A 110 anni dall’inizio della Grande Guerra

discorso di Andrea Soglia letto l’1 novembre 2025 presso la Chiesa di San Sebastiano

110 anni sono passati da quel 24 maggio del 1915 quando anche per l’Italia, cominciò (come la definì papa Benedetto XV) l’inutile strage. L’entusiasmo iniziale di tanti fanatici si sopì ben presto, e anche a Castel Bolognese cominciarono ad arrivare tristi notizie dal fronte. Nella seduta consiliare del 7 settembre 1915 si rese omaggio ai primi caduti.
Anche nel nostro paese, alla propaganda degli interventisti, faceva da contraltare un’attività contro la guerra svolta dagli anarchici e dai socialisti: i primi con diffusione di volantini e di altra stampa, con scritte sui muri, con aiuti ai renitenti alla leva e ai soldati che non volevano tornare al fronte; i secondi con diffusione di stampa e con la parola in Consiglio Comunale. Inoltre molte altre persone, pur non essendo legate ad alcun partito, si proclamavano contrarie alla guerra. Alcune di loro furono anche arrestate per aver espresso, semplicemente, il loro pensiero e la loro compassione.
Il perdurare del conflitto, i lutti che colpirono molte famiglie castellane, e le restrizioni alimentari portarono ad altissimo livello il disagio della popolazione e nel 1917 avvennero a Castel Bolognese, come nel resto d’Italia, varie dimostrazioni popolari. La più forte di esse ebbe luogo il 19 agosto 1917: come attestano anche le carte di polizia dell’epoca, circa 1000 donne manifestarono in piazza, compatte, contro la guerra e il carovita, e undici donne furono arrestate (assieme a due ragazzini) e altre sedici denunciate a piede libero.
Non va dimenticata l’assistenza a tanti soldati feriti ricoverati nel nostro Ospedale e la generosa accoglienza ai profughi di Caporetto, oltre cento, che soggiornarono a Castello fra la fine del 1917 e il 1918 in attesa di tornare nelle loro case. 25 anni dopo lo stesso amaro destino toccò a tanti castellani.
Il 4 novembre 1918 la guerra finalmente terminò con la firma dell’armistizio e appresa la notizia la cittadinanza organizzò manifestazioni di esultanza: suono di campane, servizio pubblico della banda, corteo con fiaccole e tanta folla proveniente anche dalla campagna, breve discorso dell’assessore anziano.
Castel Bolognese, però, aveva pagato un alto tributo di vite umane, con 115 morti per ferite o per gravi malattie contratte in trincea o in prigionia, numerosi mutilati e feriti e anche alcuni traumatizzati psichici che all’epoca, senza troppi riguardi, finirono internati in manicomio. E tanti ragazzi, che si erano ammalati durante la Guerra, morirono negli anni immediatamente seguenti al 1919, senza nemmeno vedersi riconosciuti come caduti per la patria perché non erano morti sufficientemente presto. E non vanno dimenticate tante morti indirette: madri e padri affranti dalla perdita dei figli, lavoratori che si erano sovraccaricati di fatiche per sopperire all’assenza di familiari e amici.
Alcuni soldati castellani si distinsero per atti coraggiosi, e furono decorati al valore. Fra loro il contadino Francesco Rossi, medaglia d’oro al valor militare, morto per salvare il proprio comandante.
I nomi dei caduti sono ricordati con due lapidi poste all’interno della chiesa di San Sebastiano (a cui sono aggiunti i nomi dei circa 35 soldati caduti nella Seconda guerra mondiale) e con un albero dedicato nel Parco delle rimembranze. Potremmo parlare a lungo di loro, dal giovane e promettente poeta e calciatore al maestro elementare, dal contadino padre di famiglia al giovane garzone di campagna, dal geniale tipografo al giovane fornaio, dal commerciante d’olio al laureando in fisica. Di tanti sappiamo solo i nomi e i dati anagrafici. Ognuno ha avuto una propria storia, c’era chi era andato con convinzione a combattere per la redenzione della patria. C’erano tantissimi, invece, che furono sradicati dalle loro famiglie e mandati loro malgrado al macello, costretti a combattere per evitare di essere fucilati dai loro connazionali che li attendevano nelle retrovie. Le famiglie dei caduti furono gettate nella più profonda disperazione, perché al lutto per la morte di un caro si associava spesso anche la perdita della principale fonte di sostentamento. E le famiglie dei ragazzi dispersi si trovarono per tanto tempo ad attendere coloro che non sarebbero mai tornati, senza potersi nemmeno rassegnare e avere una tomba su cui poter piangere.
Ne facciamo parlare uno di questi ragazzi, perché le sue lettere sono giunte fino a noi. Era partito convinto per la guerra, ma ne rimase ben presto inorridito. Si chiamava Mario Cambiucci, aveva 20 anni, faceva il maestro elementare e si era iscritto all’Università di Bologna per perfezionarsi ulteriormente. Nel 2018 gli è stata conferita la laurea honoris causa alla memoria e dopo 100 anni ha avuto simbolicamente il riconoscimento che non aveva potuto raggiungere a causa della guerra.
Una settimana prima di morire, in attesa di andare in prima linea, Mario Cambiucci così scriveva:

Qua continua ad infuriare la battaglia, ma noi sentiamo fortunatamente questa lotta solo da lontano. Son rombi, boati immensi che soprattutto nella notte si distinguono chiari, numerosi, enormi e diffondono per l’aria un’eco che fa rabbrividire mentre lassù sulle colline squassate, insanguinate, macerate, arse è una ridda cupa di razzi, di lampi e di fiamme. Nella notte si guarda al Carso come alla bocca di un’orrenda, smisurata fornace e quando si pensa che milioni di uomini lassù, vegliano, vigilano ansiosamente, laceri, affamati e stanchi per settimane e mesi ininterrottamente e si azzuffano e si macellano, più che inorriditi si rimane stupefatti e ci si domanda per la millesima volta: “Ma perché mai tutto questo?”

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