chiedergli un consiglio dicendogli: “Dutòr um scapa semper d’pisé, cs’hoia da fé? E Carlo, in tono severo, senza fermarsi gli rispose “Pessa”.
Dopo un onorato servizio presso le Poste Primo cominciò a godersi la meritata pensione continuando a dibattere degli sport a cui era maggiormente legato e, nel 1999 se non ricordo male, in uno di quei pomeriggi sotto le feste di Natale in cui Cesare organizzava una bisboccia al Bar Commercio, gli fu consegnato il premio “Sportivo del secolo”, riconoscimento che lo riempì d’orgoglio, e, a parere di tutti, ampiamente meritato.
Quando fu colpito da una grave malattia mi faceva una immensa tristezza vederlo seduto in carrozzina, lui che era stato un atleta e, soprattutto, un uomo pieno di vitalità.
Poi anche per lui arrivò la Giacomina e ricordo che sulla cassa erano posati il cappello alpino e la maglia rossoblu del Castel Bolognese F.C.
Poiché la morte induce ai ricordi, all’uscita dalla chiesa gli amici rimasti immaginarono che ad accoglierlo nell’aldilà ci fossero i suoi grandi amici che l’avevano preceduto: Gidio e Richì che gli andavano incontro chiamandolo: “Ven Lanterna ch’a t’insignè nò la strè”.
E quando sarà il momento immagino che, essendo tutti raccolti in un fazzoletto di terra, ci ritroveremo io, lui, Ricagni e Peppino d’Zré a discutere di calcio, ma così non vale: tre juventini contro un interista.

Con affetto da vecchio castellano a vecchio castellano
Lodovico

(1) Francesco Serantini: “Da Santinone a Decio Raggi” – I quaderni della famiglia Romagnola – Bologna 1956

Album fotografico (dall’archivio di famiglia di Sante Garofani)

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