Quattro sonetti di Leonida Marzari

(introduzione) Anche questa volta si tratta di una scoperta che esce dalle carte dell’archivio parrocchiale in riordino. Ho trovato un vecchio numero de “La Piê” ed aprendolo scopro questo articolo che presenta quattro sonetti del castellano Leonida Marzari, personaggio assai conosciuto nella Castel bolognese dell’ottocento. Si tratta di quattro sonetti in vernacolo romagnolo che contengono molti riferimenti a Castel Bolognese ed in particolare dei primi tre possiamo risalire all’anno di composizione, poiché rivelatrice è la frase: “l’è tri enn, int San Franzes-c, la ‘l sa, i sciantè la tësta a la Madona!”. Poiché l’oltraggio si consumò nella notte tra il 21 e il 22 maggio 1893, quei sonetti sono stati scritti nel 1896. Anche per la quarta lirica si può stabilire la probabile data di composizione: infatti si legge: E a San Franzesch? L’è squert la Madunena: êter che da Li u n’ s’ pó fê zirimogni. Pertanto si farebbe riferimento ai lavori successivi al crollo della cupola della chiesa a causa del terremoto del 1854, che furono compiuti dall’architetto Costantino Galli e vennero terminati nel 1866; il sonetto quindi fu probabilmente scritto in quel periodo. (Paolo Grandi)

Articolo senza firma tratto da: La Piê – Anno 47, numero 4, luglio-agosto 1978.

Leonida Marzari di Castel Bolognese è figlio del tenace patriota Francesco, che patì il carcere di Paliano. Suo fratello, Giovanni Battista, fece parte del manipolo dei fratelli Cairoli che nel 1867 si batté a Villa Glori. Il Marzari partecipò volontario alla guerra del 1859. Combatté in qualità di ufficiale alle guerre del 1860 e del 1866 e alla repressione del banditismo nel sud.
In questi quattro sonetti, di buona fattura, dimostra una facile vena di verseggiatore ed una notevole conoscenza dell’ortografia, un particolare che denota una produzione in vernacolo romagnolo certamente più nutrita dei tre elaborati gentilmente inviati alla redazione de “La Piê” dal nipote Francesco Marzari.

“Nunziêda di Castel Bolognese racconta alla Signora Chiara N. di Faenza, nell’occasione della Fiera di San Pietro, il pellegrinaggio diocesano di Imola – 21 giugno 1896”.

– Cs’i n disla, ch’beli rob, ân? Sgnora Cera!
La santa religion la va in dsunor!
I piligren i mêrcia int e’ vapor,
e e’ Crest i ‘l manda int un caret da gera.

Quii ‘d Chesla, qui d’Ariol e quii ‘d Bagnera
passend sla strê i geva: – In ste buolor,
ma do’ purtiv che povar nost Signor?
– e e’ caritir: – Baracca a fé stassera!-

– Me za a n’ capess mei gnit, a só una dona!
J’ anérchic, l’è tri enn, int San Franzes-c,
la ‘l sa, i sciantè la tësta a la Madona!

Mo adëss j’ è prit, mo pez e ch’ n’ è i tudes-c,
e Crest a un caritir i l’abandona,
e lô i s’ la va in carozza bel e fres-c.

Sei giorni dopo ritorna il Cristo. Majina rincara la dose.

– Va’ là povra Nunziêda, t’hei rason;
l’è giost e’ sfog de tu bon sentiment;
l’è un fat ch’u s’ved, ma propi certament,
ch’e’ va in disunor la nostra religion!

U n’ gnì è da di’ ch’i seja framasson,
anérchic, sucialesta od arident
clô’ ch’ fa ‘d st’el rob; ma j’ è propi cla zent
ch’ i magna adoss a Crest, massa ‘d birbon!

Tot s’cardeva ch’ j’ avess arimigiê
A purtê’ con decor indrì ste Crest!
Se pu … ma intant l’è stê tot fiê spracchë.

Int e’ caret da gêra, me a l’ho vest
Turness a ca, condot da on schêlz smanghë,
a que e’ badil, a lè el pulpet ‘t e’ zest.

Don Currò

– Tacete, male lingue scandalose –
e’ ‘ge arivend allora Don Currò –
A che tanto gradar per mere cose?
Quello non è il Signor, è un rococò.

Non puon le tasche dalle tasse rôse
dar più di dieci soldi a chi il portò;
l’umiltà delle cose religiose
vieta il fasto ed il lusso dei landò –

– Va’ bén – e’ ‘ge Minghet de capanël –
Ma un dè che rococò int un trapasset (1)
U m’ s’ avsinè int ‘na procission ‘d Castël,

ôn ‘d quii dla cumpagneja ch’ eva e’ ruchet (2)
u m’ de un scaplot e u m’ ‘ge: zo che capël!
T’ a n’ vi chi ch’passa? A Dio u i vö rispet.

Traduzione:
Cosa ne dice e che belle faccende, non le pare? Signora Chiara! / La santa religione viene disonorata! / I pellegrini marciano in treno, / e il Crocifisso viene spedito con un carretto da trasportare ghiaia. / Quelli di Casola, quelli di Riolo e quelli di Bagnara, / passando per la strada, dicevano: – ma dove portate / quel povero nostro Signore, con questa calura?- / E il carrettiere: – Questa sera facciamo baldoria!- / Io, naturalmente, non capisco mai niente: sono una donna! / gli anarchici ora son tre anni, in San Francesco , / ella lo sa, ruppero la testa alla Madonna! / Ma ora sono i preti, ancor peggio dei tedeschi, / che lasciano Cristo nelle mani di un carrettiere / ed essi se ne vanno in carrozza con ogni comodità.

Va là Annunziata! Tu hai ragione: / è un giusto sfogo del tuo buon sentimento: / è un fatto che si vede, ma proprio chiaramente, / che cade nel disonore della nostra religione! / Non si può dire che siano framassoni, / anarchici, socialisti o miscredenti, / coloro che fanno di queste azioni; ma sono proprio quelle persone / che vivono alle spalle di Cristo, massa di birbanti! / Tutti si credevano che avessero rimediato / a riportare indietro con decoro questo Crocifisso! / Proprio così … ma intanto è stato tutto fiato sprecato. / Io l’ho visto ritornare a casa nel carretto da ghiaia, / guidato da uno (che era) scalzo e senza maniche, / e da una parte c’era il badile e dall’altra le “polpette” (escrementi degli equini…) in un cesto.

-Tacete male lingue scandalose- / disse Don Currò arrivando in quel momento. / -A che tanto gridar per mere cose?- / Quello non è il Signore, è un rococò. / Le tasche, impoverite dalle tasse, / non possono dare più di dieci soldi a chi lo portò / (inoltre) l’umiltà della pratica religiosa / vieta lo sfarzo ed il lusso delle carrozze signorili. / -Sia pure- disse Menichetto del capannello / –ma un giorno quel “rococò” mi si avvicinò per un vicoletto, / in una processione di Castel Bolognese / e uno di quelli della compagnia che aveva il rocchetto / mi diede uno scappellotto e mi disse: giù il cappello! / Non vedi chi passa? A Dio ci vuole rispetto.

Note:
(1) Vicoletto
(2) Il Vescovo

AGUNEIA DLA SERAFINA

J’ artocca cul campân totta mattena,
una volta e’ Suffragi e do a San Ptrogni.
E a San Franzesch? L’è squert la Madunena:
êter che da Li u n’ s’ pó fê zirimogni.

Mo chi è mai ch’ sta in aguneia, in pena
E ch’ j’ aracmanda a Dio e a Sânt Antogni?
Mo, donca, a n’ e’ savì? L’è Sarafena
Ch’ u s’ la vö purtȇ’ vi’ e’ su dimogni.

Mo za jir l’ era a lè: int un mument,
la caschè com’ un blac senza parlȇ:
u j’ era vnu ad bon un azzident.

I dis ch’ l’ è un azzident ch’ u s’ j’ è atachȇ
Pr’ e’ mȇl ch’ l’ha sempar fat a tot la zent,
e che la n’ pó muri’ e né campȇ..

Traduzione:
AGONIA DELLA SERAFINA – Tutta la mattina non è che un rintoccar di campane, / una volta al Suffragio e due a San Petronio. / E a San Francesco? La Madonnina ha il tetto scoperto: / solo a Lei non si possono fare cerimonie. Ma chi è mai in agonia, in pena, / e che raccomandano a Dio e a Sant’Antonio? / Ma non lo sapete? È la Serafina, / che se la porta via il suo demonio. Ancora ieri era lì: in un attimo, / cadde a terra come uno straccio, senza dir parola: / le era venuto proprio un accidente. / Dicono che l’ha presa un accidente / per il male che ha sempre fatto a tutti, / e che non può né morire, né stare al mondo.

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